La Consulta sul “caso Regeni”: equilibrismi ed insidie nella sentenza n. 192 del 2023

Potrebbe apparire inconsueto riferire una decisione della Corte costituzionale ad una vicenda giudiziaria. Difatti la Consulta, per quel che qui interessa, è deputata a sindacare la legge ordinaria sospetta di incompatibilità con la Carta repubblicana, di cui essa è guardiana, nella sua posizione di indipendenza rispetto alla sfera della politica, seppure sia antica quanto la Costituzione la polemica sull’erosione, da parte della Corte, di spazi riservati al legislatore. Non possono negarsi, invero, gli effetti politici che spesso derivano dalle sue decisioni. Tuttavia non bisogna smarrire il senso e il rispetto dei moduli del processo costituzionale, non ispirati alla logica del singolo caso ma riconducibili ad uno standard generalizzabile, per una più intensa tutela dei diritti. Se così non fosse, la dinamica dei rapporti tra i poteri dello Stato si trasformerebbe in una corsa demagogica alla popolarità e al potere che ne deriva, specie in una società dominata dall’influenza mediatica (G. Silvestri, Del rendere giustizia costituzionale, in Quest. Giust., 13 novembre 2020, p. 4).
Tanto posto, approcciarsi alle pagine della sentenza n. 192 del 2023 della Consulta significa, senza dubbio, districarsi sulle lenti da indossare: con le lenti del giurista, infatti, le soluzioni della Corte sono leggibili in maniera assai diversa da come potrebbe leggerle chi quelle lenti non le indossa, di fronte ad un evento doloroso e, forse, umanamente inaccettabile.
È nota la triste vicenda che ha visto Giulio Regeni vittima di non meglio ancora ricostruite condotte perpetrate in Egitto da taluni cittadini egiziani, appartenenti al servizio di sicurezza interno nazionale, che hanno provocato la morte del giovane ricercatore italiano. Risale al 2021 l’avvio del processo davanti al Gup di Roma nei confronti dei suddetti cittadini egiziani, a seguito dell’esercizio dell’azione penale per le imputazioni di lesioni personali aggravate, omicidio aggravato e sequestro di persona aggravato. L’avvio del percorso processuale si era immediatamente interrotto a causa della mancanza di prova sulla conoscenza effettiva della vocatio in iudicium da parte degli imputati, che aveva fatto ritenere al giudice del dibattimento, nel rispetto delle norme di rito, di sospendere il processo, non essendo provato che i medesimi stessero tentando di sottrarsi al giudizio o avessero rinunciato al diritto a parteciparvi. Avverso il provvedimento di sospensione, era stato proposto un inammissibile ricorso per Cassazione, deciso con una articolata sentenza della Corte di legittimità, che aveva ribadito come le norme processuali che consentono di procedere in assenza dell’imputato costituiscano l’esito di molteplici interventi del legislatore, a seguito di una serie di condanne inflitte all’Italia dalla Corte EDU. Il diritto a partecipare al proprio processo costituisce una garanzia inderogabile, non bilanciabile con altre, parte integrante del patrimonio di quelle prerogative costituzionali dedicate all’accusato e che concorrono a realizzare i precetti contenuti nell’art. 111 Cost. Tanto che, anche con l’ultima riforma del rito penale, il legislatore è intervenuto ad apportare specificazioni alla disciplina, onde ribadire che la conoscenza della vocatio in ius non può ritenersi presunta né desunta da indizi o indici di alcun tipo, concorrendo a garantire la pienezza del contraddittorio, oltre che il diritto di difesa dell’accusato (anche nella declinazione di autodifesa – Corte cost., n. 65 del 2023).
L’effetto impediente provocato dalla disciplina processuale sul processo in absentia ha indotto allora il Gup presso il tribunale di Roma a sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 420-bis, c. 2, c.p.p. nella parte in cui «non prevede che il giudice procede in assenza dell’imputato, anche quando ritiene altrimenti provato che l’assenza dall’udienza sia dovuta alla mancata assistenza giudiziaria o al rifiuto di cooperazione da parte dello Stato di appartenenza o di residenza dell’imputato», nonché dell’art. 420-bis, c. 3, c.p.p., «nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza dell’imputato anche fuori dei casi di cui ai commi 1 e 2, quando ritiene provato che la mancata conoscenza della pendenza del procedimento dipende dalla mancata assistenza giudiziaria o dal rifiuto di cooperazione da parte dello Stato di appartenenza o di residenza dell’imputato», evocando la violazione dei parametri costituzionali di cui agli artt. 2, 3, 24, 111, 112 e 117 Cost. (quest’ultimo in relazione alla Convenzione contro la tortura, adottata a New York il 10 dicembre 1984, ratificata con la legge 3 novembre 1988, n. 498). Nelle prospettazioni del rimettente — che ha sollecitato una pronuncia additiva non circoscritta al titolo di reato (ciò che potrebbe, quindi, rientrare nel concetto di tortura) — più che la norma censurata, sarebbe stata l’intera vicenda processuale a creare un attrito con gli artt. 2 e 3 Cost., consentendo alla Stato estero non collaborativo, di erigere una “zona franca di impunità” per i delitti contro la persona. Inoltre, l’impossibilità di agire in giudizio con la costituzione di parte civile per i familiari della vittima, avrebbe violato l’art. 24 Cost., oltre che l’art. 111 Cost. e i princìpi del giusto processo “per le vittime” e l’art. 112 Cost., restando subordinata l’azione penale al potere esecutivo dello Stato straniero. Infine, la violazione dell’art. 117, comma 1, Cost., sarebbe derivata dall’inadempimento alla ricordata Convenzione di New York, rientrando -a parere del rimettete- i fatti oggetto delle imputazioni, nella nozione enunciata dall’art. 1 della Convenzione in discorso.
Dinnanzi a tanto, dopo aver ripercorso la disciplina del processo in assenza, frutto di adeguamenti ripetuti allo statuto convenzionale dei diritti, oltre che a quello costituzionale, il Giudice delle leggi si è soffermato ancora una volta su singoli aspetti della particolare vicenda processuale, onde ritenere la rilevanza delle questioni sollevate e passare al vaglio di merito, considerandole fondate solo in riferimento agli artt. 2, 3 e 117 Cost.
Saltando abilmente l’ostacolo, la sentenza ha omesso del tutto l’analisi delle questioni di possibile incompatibilità della disposizione censurata con gli artt. 24, 111 e 112 Cost.: qualsiasi velleità di comparazione della disciplina contenuta nell’art. 420-bis c.p.p. con i princìpi fondamentali consacrati negli artt. 24 e 111 Cost., d’altronde, sarebbe esitata nella mera riaffermazione della sua piena compatibilità con la Carta. Anche un eventuale tentativo di bilanciare il diritto di difesa dell’accusato con quello delle persone offese o, ancor di più, il “diritto al giusto processo dei parenti della vittima” con le garanzie contemplate dall’art. 111 Cost. per il solo accusato, avrebbe sortito l’effetto esattamente opposto a quello perseguito dalla Corte, che ha evitato qualsiasi sforzo interpretativo per non entrare, probabilmente, in contraddizione con sé stessa. Nell’impossibilità, allora, di disconoscere il valore sovraordinato a diritti processuali di indubbio radicamento nella CEDU e nella Carta costituzionale, l’organo che di questa rappresenta ancora il custode, ha individuato una soluzione che, di fatto, consente comunque di svalutarne la rilevanza operativa. L’unica via percorsa dalla sentenza è stata quella della comparazione della norma censurata con gli artt. 2, 3 e 117 Cost. in relazione alla Convenzione contro la tortura. La Corte si è premurata di riportare le parti del testo internazionale che offrono la definizione di “tortura” e di “tortura di Stato” (§§ 7 e 7.1.1.), nonché la giurisprudenza della Corte europea sulle violazioni dell’art. 3 CEDU, limitandosi ad un riferimento alla fattispecie di tortura introdotta nell’ordinamento italiano a partire dal 2017 (artt. 613-bi e 613-ter c.p.), sebbene si tratti di fattispecie per cui il pubblico ministero, nel caso di specie, non aveva esercitato l’azione penale, trattandosi di reato introdotto in Italia successivamente alla commissione dei fatti ascritti agli imputati egiziani. Affermando che «le condotte di cui alle imputazioni sarebbero sussumibili comunque nella nozione di tortura» (§ 7.1.2), la Consulta si è con destrezza liberata degli ostacoli posti dal divieto di retroattività in peius e dal difetto di contestazione che avrebbero, in verità, potuto eliminare in radice la rilevanza e la fondatezza delle questioni di illegittimità costituzionale. A dire della Corte, invece, «l’aporia processuale denunciata dal rimettente rivela una lacuna ordinamentale non appena la si relazioni con le peculiarità del delitto di tortura» […] La lacuna -data dall’impossibilità di notificare agli imputati l’avviso dell’udienza- «precludendo l’accertamento giudiziale della commissione dei reati di tortura, offende quindi la dignità della persona e ne comprime il diritto a non essere vittima di tali atti» violando l’art. 2 Cost., in quanto impedendo sine die la celebrazione del processo per l’accertamento del reato di tortura, annulla il diritto inviolabile della persona che di tale reato è stata vittima (§ 9). E la presunzione di non colpevolezza, a cui pure la Consulta ha sentito il bisogno di accennare soltanto, è rimasta “ferma”, appunto, ad un solo accenno a cui sono seguite le [ri]affermazioni sull’importanza del diritto dell’imputato di presenziare al suo processo che, nel caso di specie, dovrebbero agire con una diversa scansione temporale del loro esercizio (§ 10).
L’anima “politica” della sentenza si è palesata nelle ultime pagine (§ 14): la Corte ha delimitato la decisione di accoglimento premurandosi di circoscrivere la declaratoria di illegittimità della norma, che non attiene ad ogni ipotetica fattispecie in cui la notifica brevi manu della vocatio all’imputato sia resa impossibile dalla mancata assistenza dello Stato di appartenenza, ma inerisce solo alle imputazioni di tortura. Alla delimitazione oggettiva, poi, la Corte ha sentito il bisogno di addizionare anche quella soggettiva, bastata cioè sulla qualità dell’autore dell’ipotizzato delitto: soltanto l’agente della funzione pubblica. Come a dire che, ogni altro crimine, pure a rilevanza internazionale, ma altresì il crimine stesso di tortura, commesso da un comune cittadino, sia meno meritevole di essere perseguito rispetto a quello commesso da un autore qualificato alla stregua di agente della funzione pubblica. Ed è la ragionevolezza, allora, a svanire dietro le delimitazioni siffatte, volte a giustificare una deroga importante alla disciplina del processo in absentia e a mostrare, al tempo stesso, le sembianze di una Consulta, neanche troppo compiaciuta, che si è adoperata – con qualche eccesso – per non frustrare l’aspettativa di giustizia di cittadini che ad essa si erano rivolti fiduciosi, alleggerendosi delle vesti di controllore tecnico della conformità o difformità tra norme e princìpi supremi. Che l’aspettativa ne esca davvero soddisfatta, sarà il tempo a dimostrarlo…