L’affettività in carcere nei “ritrovati” equilibri della Consulta (Corte cost., 26 gennaio 2024, n. 10)

Ripensamenti, prese d’atto e bilanciamenti: li ritroviamo nella pronuncia della Consulta n. 10 del 2024, con la quale è stata ricondotta “a legittimità costituzionale una norma irragionevole nella sua assolutezza e lesiva della dignità delle persone”. Si tratta dell’art. 18 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del comportamento della persona detenuta in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né, riguardo all’imputato, ragioni giudiziarie.
Dietro le righe della declaratoria si ritrova una Corte costituzionale sensibile, pronta a prender atto dell’inerzia del legislatore e ad andare nella giusta direzione, questa volta, e cioè quella della rimozione dell’ostacolo “normativo”, per il detenuto, a disporre di una porzione significativa di libera disponibilità del proprio corpo e del proprio esprimere affetto, a coltivare in modo pieno le relazioni affettive, a mantenere i suoi legami familiari.
Già investita delle questioni relative alla medesima disposizione della legge di ordinamento penitenziario, la Consulta ne aveva in passato dichiarato l’inammissibilità, argomentando che «l’eliminazione del controllo visivo durante i colloqui del detenuto non basterebbe comunque, di per sé, a realizzare l’obiettivo perseguito, dovendo necessariamente accedere ad una disciplina che stabilisca termini e modalità di esplicazione del diritto di cui si discute: in particolare, occorrerebbe individuare i relativi destinatari, interni ed esterni, definire i presupposti comportamentali per la concessione delle “visite intime”, fissare il loro numero e la loro durata, determinare le misure organizzative»; operazioni che – proseguiva la Corte – «implicano, all’evidenza, scelte discrezionali, di esclusiva spettanza del legislatore: e ciò, anche a fronte della ineludibile necessità di bilanciare il diritto evocato con esigenze contrapposte, in particolare con quelle legate all’ordine e alla sicurezza nelle carceri e, amplius, all’ordine e alla sicurezza pubblica» (Corte cost., n. 301 del 2012).
Pure in quell’occasione, tuttavia, nonostante le ragioni di inammissibilità delle questioni, la Corte delle leggi non mancò di sottolineare come esse sottintendessero «una esigenza reale e fortemente avvertita, quale quella di permettere alle persone sottoposte a restrizione della libertà personale di continuare ad avere relazioni affettive intime, anche a carattere sessuale»; esigenza che – già si precisò allora – non trova una risposta adeguata nell’istituto dei permessi premio, «la cui fruizione – stanti i relativi presupposti, soggettivi ed oggettivi – resta di fatto preclusa a larga parte della popolazione carceraria». Quasi a voler smentire, quindi, quell’apparente logica di bilanciamento che, pure secondo visioni indulgenti, si sarebbe potuta individuare nei rapporti tra controllo a vista dei colloqui, permessi premio e diritto all’affettività, nella speranza che il legislatore, pigro e reticente, accogliesse l’invito a metter mano su una disciplina che, nel tempo, si è dimostrata contraria alla Costituzione e ad alcuni principi espressi dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
I parametri di riferimento sono presto intuibili, poiché traducono il «volto costituzionale» della pena, che è una sofferenza in tanto legittima in quanto inflitta «nella misura minima necessaria» (Corte cost. n. 179 del 2017; nello stesso senso, sentenze n. 28 del 2022 e n. 40 del 2019). Viene così in rilievo subito l’art. 3 Cost., a sostenere l’irragionevolezza della prescrizione del controllo a vista sullo svolgimento del colloquio del detenuto con le persone a lui legate da stabile relazione affettiva, in quanto disposta in termini assoluti e inderogabili, che si risolve in una compressione sproporzionata e in un sacrificio irragionevole della dignità della persona, sempre che, tenuto conto del comportamento del detenuto in carcere, non ricorrano in concreto ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina. Qui la Corte considera anche il riverberarsi delle restrizioni siffatte sulle persone che, legate al detenuto da stabile relazione affettiva, subiscono forti limiti nella possibilità di coltivare il rapporto con il partner, anche per anni, pur essendo estranee al reato e alla condanna. L’impossibilità per il detenuto di esprimere una normale affettività si traduce in vulnus per le relazioni nelle quali si svolge la sua personalità, in un pregiudizio nei rapporti, esposti pertanto ad un progressivo impoverimento e al rischio della disgregazione. È una situazione che, evidentemente, si rivela inidonea alla finalità rieducativa e realizza uno strappo al tessuto dell’art. 27, terzo comma, Cost., in grado di compromettere altresì la salute psicofisica del detenuto, garantita dall’art. 32 Cost.
Ma il carattere assoluto e indiscriminato del divieto di esercizio dell’affettività intramuraria, quale deriva dall’inderogabilità della prescrizione del controllo a vista sullo svolgimento dei colloqui, non è insensibile, secondo la Consulta, neppure al diritto al rispetto della vita privata e familiare, garantito dal § 1 dell’art. 8 CEDU (tramite il parametro di cui all’art. 117, 1° comma, Cost.), malgrado la norma convenzionale non copra espressamente tale prerogativa. La Corte delle leggi richiama gli orientamenti di Strasburgo maturati attorno al tema dell’affettività in carcere, per dare atto che, per la Cedu, la materia dell’affettività e della sessualità inframuraria deve essere regolata dal legislatore, titolare di una potestà ampiamente discrezionale. La Corte europea, nell’escludere che la Convenzione imponga agli Stati contraenti di prevedere le visite a lungo termine, ha affermato la necessità della previsione per legge del divieto ma anche quella di un bilanciamento tra l’interesse dell’autorità a vietare le visite intime e i diritti dei detenuti convenzionalmente protetti (Corte EDU, 19 settembre 2007, Ciorap c. Moldavia).
In sostanza, per la Corte europea, gli Stati non sono obbligati a riconoscere le conjugal visits, poiché godono al riguardo di un vasto margine di apprezzamento; e il singolo ordinamento può di certo rifiutare l’accesso alle visite coniugali quando ciò sia giustificato da obiettivi di prevenzione del disordine e del crimine, ai sensi del paragrafo 2 dell’art. 8 CEDU. Ad essere richiesto, nella logica della Corte dei diritti umani e della sua giurisdizione sul caso singolo, è comunque sempre un «fair balance» tra gli interessi pubblici e privati coinvolti, all’insegna della proporzionalità, da vagliare caso per caso (Corte EDU, GC, 4 dicembre 2007, Dickson c. Regno Unito; Corte EDU, 19 settembre 2007, Ciorap c. Moldavia; Corte EDU, 29 aprile 2003, Aliev c. Ucraina). È questo l’argomento utile a giustificare, forse, più che la declaratoria di incompatibilità con l’art. 8 CEDU del sistema interno, il carattere convenzionalmente orientato della dichiarazione di illegittimità costituzionale.
È così presto tracciato il percorso che conduce i giudici della Consulta a ristabilire alcuni tasselli di quel un percorso di umanizzazione della pena e di risocializzazione del detenuto, che meglio si assestano a leggere quelle vere e proprie linee guida tracciate nelle pagine successive.
Con decisa deferenza (G. Silvestri, La dignità umana dentro le mura del carcere, p.  5) verso un legislatore riluttante al cambiamento, la Corte costituzionale, infatti, si fa carico del compito di supplenza all’inerzia legislativa nell’ultima parte della sentenza, pur consapevole dell’impatto della sua decisione sulla gestione degli istituti penitenziari, già gravati da persistenti problemi di sovraffollamento.
Vale qui sottolineare che il giudicato costituzionale si staglia su un contesto normativo lacunoso e, a tratti, mancante, che potrebbe di fatto svuotare di contenuti il diritto riconosciuto dalla Consulta. È la lacuna normativa a giustificare tutte le indicazioni sui limiti, sui modi e sui tempi del diritto all’affettività in carcere, contenute nell’ultima parte della sentenza (§§ 6, 7 e 8) e che costituiscono “il gancio normativo” sufficiente a consentire di provvedere – tramite circolare o per via regolamentare – sull’esercizio del diritto medesimo (V. A. Pugiotto, Della castrazione di un diritto. La proibizione della sessualità in carcere come problema di legalità costituzionale, p. 37). Si tratta di direttive dettagliate, impartite dalla Corte per “blindare” quel perimetro, abbastanza ampio e non restringibile, entro il quale il detenuto può coltivare le proprie relazioni affettive, di cui va verificata la stabilità: ferma la discrezionalità del legislatore che vorrà provvedere, è già la sentenza a chiarire che la durata dei colloqui intimi, da consentire in modo “non sporadico”, deve essere adeguata all’obiettivo di consentire al detenuto e al suo partner un’espressione piena dell’affettività, che non necessariamente implica una declinazione sessuale, ma neppure la esclude. Cosicché è necessario che sia assicurata la riservatezza del locale di svolgimento dell’incontro, il quale, per consentire una piena manifestazione dell’affettività, deve essere sottratto all’osservazione interna da parte del personale di custodia (che dunque vigilerà solo all’esterno), ma anche allo sguardo degli altri detenuti. Nella fruizione dei locali predisposti per l’esercizio dell’affettività (i quali verosimilmente saranno, almeno all’inizio, una “risorsa scarsa”) sono favorite le visite prolungate per i detenuti  che non usufruiscono di permessi premio: muta, quindi, quella prospettiva che, collocando in una dimensione esclusivamente extramuraria il diritto all’affettività, aveva finito per negarlo a quella larga parte della popolazione carceraria cui, per ragioni diverse, è preclusa la fruizione dei permessi premio
Esclusa ogni possibilità di avere colloqui affettivi per coloro che sono sottoposti al regime speciale di detenzione di cui all’art. 41-bis ordin. penit., ed esclusa, forse, la possibilità di colloqui intimi tra il soggetto detenuto e il partner “occasionale”, non sussistono impedimenti normativi che precludano l’esercizio dell’affettività intra moenia ai detenuti per i cosiddetti reati ostativi (art. 4-bis ord. penit.): l’ostatività del titolo di reato, spiega la Corte, inerisce alla concessione dei benefici penitenziari e non riguarda le modalità dei colloqui. È una precisazione preziosa, che recide da subito eventuali apposizioni di limiti ulteriori ai diritti dei detenuti “ostativi”.
Quello che si può ammirare da dietro le sbarre, allora, è un panorama nuovo, disegnato da una Corte costituzionale impegnata a cancellare quella metamorfosi della pena in una punizione “sentimentale”: d’altronde, e sarà forse poco originale ribadirlo, «chi si trova in stato di detenzione, pur privato della maggior parte della sua libertà, ne conserva sempre un residuo, che è tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale»: Corte cost., n. 394 del 1993).


La Consulta sul “caso Regeni”: equilibrismi ed insidie nella sentenza n. 192 del 2023

Potrebbe apparire inconsueto riferire una decisione della Corte costituzionale ad una vicenda giudiziaria. Difatti la Consulta, per quel che qui interessa, è deputata a sindacare la legge ordinaria sospetta di incompatibilità con la Carta repubblicana, di cui essa è guardiana, nella sua posizione di indipendenza rispetto alla sfera della politica, seppure sia antica quanto la Costituzione la polemica sull’erosione, da parte della Corte, di spazi riservati al legislatore. Non possono negarsi, invero, gli effetti politici che spesso derivano dalle sue decisioni. Tuttavia non bisogna smarrire il senso e il rispetto dei moduli del processo costituzionale, non ispirati alla logica del singolo caso ma riconducibili ad uno standard generalizzabile, per una più intensa tutela dei diritti. Se così non fosse, la dinamica dei rapporti tra i poteri dello Stato si trasformerebbe in una corsa demagogica alla popolarità e al potere che ne deriva, specie in una società dominata dall’influenza mediatica (G. Silvestri, Del rendere giustizia costituzionale, in Quest. Giust., 13 novembre 2020, p. 4).
Tanto posto, approcciarsi alle pagine della sentenza n. 192 del 2023 della Consulta significa, senza dubbio, districarsi sulle lenti da indossare: con le lenti del giurista, infatti, le soluzioni della Corte sono leggibili in maniera assai diversa da come potrebbe leggerle chi quelle lenti non le indossa, di fronte ad un evento doloroso e, forse, umanamente inaccettabile.
È nota la triste vicenda che ha visto Giulio Regeni vittima di non meglio ancora ricostruite condotte perpetrate in Egitto da taluni cittadini egiziani, appartenenti al servizio di sicurezza interno nazionale, che hanno provocato la morte del giovane ricercatore italiano. Risale al 2021 l’avvio del processo davanti al Gup di Roma nei confronti dei suddetti cittadini egiziani, a seguito dell’esercizio dell’azione penale per le imputazioni di lesioni personali aggravate, omicidio aggravato e sequestro di persona aggravato. L’avvio del percorso processuale si era immediatamente interrotto a causa della mancanza di prova sulla conoscenza effettiva della vocatio in iudicium da parte degli imputati, che aveva fatto ritenere al giudice del dibattimento, nel rispetto delle norme di rito, di sospendere il processo, non essendo provato che i medesimi stessero tentando di sottrarsi al giudizio o avessero rinunciato al diritto a parteciparvi. Avverso il provvedimento di sospensione, era stato proposto un inammissibile ricorso per Cassazione, deciso con una articolata sentenza della Corte di legittimità, che aveva ribadito come le norme processuali che consentono di procedere in assenza dell’imputato costituiscano l’esito di molteplici interventi del legislatore, a seguito di una serie di condanne inflitte all’Italia dalla Corte EDU. Il diritto a partecipare al proprio processo costituisce una garanzia inderogabile, non bilanciabile con altre, parte integrante del patrimonio di quelle prerogative costituzionali dedicate all’accusato e che concorrono a realizzare i precetti contenuti nell’art. 111 Cost. Tanto che, anche con l’ultima riforma del rito penale, il legislatore è intervenuto ad apportare specificazioni alla disciplina, onde ribadire che la conoscenza della vocatio in ius non può ritenersi presunta né desunta da indizi o indici di alcun tipo, concorrendo a garantire la pienezza del contraddittorio, oltre che il diritto di difesa dell’accusato (anche nella declinazione di autodifesa – Corte cost., n. 65 del 2023).
L’effetto impediente provocato dalla disciplina processuale sul processo in absentia ha indotto allora il Gup presso il tribunale di Roma a sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 420-bis, c. 2, c.p.p. nella parte in cui «non prevede che il giudice procede in assenza dell’imputato, anche quando ritiene altrimenti provato che l’assenza dall’udienza sia dovuta alla mancata assistenza giudiziaria o al rifiuto di cooperazione da parte dello Stato di appartenenza o di residenza dell’imputato», nonché dell’art. 420-bis, c. 3, c.p.p., «nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza dell’imputato anche fuori dei casi di cui ai commi 1 e 2, quando ritiene provato che la mancata conoscenza della pendenza del procedimento dipende dalla mancata assistenza giudiziaria o dal rifiuto di cooperazione da parte dello Stato di appartenenza o di residenza dell’imputato», evocando la violazione dei parametri costituzionali di cui agli artt. 2, 3, 24, 111, 112 e 117 Cost. (quest’ultimo in relazione alla Convenzione contro la tortura, adottata a New York il 10 dicembre 1984, ratificata con la legge 3 novembre 1988, n. 498). Nelle prospettazioni del rimettente — che ha sollecitato una pronuncia additiva non circoscritta al titolo di reato (ciò che potrebbe, quindi, rientrare nel concetto di tortura) — più che la norma censurata, sarebbe stata l’intera vicenda processuale a creare un attrito con gli artt. 2 e 3 Cost., consentendo alla Stato estero non collaborativo, di erigere una “zona franca di impunità” per i delitti contro la persona. Inoltre, l’impossibilità di agire in giudizio con la costituzione di parte civile per i familiari della vittima, avrebbe violato l’art. 24 Cost., oltre che l’art. 111 Cost. e i princìpi del giusto processo “per le vittime” e l’art. 112 Cost., restando subordinata l’azione penale al potere esecutivo dello Stato straniero. Infine, la violazione dell’art. 117, comma 1, Cost., sarebbe derivata dall’inadempimento alla ricordata Convenzione di New York, rientrando -a parere del rimettete- i fatti oggetto delle imputazioni, nella nozione enunciata dall’art. 1 della Convenzione in discorso.
Dinnanzi a tanto, dopo aver ripercorso la disciplina del processo in assenza, frutto di adeguamenti ripetuti allo statuto convenzionale dei diritti, oltre che a quello costituzionale, il Giudice delle leggi si è soffermato ancora una volta su singoli aspetti della particolare vicenda processuale, onde ritenere la rilevanza delle questioni sollevate e passare al vaglio di merito, considerandole fondate solo in riferimento agli artt. 2, 3 e 117 Cost.
Saltando abilmente l’ostacolo, la sentenza ha omesso del tutto l’analisi delle questioni di possibile incompatibilità della disposizione censurata con gli artt. 24, 111 e 112 Cost.: qualsiasi velleità di comparazione della disciplina contenuta nell’art. 420-bis c.p.p. con i princìpi fondamentali consacrati negli artt. 24 e 111 Cost., d’altronde, sarebbe esitata nella mera riaffermazione della sua piena compatibilità con la Carta. Anche un eventuale tentativo di bilanciare il diritto di difesa dell’accusato con quello delle persone offese o, ancor di più, il “diritto al giusto processo dei parenti della vittima” con le garanzie contemplate dall’art. 111 Cost. per il solo accusato, avrebbe sortito l’effetto esattamente opposto a quello perseguito dalla Corte, che ha evitato qualsiasi sforzo interpretativo per non entrare, probabilmente, in contraddizione con sé stessa. Nell’impossibilità, allora, di disconoscere il valore sovraordinato a diritti processuali di indubbio radicamento nella CEDU e nella Carta costituzionale, l’organo che di questa rappresenta ancora il custode, ha individuato una soluzione che, di fatto, consente comunque di svalutarne la rilevanza operativa. L’unica via percorsa dalla sentenza è stata quella della comparazione della norma censurata con gli artt. 2, 3 e 117 Cost. in relazione alla Convenzione contro la tortura. La Corte si è premurata di riportare le parti del testo internazionale che offrono la definizione di “tortura” e di “tortura di Stato” (§§ 7 e 7.1.1.), nonché la giurisprudenza della Corte europea sulle violazioni dell’art. 3 CEDU, limitandosi ad un riferimento alla fattispecie di tortura introdotta nell’ordinamento italiano a partire dal 2017 (artt. 613-bi e 613-ter c.p.), sebbene si tratti di fattispecie per cui il pubblico ministero, nel caso di specie, non aveva esercitato l’azione penale, trattandosi di reato introdotto in Italia successivamente alla commissione dei fatti ascritti agli imputati egiziani. Affermando che «le condotte di cui alle imputazioni sarebbero sussumibili comunque nella nozione di tortura» (§ 7.1.2), la Consulta si è con destrezza liberata degli ostacoli posti dal divieto di retroattività in peius e dal difetto di contestazione che avrebbero, in verità, potuto eliminare in radice la rilevanza e la fondatezza delle questioni di illegittimità costituzionale. A dire della Corte, invece, «l’aporia processuale denunciata dal rimettente rivela una lacuna ordinamentale non appena la si relazioni con le peculiarità del delitto di tortura» […] La lacuna -data dall’impossibilità di notificare agli imputati l’avviso dell’udienza- «precludendo l’accertamento giudiziale della commissione dei reati di tortura, offende quindi la dignità della persona e ne comprime il diritto a non essere vittima di tali atti» violando l’art. 2 Cost., in quanto impedendo sine die la celebrazione del processo per l’accertamento del reato di tortura, annulla il diritto inviolabile della persona che di tale reato è stata vittima (§ 9). E la presunzione di non colpevolezza, a cui pure la Consulta ha sentito il bisogno di accennare soltanto, è rimasta “ferma”, appunto, ad un solo accenno a cui sono seguite le [ri]affermazioni sull’importanza del diritto dell’imputato di presenziare al suo processo che, nel caso di specie, dovrebbero agire con una diversa scansione temporale del loro esercizio (§ 10).
L’anima “politica” della sentenza si è palesata nelle ultime pagine (§ 14): la Corte ha delimitato la decisione di accoglimento premurandosi di circoscrivere la declaratoria di illegittimità della norma, che non attiene ad ogni ipotetica fattispecie in cui la notifica brevi manu della vocatio all’imputato sia resa impossibile dalla mancata assistenza dello Stato di appartenenza, ma inerisce solo alle imputazioni di tortura. Alla delimitazione oggettiva, poi, la Corte ha sentito il bisogno di addizionare anche quella soggettiva, bastata cioè sulla qualità dell’autore dell’ipotizzato delitto: soltanto l’agente della funzione pubblica. Come a dire che, ogni altro crimine, pure a rilevanza internazionale, ma altresì il crimine stesso di tortura, commesso da un comune cittadino, sia meno meritevole di essere perseguito rispetto a quello commesso da un autore qualificato alla stregua di agente della funzione pubblica. Ed è la ragionevolezza, allora, a svanire dietro le delimitazioni siffatte, volte a giustificare una deroga importante alla disciplina del processo in absentia e a mostrare, al tempo stesso, le sembianze di una Consulta, neanche troppo compiaciuta, che si è adoperata – con qualche eccesso – per non frustrare l’aspettativa di giustizia di cittadini che ad essa si erano rivolti fiduciosi, alleggerendosi delle vesti di controllore tecnico della conformità o difformità tra norme e princìpi supremi. Che l’aspettativa ne esca davvero soddisfatta, sarà il tempo a dimostrarlo…


Cumuli sanzionatori e ne bis in idem europeo: movimenti esegetici per uno statuto derogatorio purché proporzionato

Alla base di ogni movimento interpretativo sul divieto di bis in idem, nelle sue declinazioni e peculiarità, sta sempre il protagonismo nazionalistico nell’esercizio della potestà punitiva, ormai obsoleto e privo di ragion d’essere dinnanzi all’obiettivo primario e condiviso del principio, che è quello di tutelare l’individuo da un doppio processo e da una doppia punizione.
Forse è persino superfluo ricordare come con la Convenzione di Schengen si sia consolidato il riconoscimento dell’effetto del ne bis in idem ad un livello superiore a quello nazionale, sul presupposto di una comune e reciproca fiducia tra gli Stati europei: per effetto del suo art. 54 è stata attribuita al giudicato nazionale un’efficacia preclusiva in ordine all’esercizio dell’azione penale per lo stesso fatto in qualunque altro Stato membro ed è stata, pertanto, realizzata la sostanziale equiparazione tra le sentenze definitive pronunciate dagli Stati contraenti. Con il riconoscimento del divieto di un doppio processo in idem nell’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea si è prodotto, poi, un consolidamento ulteriore del divieto nella sua dimensione europea, configurandosi ormai come un vero e proprio diritto a tutela individuale contro una doppia punizione per lo stesso fatto. Il ne bis in idem assurge allora a garanzia generale nello spazio giuridico europeo, ed il suo inserimento nella Carta di Nizza, tra i diritti fondamentali dell’Unione, gli assicura il valore di principio generale nell’ambito del diritto europeo.
Il campo di applicazione europeo del divieto è più ampio rispetto alla protezione accordata dall’art. 4, Protocollo 7 CEDU, stante anche la natura delle norme convenzionali e la portata interna assicurata al principio da ciascuno Stato firmatario. Più in generale la Convenzione dei diritti umani presuppone, per la violazione, che sia la giurisdizione dello Stato ad avviare due procedimenti (anche natura diversa, nei confronti dello stesso soggetto, per lo stesso fatto). Mentre per il ne bis in idem nel quadro dell’Unione europea il vincolo è posto alle istituzioni europee e agli Stati membri, nella misura in cui questi diano attuazione, anche in diversi territori, al diritto dell’Unione.
In tale contesto di protezione integrato, si staglia un virtuoso dialogo tra Corti europee che, nel corso degli anni, ha portato inizialmente ad allargare il raggio di protezione del divieto, sebbene con movimenti ondivaghi, superando la vecchia concezione del principio, che da mero strumento atto a garantire la stabilità delle decisioni giudiziarie divenute irrevocabili, ha assunto quella fisionomia di diritto al quale appellarsi dinnanzi ad una molteplicità di situazioni che, sulla scorta delle legislazioni interne, possono portare ad un cumulo sanzionatorio, di varia natura. Ed è proprio questo il tratto evolutivo che, negli ultimi anni, ha posto in discussione la legittimità - europea e convenzionale - dei doppi binari sanzionatori a vario modo strutturati attorno ad un doppio binario di tutela.
Uno dei maggiori contributi forniti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo alla costruzione di uno statuto per accertare la violazione del ne bis in idem è rintracciabile, lo si ricorderà, nell’estensione della garanzia penalistica anche alle sanzioni amministrative di natura “sostanzialmente penale”: ciò che conta è, insomma, che il secondo procedimento abbia ad oggetto fatti che sono nella sostanza i medesimi che hanno costituito l’oggetto di un pregresso procedimento, già conclusosi con un provvedimento definitivo con effetti penali (CEDU, 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia), malgrado quel ripensamento successivo (CEDU, Gr. Ch., 15 novembre 2016, A & B c. Norvegia) con cui la Grande Chambre ha riaperto le porte al doppio binario sanzionatorio, introducendo il vago criterio - di matrice compromissoria - dell’esistenza di una «connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta» tra i due livelli di repressione.
Il revirement di Strasburgo ha incontrato solo parziali critiche da parte della Corte di Giustizia UE, proprio in virtù dell’indeterminatezza della regola di connessione (cfr. Corte GUE, 20 marzo 2018, Menci, C-524/15; Corte GUE, 20 marzo 2018, Garlsson, C-537/16; Corte GUE, 20 marzo 2018, Di Puma e Zecca, C-596/16 e C-597/16) sebbene nella sostanza, poi, anche da Lussemburgo siano pervenuti ripensamenti sull’assolutezza del divieto di procedere in idem nelle ipotesi di binari sanzionatori di diversa natura.
In linea di principio, la Grande Sezione ha affermato che il ne bis in idem europeo non è di per sé ostativo a un doppio binario qualora ciò sia previsto dalla legge ed essa persegua obiettivi di interesse generale che giustificano la duplicazione procedimentale e sanzionatoria. Il contrappeso dovrebbe individuarsi in meccanismi di coordinamento tali da ridurre entro allo stretto necessario lo “svantaggio” di un secondo giudizio e, quindi, di una seconda sanzione e da assicurare che il trattamento sanzionatorio complessivo sia proporzionato alla gravità dell’offesa.
Da ultimo, con un sforzo teorico tutto teso a salvaguardare, ancora una volta, i doppi binari sanzionatori e, pertanto, ad allargare troppo le maglie delle eccezioni al divieto, la Grande Sezione (Corte GUE, 22 marzo 2022, BPOST SA, C-117/20) ha affermato l’idoneità delle norme nazionali che prevedono cumuli sanzionatori a realizzare legittimi obiettivi di interesse generale, spettando al giudice interno valutare se il cumulo di sanzioni di natura penale possa essere giustificato, nella controversia di cui al procedimento principale, dal fatto che i procedimenti avviati da tali autorità riguardino scopi complementari vertenti su aspetti differenti della medesima condotta illecita.
Il riferimento alla medesima condotta illecita dissimula, in realtà, l’intento di graduare il divieto di procedere dinnanzi ad un’ipotesi di double jeopardy, rimettendo al sindacato giudiziale e alla normativa interna la possibilità di derogarvi. Il rischio, allora, che le eccezioni diventino regola, è assai alto.


Accordi e disaccordi: ancora sul ‘tempo’ per l’equa riparazione all’offeso e l’irragionevole durata delle indagini (Corte cost. n. 203 del 2021)

Sembra alimentare distanze quello scambio di battute tra la Corte di Strasburgo e la Corte costituzionale sul delicato tema della tutela dell’offeso dal reato che, determinatosi a ottenere ristoro nella sede penale, subisce le più profonde patologie del sistema inefficiente e della conseguente declaratoria di prescrizione già nella fase investigativa.
Alla base dell’ulteriore ordinanza di rimessione alla Consulta, questa volta, v’è stata sempre l’adduzione dell’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, con riferimento alla posizione della parte civile (avendo riguardo agli artt. 3 e 117 Cost. in relazione all’art. 6 paragrafo 1, CEDU) destinataria di una pregressa decisione di estinzione dei reati per prescrizione ancorata alla durata irragionevole delle indagini preliminari.
È noto l’attrito tra la norma suddetta e la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, a mente della quale nel diritto italiano la posizione della parte lesa che, in attesa di potersi costituire parte civile, abbia esercitato almeno uno dei diritti e facoltà ad essa riconosciuti dalla legislazione interna, non differisce, per quanto riguarda l’applicabilità dell’art.  6 CEDU, da quella della parte civile (Corte EDU, 7 dicembre 2017, Arnoldi c. Italia).
Ma già con la sentenza n. 249 del 2020 (per un commento v. https://www.diritticomparati.it/le-due-vie-per-il-ristoro-economico-delloffeso-dal-reato-che-escludono-lequa-riparazione-per-irragionevole-durata-delle-indagini-preliminari-corte-cost-n-249-del-2020/), pubblicata successivamente all’ordinanza di rimessione, la Corte delle leggi aveva scandagliato l’assetto generale, posto a base del codice di procedura penale del 1988 e ispirato a quell’idea di separazione dei giudizi: da una parte quello penale e, dall’altra, quello finalizzato alla soddisfazione delle pretese risarcitorie della persona offesa, che rimane- malgrado le più recenti prospettive che ne valorizzano le prerogative- un soggetto «eventuale del procedimento o del processo» (cfr. Corte cost., ord. n. 254 del 2011 e n. 339 del 2008).
In quell’occasione, la lettura della Corte costituzionale aveva valorizzato, in special modo, la doppia via percorribile dall’offeso per il conseguimento del ristoro economico al fine di escludere l’irragionevolezza nella diversità dei modi di intendere la fase investigativa per l’accusato a norma di quell’art. 2, comma 2-bis, della legge “Pinto”. Quasi a voler sostenere che, optando per l’esercizio dell’azione civile in seno al rito penale, l’offeso accetti il rischio dei condizionamenti, anche temporali, derivanti da quell’accessorietà che regola i rapporti – nel sistema vigente- tra azione penale e azione civile.
In proposito, anche la più recente esegesi costituzionale (Corte cost. n. 182 del 2021) ha richiamato il principio dell’“accessorietà” dell’azione civile rispetto a quella penale, che ha fondamento nelle “esigenze, di interesse pubblico, connesse all’accertamento dei reati e alla rapida definizione dei processi”. La sua naturale implicazione sta proprio nelle ricadute sull’azione civile che, ove esercitata all’interno del processo penale, “è destinata a subire tutte le conseguenze e gli adattamenti derivanti dalla funzione e dalla struttura” di quest’ultimo (Corte cost. n. 176 del 2019).
Superati i tecnicismi utili a ribadire l’impossibilità di assimilare il segmento del processo precedente all’esercizio dell’azione penale e il segmento successivo, sede tipica della costituzione di parte civile, onde rafforzare la ragionevolezza della diversificata tutela conseguente alla violazione della ragionevole durata per offeso e accusato, la Consulta- però- ha dovuto prender atto dell’ultima decisione della Corte europea dei diritti umani  nel caso “Petrella c. Italia” (Corte EDU, 18 marzo 2021, Petrella c Italia).
Seguendo la scia segnata dalla sentenza pronunciata nel caso “Arnoldi c. Italia”, con la sua ultima decisione la Corte di Strasburgo ha inteso aggiungere un tassello ulteriore agli assetti convenzionali di tutela della vittima avendo riguardo, nello specifico, non solo all’assenza di differenze sostanziali tra offeso e parte civile ai fini dell’operatività dell’art. 6 CEDU e del diritto alla durata ragionevole ma, altresì, alle aspettative di giustizia per la vittima che abbia optato per l’azione civile in sede penale.
Nella decisione “Petrella c. Italia”, la Corte di Strasburgo ha infatti vagliato la possibile lesione dell’art. 13 CEDU a causa dell’assenza di un rimedio effettivo nell’ordinamento interno, volto a contestare la durata irragionevole del procedimento, avendo il ricorrente criticato il rimedio rappresentato dalla legge Pinto, inadeguato poiché applicabile alla vittima solo nell’ipotesi di costituzione di parte civile. Sul punto i Giudici europei hanno dichiarato all’unanimità la violazione del parametro convenzionale in discorso, fugando ogni dubbio nell’accertamento della mancanza nell’ordinamento italiano di un rimedio effettivo finalizzato a porre in capo alla vittima uno strumento per lamentare l’irragionevole durata del procedimento penale.
Alla base del vaglio sulla violazione del right to court della vittima la Corte di Strasburgo ha posto la seguente premessa: se l’ordinamento permette all’interessato di tutelare il suo diritto in una sede giudiziaria, devono essere assicurate tutte le garanzie di cui all’art. 6 CEDU; e questo anche nell’ipotesi in cui egli avrebbe comunque la facoltà di agire avvalendosi di un’altra strada consentita dal sistema, con un ribaltamento- quindi- di quella prospettiva promossa dalla Consulta nella sentenza n. 249 del 2020.
Si tratta di aspetto che, per un attimo, ha fatto vacillare le convinzioni della Corte costituzionale, che non ha potuto che prender atto delle obiettive inerzie dell’autorità giudiziaria, le quali, perpetrandosi senza reali giustificazioni, portano alla chiusura del procedimento per decorso del tempo di prescrizione già nella fase investigativa. Le considerazioni di Strasburgo, come ha ben rilevato la Corte, «evidenziano la reale esistenza nell’ordinamento italiano di un problema effettivo – connesso, ma non coincidente, con quello oggetto dell’odierna questione – concernente il riconoscimento di un diritto della persona offesa (della “vittima del reato”, secondo la terminologia europea di recente adottata anche dal nostro legislatore) a un sollecito svolgimento delle indagini preliminari in vista di una altrettanto sollecita decisione sulla pretesa di risarcimento del danno da reato».
Ma la titubanza è stata solo apparente.
La presa d’atto dei malfunzionamenti sistemici, infatti, non ha indotto il Giudice delle leggi a individuare una soluzione nella declaratoria di illegittimità della norma che disciplina la decorrenza del computo del termine di ragionevole durata.
A prevalere, nell’ottica della Corte, è stata ancora la logica del sistema e la legalità in senso stretto che, in quanto tale, non può comportare una correzione dell’articolo censurato tale da rimettere al giudice dell’equa riparazione, alla luce delle circostanze del caso concreto, la determinazione della congruità del termine di durata in ragione delle modalità di esercizio di alcuno dei diritti e delle facoltà riconosciuti dall’ordinamento interno alla persona offesa, ove l’esercizio di tali diritti e facoltà miri, nella specie, a far valere un diritto di carattere civile e preannunci l’intenzione di costituirsi parte civile nel giudizio penale.
Il pregiudizio derivante, ex post, dalla scelta per una delle due possibilità offerte all’offeso dall’ordinamento per far valere il suo «diritto di carattere civile», sebbene metta a nudo i difetti del sistema, lesivi delle prerogative sia delle vittime che degli imputati, non è di per sé imputabile all’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, nella parte in cui tale norma determina la durata considerata ragionevole del processo penale per la parte civile.  Da tale congegno, infatti, esulano i profili attinenti all’accertamento di una qualche responsabilità correlata ai ritardi o alle inerzie nell’adozione o nella richiesta dei provvedimenti necessari a prevenire o reprimere comportamenti penalmente rilevanti.
L’accrescersi costante del ruolo della vittima non può cancellare la prevalenza delle esigenze tipiche in seno al rito penale, che non assurge a luogo di “vendetta privata”, né a sede di ristoro puramente economico del danno derivante dall’illecito. Le soluzioni, probabilmente, sono da individuare altrove e ne ha contezza la Corte costituzionale, che sembra riporre un ragionevole affidamento nelle prospettive di giustizia riparativa contemplate nella Delega per la riforma del sistema penale (L. 27 settembre 2021, n. 134). In effetti non può nascondersi che, se messi concretamente in atto, i meccanismi di restorative justice avranno la potenzialità di ribaltare l’odierna prospettiva: e cioè favorire quell’incontro per la riparazione tra offeso e offensore in modo da evitare, poi, l’accesso al giudice anche per lamentare l’irragionevole durata del procedimento, con guadagni significativi per l’efficienza e la tutela dei diritti individuali.


A margine di una recente sentenza della Corte di Giustizia UE (C-748/18): riflessi sinistri sulla disciplina delle intercettazioni in Italia

Deve indurre a riflettere l’ultima sentenza della Corte di Giustizie UE in materia di violazioni della privacy sebbene per esigenze di accertamento del reato e sicurezza sociale. Proprio il bisogno di combattere le diverse forme di criminalità induce spesso a pensare che tutto sia consentito alle autorità preposte alla tutela della collettività: enfatizzando la contrapposizione fra bene e male, la tendenza ad incentivare l’uso delle intercettazioni è istillata sempre più dall’idea di un’inevitabile restrizione delle libertà in favore della sicurezza, sul presupposto che il probo cittadino non avrebbe nulla a temere e, anzi, una sua eventuale resistenza sarebbe quantomeno sospetta (S. Rodotà, Libertà personale. Vecchi e nuovi nemici, in M. Bovero (a cura di), Quale libertà. Dizionario minimo contro i falsi liberali, Roma-Bari, 2004, p. 56).
Immediatamente vincolante per i giudici estoni, la sentenza della Grande Sezione del 2 marzo 2021 (C-748/18) sulla portata dell’art. 15 par. 1 della Direttiva 2002/58/CE, relativa al trattamento dei dati personali e alla tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni elettroniche, potrebbe spiegare effetti anche sulla normativa italiana in materia di intercettazioni riformata nel 2020.
Nella sua incapacità di assicurare nel concreto quella segretezza di cui si diceva ambasciatrice, la novella – pur focalizzata sulla corretta conservazione dei dati all’interno degli uffici di procura – lascia aperta la strada a propaggini diffusive dei dati intercettati, allargandone le possibilità di un uso aliunde e a strascico a prescindere dall’autorizzazione di un giudice terzo e imparziale e pure per finalità estranee alla lotta contro reati di una consistente gravità (v. art. 270 c.p.p. e il regime circolatorio ivi disciplinato). È un fenomeno pericoloso, allarmante, immediato effetto di congegno processuale che, sulla scorta di un’originaria e legittima compressione dei diritti individuali, consente che se ne perpetrino altre, a discapito della riserva di giurisdizione, con un consistente sacrificio di quel diritto alla segretezza delle comunicazioni intimamente legato alla dignità di ogni persona. E in un contesto simile, scorrendo tra le righe della sentenza C-748/2018 del Collegio europeo, si coglie la divaricazione tra i due livelli di tutela: se a livello interno certi princìpi appaiono sbiaditi, a livello europeo riemergono nella loro cromia, con la loro portata ordinatrice della funzione normativa e dell’esperienza pratica.
È dal principio di proporzionalità che la Corte di Lussemburgo prende l’abbrivio per affermare che soltanto la lotta contro le forme gravi di criminalità e la prevenzione di gravi minacce alla sicurezza pubblica sono idonee a giustificare ingerenze gravi nei diritti fondamentali sanciti dagli articoli 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE: tali misure devono essere appropriate, strettamente proporzionate allo scopo perseguito, necessarie in una società democratica, soggette a idonee garanzie conformemente alla Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Si tratta dello stesso principio di proporzionalità che, occorre ricordalo, aveva guidato anche la Corte costituzionale per il vaglio di compatibilità delle ingerenze non previamente autorizzate con l’art. 15 Cost. (Corte cost., 24 febbraio 1994, n. 63), ora accantonato dalla riforma della disciplina italiana delle intercettazioni (L. 28 febbraio 2020, n. 7) secondo una logica liberticida senza precedenti.
Il controllo occulto sulle comunicazioni rappresenta una “rete a strascico” nella quale restano impigliate informazioni di ogni tipo. La possibilità per gli Stati membri di giustificare una limitazione ai diritti e agli obblighi previsti dalla Direttiva 2002/58 deve essere valutata misurando la gravità dell’ingerenza che una limitazione siffatta comporta e verificando che l’importanza dell’obiettivo di interesse generale perseguito mediante questa limitazione sia correlata alla gravità dell’ingerenza suddetta. Con tali affermazioni la Corte europea ribadisce la necessità a che l’intrusione nella vita privata sia circoscritta a procedure aventi per scopo non la prevenzione bensì la lotta contro quelle forme gravi di criminalità, senza che possa farsi questione su altri fattori, sui dosaggi caso per caso, basati, ad esempio, sulla durata del periodo di ingerenza nella vita privata.
Affiora ancora e con forza l’importanza del canone di proporzionalità in astratto, al quale affidarsi per calibrare la compressione dei diritti individuali secondo criteri razionali e orientati alla scala di valori ricavabile dalle normative sovralegali, senza possibilità di puntare in via sostitutiva sul vaglio di proporzionalità in concreto e su valutazioni discrezionali dell’utilizzatore dei dati emersi dai controlli occulti. Taluni costi individuali, insomma, possono infliggersi solo quando la posta in gioco lo giustifica: la componente di “necessarietà” del mezzo, a perseguire l’accertamento del reato, esige che siano chiariti con precisione i presupposti della speciale operazione investigativa e non indulge alla flessibilità di criteri come la mera utilità o l’opportunità dell’intervento autoritativo (§ 45).
Ma è anche un altro il profilo rilevante che traduce profili di incompatibilità della disciplina domestica con lo statuto dei diritti fondamentali dell’Unione. La Grande Sezione, proseguendo con la stessa forza degli impeti iniziali, si rifugia nella tipicità delle condizioni sostanziali e procedurali che disciplinano l’utilizzo dei risultati dell’ingerenza nella vita privata (§ 49) e palesa l’intransigenza sull’essenzialità del controllo preventivo del giudice, quale condizione preliminare a qualsiasi intrusione nella sfera privata dell’individuo, anche quella meno forte consistente nell’accesso ai tabulati.
I passaggi procedurali sono presto messi in luce: a seguito di una richiesta motivata da parte delle autorità interessate, è necessario l’intervento del giudice. E anche in caso di urgenza debitamente giustificata, il controllo deve intervenire entro termini brevi (§ 51). Nessun alleggerimento nelle incombenze degli inquirenti può essere tollerato, nessuna libertà nelle forme di ingerenza nei diritti individuali, che devono sempre essere assoggettate al previo avallo del giudice.
Viene toccato, così, il nodo essenziale della riserva di giurisdizione, sulla quale la Corte europea non si risparmia, descrivendone i tratti con dovizia di particolari. Quel preliminare controllo autorizzativo della intrusione nella vita privata richiede «che il giudice [...] disponga di tutte le attribuzioni e presenti tutte le garanzie necessarie per garantire una conciliazione dei diversi interessi e diritti in gioco. Per quanto riguarda, più in particolare, un’indagine penale, tale controllo preventivo richiede che detto giudice sia in grado di garantire un giusto equilibrio tra, da un lato, gli interessi connessi alle necessità dell’indagine nell’ambito della lotta contro la criminalità e, dall’altro, i diritti fondamentali al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati personali delle persone i cui dati sono interessati dall’accesso» (§ 52).
Le affermazioni categoriche non si arrestano e hanno un risvolto immediato nella pretesa a che «il requisito di indipendenza che l’autorità incaricata di esercitare il controllo preventivo deve soddisfare impone che tale autorità abbia la qualità di terzo rispetto a quella che avanza la richiesta, di modo che la prima sia in grado di esercitare tale controllo in modo obiettivo e imparziale al riparo da qualsiasi influenza esterna» (§ 54). Dal piano più generale si slitta a quello specifico del ruolo dell’inquirente, che offre alla Corte l’occasione per alcune specificazioni: «il requisito di indipendenza implica che l’autorità incaricata di tale controllo preventivo, da un lato non sia coinvolta nella conduzione dell’indagine penale di cui trattasi e, dall’altro, abbia una posizione di neutralità nei confronti delle parti del procedimento penale. Ciò non si verifica nel caso di un pubblico ministero che dirige il procedimento di indagine ed esercita, se del caso, l’azione penale. Infatti, il pubblico ministero non ha il compito di dirimere in piena indipendenza una controversia, bensì quello di sottoporla, se del caso, al giudice competente, in quanto parte nel processo che esercita l’azione penale. La circostanza che il pubblico ministero sia tenuto, conformemente alle norme che disciplinano le sue competenze e il suo status, a verificare gli elementi a carico e quelli a discarico, a garantire la legittimità del procedimento istruttorio e ad agire unicamente in base alla legge e al suo convincimento, non può essere sufficiente per conferirgli lo status di terzo» (§§ 54, 55, 56).
Il quadro è chiaramente tracciato.
Prescrizioni legali improntate alla proporzionalità e riserva di giurisdizione costituiscono i due poli entro i quali può muoversi e gestirsi l’ingerenza nella vita privata per la lotta contro gravi situazioni di criminalità; due poli che non ammettono equivalenti e dai cui confini nessuna legislazione nazionale può fuoriuscire onde mantenersi entro la cornice tracciata dalle fonti normative sovralegali imperniate sul concetto di dignità umana.
È persino superfluo spendere altre parole. Quelle della Corte di Giustizia, poste al confronto con il regime che consente l’uso di intercettazioni non previamente autorizzate pure in ipotesi di allarme sociale non elevato, fanno cogliere con la giusta enfasi la distanza che intercorre tra il dover essere e l’essere: il bisogno di un ripristino dei capisaldi che dovrebbero essere comuni a qualsiasi Stato di diritto si addensa a fronte della disciplina dell’uso no-limits degli esiti captati. Non è superfluo invece invocare l’intervento di un’alta Corte interna, a cui spetterà, anche in virtù degli ammonimenti del Giudice europeo, il ripristino degli assetti costituzionali e di quella proporzionalità in astratto della quale sembrano essersi perse le tracce.


Le due vie per il ristoro economico dell’offeso dal reato che escludono l’equa riparazione per irragionevole durata delle indagini preliminari (Corte cost. n. 249 del 2020)

Si sviluppano come un groviglio le problematiche del decorso del tempo nel rito penale: l’inefficienza cronica coinvolge il presidio giustizia e con esso i soggetti privati che a vario titolo si trovano coinvolti nelle vicende penalistiche. Non si scorgono soluzioni negli assetti attuali e nel mentre si moltiplicano i vuoti di tutela: è impellente il bisogno di celerità ed efficacia del sistema processuale, che dovrebbe essere al tempo stesso obiettivo di ciascun protagonista in esso coinvolto, pur nella fisiologica e naturale diversità di ruoli e funzioni.
La prescrizione intervenuta nella fase investigativa e le vane pretese dell’offeso, dinnanzi ad una originaria inerzia del p.m., di ottenere quanto meno il ristoro per l’irragionevole durata del procedimento penale sono state alla base dell’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale della questione di legittimità dell’art. art.  2,  comma  2-bis,  della  legge  24  marzo  2001,  n.  89  (Previsione  di  equa riparazione  in  caso  di  violazione  del  termine  ragionevole  del  processo), nella parte in cui prevede che il processo penale si considera iniziato, per l’offeso, con l’assunzione della qualità di parte civile ai fini del computo della durata ragionevole, per contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 CEDU.
La rilevanza della questione, per il  giudice  rimettente,  ha trovato giustificazione proprio nella durata non ragionevole dell’attività investigativa, protratta ingiustificatamente e improduttivamente oltre i termini di durata massima,  esitando nella richiesta di archiviazione del procedimento per intervenuta prescrizione del reato. La norma sospettata di illegittimità costituzionale per contrasto con l’art. 6 CEDU stabilisce che «[i]l processo penale si considera iniziato con l’assunzione della qualità (...) di parte civile» per l’offeso. E tanto avrebbe dovuto indurre a respingere la domanda di equa riparazione, non senza insinuare nel giudice a quo la convinzione di un attrito tra la norma suddetta e la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo  cui  nel  diritto  italiano la  posizione della  parte  lesa  che,  in attesa di potersi costituire parte civile, abbia esercitato almeno uno dei diritti e facoltà ad essa riconosciuti dalla  legislazione  interna,  non  differisce,  per  quanto  riguarda  l’applicabilità  dell’art.  6 CEDU, da quella della parte civile (Corte EDU, 7 dicembre 2017, Arnoldi c. Italia. Per un commento si rinvia qui). Per la Corte europea dei diritti dell’uomo non rileva lo status formale della persona offesa nell’ambito del procedimento penale italiano, occorrendo, invece, verificare: a) se l’interessata intendesse ottenere la tutela del suo diritto civile o «far valere il suo diritto a una riparazione» nell’ambito del procedimento penale; b) se l’esito della fase delle indagini preliminari fosse determinante per il «diritto di carattere civile in causa».
Alla luce del parametro interposto, individuato nell’art. 6 CEDU e negli orientamenti della Corte di Strasburgo, la Consulta ha scrutinato l’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001 analizzando gli interessi di cui è portatrice la persona offesa dal reato già prima del momento in cui l’ordinamento nazionale attribuisce ad essa la qualità di «parte civile» e, dunque, nella fase procedimentale.
La declaratoria di infondatezza della questione ha sondato nel profondo gli ideali del codice di rito penale del 1988, mostrandosi sensibile all’interesse di cui è portatore l’offeso dal reato. Si tratta di interesse duplice: quello al risarcimento del danno e quello all’affermazione della responsabilità dell’autore del reato, esercitabile attraverso attività di supporto e controllo dell’operato dell’accusa.
Ciò non cancella, tuttavia, pur nel rispetto di quelle finalità di economia dei giudizi che giustificano la costituzione di parte civile, la prevalenza di esigenze diverse in seno al rito penale, che non assurge a luogo di “vendetta privata”, né a sede di ristoro puramente economico del danno derivante dall’illecito.
Non può sfuggire, invero, malgrado l’aspetto patologico della vicenda sottesa al provvedimento di rimessione, che il ristoro economico per l’offeso può conseguirsi attraverso una “doppia via”: oltre che tramite l’esercizio dell’azione civile nel processo penale, gli interessi risarcitori possono essere proficuamente perseguiti nella naturale sede del giudizio civile, con un iter del tutto indipendente dal giudizio penale e senza che sussistano condizionamenti che, viceversa, la legge impone nel caso in cui si preferisca percorrere la prima delle due opzioni.
Si tratta di un disegno che, oltre a spiegare bene l’attribuzione all’offeso della qualifica di “parte eventuale”, ne giustifica altresì la diversità di poteri, più ristretti e circoscritti rispetto a quelli delle altre parti “necessarie”: alla prima «è comunque assicurato un diretto e incondizionato ristoro dei propri diritti attraverso l’azione sempre esercitabile in sede propria» (Corte cost., sentt. n. 217 del 2009 e n. 168 del 2006).
È pur vero che con la sentenza n. 184 del 2015, la stessa Corte costituzionale ha  ritenuto  fondata  la  questione  di  legittimità costituzionale  dell’art.  2, comma 2-bis, della  legge  n.  89  del  2001,  sollevata,  con  riguardo  alla  peculiare posizione dell’imputato, sempre in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 CEDU, nella parte in cui la medesima norma prevedeva che il processo penale si considerasse iniziato con l’assunzione della  qualità  di  imputato,  ovvero  quando  l’indagato  avesse  avuto  legale  conoscenza  della  chiusura  delle indagini  preliminari,  anziché  quando  l’indagato,  in  seguito  a  un  atto  dell’autorità  giudiziaria,  avesse comunque avuto conoscenza del procedimento penale a suo carico. Operare assimilazioni tra la posizione dell’indagato e quella dell’offeso nella fase procedimentale risulta, tuttavia, operazione inconferente già a considerare il decalogo di prerogative individuali riservate da quell’art. 6 CEDU al solo soggetto accusato. È il concetto stesso di “accusa”, secondo orientamenti ormai consolidati, a doversi considerare indipendente dalle distinzioni e classificazioni giuridiche elaborate in seno agli ordinamenti nazionali dei singoli Stati aderenti alla Convenzione (v. già Corte EDU 26 marzo 1982, Adolf c. Austria, § 30): sulla scorta del patrimonio giurisprudenziale europeo l’accusa coincide con il primissimo momento a partire dal quale l’accusato sia posto, da parte delle Autorità nazionali,  nelle condizioni di subire delle conseguenze sostanziali. Il che consente di far retroagire il momento del patimento dell’indagato, in certe situazioni, agli antipodi della vicenda penale, a prescindere dalle autonome ripartizioni per fasi contemplate nei singoli ordinamenti. Cosicché la violazione del diritto a una celere definizione del processo penale, ex art. 6 CEDU e 111 Cost., giustifica la pretesa di un indennizzo idoneo a ristorare il patimento cagionato dall’eccessiva pendenza dell’accusa, quando la stessa sia stata espressa per mezzo di un qualsiasi atto dell’autorità giudiziaria e abbia in tal modo acquisito una consistenza tale da ripercuotersi significativamente sulla vita dell’indagato.
A partire da tali premesse generali, il discorso assume poi connotazioni più specifiche che portano a condividere la decisione del Giudice delle leggi, allorquando si occupa della possibilità di intravedere una necessaria, e non occasionale, identità  tra  il  diritto  di  carattere  civile  spettante  alla  persona  offesa  già  durante la fase investigativa  e  la  posizione  soggettiva  di  carattere  privato  da  essa  azionabile a  seguito  della costituzione  di  parte  civile  nel  processo  penale. Solo se fosse possibile riscontrare tale identità, come ben sottolinea la Consulta, potrebbe individuarsi, sotto il profilo dell’effettività del pregiudizio subìto, la necessaria unitarietà dell’interesse a che il complessivo giudizio penale si concluda in termini ragionevoli.
In realtà il dato dirimente sta proprio nell’erronea omogeneizzazione tra la fase procedimentale e il segmento processuale successivo alla costituzione di parte civile dell’offeso: i poteri attribuiti all’offeso durante le indagini non sono funzionali alla tutela anticipata del diritto solo potenzialmente riconosciuto alla parte civile, alla quale la legge processuale attribuisce poteri finalizzati a soddisfare la domanda solo a seguito delle determinazioni del pubblico ministero di esercitare l’azione penale, a partire dalle quali alla stessa è consentito costituirsi in giudizio.
Quella stretta interdipendenza tra esercizio dell’azione e prerogative finalizzate a vantare il credito risarcitorio nel rito penale è in grado di esplicitare altresì il nesso tra diritto di carattere civile e azione penale, che non ha ragion d’essere prima che il pubblico ministero abbia assunto le proprie determinazioni. Lo si evince altresì dall’impossibilità per l’offeso di impugnare nel merito l’ordinanza di archiviazione emessa a seguito dell’opposizione.
È rimessa d’altronde all’offeso l’opzione di perseguire le sue pretese risarcitorie nel rito penale pur dinnanzi alla possibilità di ottenere ristoro nella sua naturale sede innanzi al giudice civile. Ed è in virtù di siffatto sistema di doppia tutela, predisposto dall’ordinamento, che non può ipotizzarsi irragionevolezza alcuna nella diversità dei modi di intendere la fase investigativa per l’accusato e per l’offeso a norma del medesimo art. 2, comma 2-bis, della legge “Pinto”.
Rimangono sullo sfondo della vicenda, è chiaro, le patologiche stasi investigative che, in una molteplicità di ipotesi, portano a alla prescrizione del reato in fase di indagine, malgrado le scansioni temporali ben definite idonee a prevenire esiti siffatti. Ma questa è un’altra storia...


La prescrizione e il processo penale che oltrepassa i limiti della finitezza umana

I recenti interventi di riforma del diritto penale, sostanziale e processuale, corrono verso direzioni ben precise: ridurre le defaillance del sistema prodotte dalla lunghezza dei processi penali e assicurare la punizione e la sua severità per il colpevole, nel minor tempo possibile.
Tra i tanti e probabili, il tema cruciale degli ultimi disegni legislativi è stato quello del blocco della prescrizione. Già con la riforma del 2017 (l. n. 103 del 2017) il riformatore aveva apportato significative modifiche alla disciplina delle cause in grado di sospendere il decorso del tempo necessario a prescrivere, mutando il regime predisposto dalla legge n. 251 del 2005 (nota come “ex Cirielli”). Erano state, invero, introdotte nell’art. 159 c.p., due nuove ipotesi di sospensione del corso della prescrizione, dal termine previsto dall’art. 544 c.p.p. per il deposito della motivazione della sentenza di condanna in primo grado, sino alla pronuncia della sentenza del grado successivo; e dal termine previsto, sempre per il deposito della sentenza di condanna ma di secondo grado, sino alla pronuncia del dispositivo della sentenza definitiva. Il termine di sospensione, ad ogni modo, non avrebbe potuto superare un periodo di un anno e sei mesi.
Con tale riforma, alle cause sospensive veniva assegnata una funzione nuova e per certi versi antitetica al loro tradizionale fondamento, riconducibile alla necessità di fermare il tempo della prescrizione solo durante le situazioni di forzata inattività della giurisdizione.
Con la legge c.d. “spazzacorrotti” (l. n. 3 del 2019), indotto da variegate ragioni, tra le quali il bisogno di restituire severità del sistema penale, minato proprio quanto ad effettività dal decorso del tempo necessario a prescrivere il reato, il legislatore ha introdotto soluzioni più drastiche, sempre modificando l’art. 159, comma 2, c.p. a norma del quale «Il corso della prescrizione rimane sospeso dalla pronunzia della sentenza di primo grado o del decreto di condanna fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o dell'irrevocabilità del decreto di condanna». L’emenda, tema cruciale della politica italiana, è stata accompagnata da severissime critiche, aventi ad oggetto proprio la compatibilità di una “abolizione di fatto” della prescrizione con i diritti fondamentali del cittadino e, soprattutto, con il fine -collegato, secondo il legislatore- di ricondurre il sistema al principio della ragionevole durata del processo, anche attraverso ulteriori modificazioni al sistema processuale.
Probabilmente le stesse critiche hanno indotto al disegno successivo, per ora solo Delegato al Governo, con il DDL del 14 febbraio 2020, il quale ha impartito direttive affinché si incida nuovamente su quell’art. 159 c.p., che dovrebbe assumere una formulazione secondo la quale il termine necessario a prescrivere rimarrebbe sospeso dalla pronunzia della sentenza di condanna di primo grado- e non anche dalla pronunzia della sentenza di assoluzione, quindi- fino alla data di esecutività della stessa. Secondo la disciplina in fase di introduzione, la prescrizione riprenderebbe il suo corso, con computo dei periodi di sospensione, innanzi ad una sentenza di proscioglimento dell'imputato in appello o di annullamento di quella di condanna nella parte relativa all’accertamento della responsabilità, così come nei casi di declaratoria di nullità ai sensi dell'articolo 604, commi 1, 4 e 5-bis c.p.p.. Si guarda bene il delegante, quasi ad esserne perseguitato, dal rischio della prescrizione che potrebbe maturare nelle more della presentazione dell’impugnazione contro la sentenza di proscioglimento. Per tali ipotesi vorrebbe dei periodi di sospensione del termine prescrizionale, abbastanza lunghi, quando vi sia il rischio che uno dei reati per cui si procede si prescriva entro l’anno successivo al termine previsto per il deposito della motivazione. Solo una doppia conforme di proscioglimento- in sostanza- potrebbe consentire di computare, ai fini del tempo necessario a prescrivere, i suddetti periodi di sospensione, con una utilità assai discutibile dinnanzi ad una decisione di assoluzione nel merito.
L’intento di evitare la prescrizione non sembra attenuato neppure dalle ulteriori direttive delegate che, nel soppesare le garanzie che assistono il rito penale nel paragone con l’accelerazione dei tempi, prediligono unicamente quest’ultimo aspetto, mettendo in secondo piano i presidi dell’oralità e dell’immediatezza, prediligendo i riti acceleratori -patteggiamento, giudizio abbreviato e rito monitorio per le fattispecie meno gravi-, tentando di limitare al minimo il diritto di far valere le patologie processuali (nullità ed inutilizzabilità delle prove) attraverso l’introduzione di nuovi congegni che dovrebbero sopperire a certe dinamiche le quali, proprio in virtù delle patologie suddette, rallentano di molto i tempi del processo.
Il quadro velocemente tracciato ha il suo punto di “forza” e di “debolezza” nella presa di coscienza delle fortissime carenze sistemiche che, ad un tempo, producono una durata irragionevole dei processi e l’insoddisfazione dei suoi protagonisti: imputato ma anche vittime.
Occorre chiedersi se sospendere ad libitum il termine di prescrizione possa sopperire all’inefficienza o se, come sostenuto da molti, possa invece provocare l’effetto esattamente opposto; ed in quale misura un siffatto sistema di politica criminale, che va ad incidere sulle procedure per fattispecie di modesta gravità, possa conciliarsi con i valori posti a tutela dei diritti fondamentali dell’individuo in generale e dell’individuo-imputato in particolare.
Quanto al primo problema, se si riflette sulla ratio, pure autoritaria, che da sempre giustifica l’istituto della prescrizione nelle tradizioni giuridiche di molti ordinamenti continentali, si può prender atto, semplicisticamente, che lo scorrere del tempo fa venir meno l’interesse dello Stato a perseguire il reato: la punizione -e la sua finalità rieducativa, pure ove accertata la responsabilità- perderebbe il suo senso ove applicata dopo molti anni dalla commissione del fatto. Sotteso all’istituto, v’è anche un ruolo di stabilità sociale: che l’azione, pur se esercitata, non debba essere eterna deriva dalla necessità di non lasciare perennemente il cittadino esposto alla persecuzione giudiziaria e, altresì, dall’esigenza di limitare stati di incertezza delle situazioni giuridicamente rilevanti.
Da altra e collegata prospettiva, nel concreto, le declaratorie di prescrizione del reato fanno prendere atto di un’obiettiva debolezza del sistema ma non necessariamente significano impunità di colpevoli. Se, per un verso, è l’apparato giustizia che non vuole, non può o non riesce a definire il processo entro un tempo dato, per l’altro l’inefficienza non può addossarsi al titolare della prerogativa di avere una risposta giurisdizionale entro un termine certo. Cosicché, quel recupero di un’efficienza travisata, intesa alla stregua di garanzia di punizione per “soddisfare” le vittime, di esecuzione della pena in carcere il prima possibile, di persecuzione delle ragioni dell’Autorità senza spazio alcuno per quelle della libertà, tradisce anche solo la ricerca di un punto di equilibrio, valorizzato invece da molteplici principi costituzionali ed emblematico del “grado di civiltà” e democraticità dello Stato di diritto (Beccaria).
È ovvio constatare che il valore sostanziale della prescrizione non possa essere annullato nemmeno dalle dinamiche del processo, perché in fondo è traducibile non proprio nella sua durata ragionevole, ma quanto meno nella certezza della sua durata. Il tempo necessario a prescrivere garantisce al cittadino non solo il diritto ad essere sottoposto ad un processo entro un certo termine, ma l’ulteriore diritto di conoscere il limite di durata della sottoposizione della sua esistenza alla pretesa punitiva dello Stato.
Il ragionevole tempo del processo, valore consacrato anche nella Convenzione dei diritti umani, d’altronde, non è fine a sé stesso; sottintende valori più ampi, che coinvolgono altre prerogative: quella di difesa, il contraddittorio nella formazione della prova, la chance di essere considerati presunti non colpevoli fino alla sentenza definitiva, anche avvalendosi del controllo di un giudice superiore sulla decisione di prima istanza. Si tratta di garanzie che divengono effimere, perdono il loro senso per colui che è destinato a rimanere imputato per tempi indefiniti.
Processo perenne equivale ad assenza di limiti al potere punitivo, a rinuncia alle garanzie che contribuiscono a giustificare, in uno con il vincolo imposto dall’art. 27, comma 3, Cost., proprio l’istituto della prescrizione. Nella distanza illimitata tra fatto reato ed accertamento, l’esercizio del diritto di difesa, ad esempio, che si concreta nel diritto alla prova esercitabile nel contraddittorio tra le parti (artt. 24 e 111 Cost.) si affievolisce sensibilmente, diminuendo la possibilità di una proficua ricostruzione del fatto. In via correlata, perde il suo significato anche la presunzione di non colpevolezza ed il principio personalistico sotteso all’art. 27 Cost.: lasciare l’individuo in balia di un illimitato ius puniendi equivale ad incidere sulla sua possibilità di preventivare il proprio futuro. Fermo restando che un’eventuale condanna, eseguita in momenti indefinitamente lontani da quello del commesso reato, si mostra incompatibile con le esigenze che evocano la tendenza rieducativa della pena, frustrata proprio da quel decorso del tempo in grado di dissolvere il legame persona- fatto e di generare mutamenti nel contesto di vita del reo.
Un sistema siffatto concreta un’idea di fondo che assume, per un verso, il diritto penale alla stregua di dispositivo di lotta e, per l’altro, la prescrizione come congegno da abbattere nell’esercizio indiscriminato della pretesa punitiva promosso dalla “Repubblica penale”, ove sembra sgretolarsi il “presidio giustizia”, che esige presupposti stringenti di razionalità ed eticità, giusti precetti e giusti equilibri nella risoluzione di quel conflitto, sempre vivo, tra autorità e libertà.