La Corte costituzionale, su un rinvio della Corte di cassazione, richiama all’ordine il Giudice amministrativo in merito alla asserita diretta applicabilità della CEDU

Con la assai recente decisione n. 80 del 2011 la Corte costituzionale cerca e trova l’occasione per  ribadire, se ancora ce ne fosse stato bisogno, che, a parte la dolorosa e sofferta eccezione resasi necessaria per conformarsi alla Simmenthal doctrine della Corte di Giustizia, non c’è alcuna possibilità, salvo, per l’appunto, il caso del diritto dell’Unione europea direttamente applicabile, che il giudice delle leggi possa cedere la sua posizione privilegiata, che peraltro trova esplicito fondamento nella Carta Fondamentale, di guardiano della costituzionalità del diritto sovranazionale.

Se le ormai celeberrime decisioni 348 e 349 del 2007 si potevano leggere come una risposta, neanche così in codice, a quei giudici ordinari (cfr., tra le altre, Tribunale di Genova, sent. 23-11-2000, n. 4114/00; Corte App. Roma, sez. lavoro, ord. 11-4-2002, Corte di Appello di Firenze, I sez. civ., sent. 20-1-2005, n. 570/2005) che avevano osato, “sfrontatamente”, applicare per analogia, alle ipotesi di contrasto tra ordinamento interno e CEDU, gli stessi meccanismi operanti in caso di conflitto tra una disciplina interna ed il diritto dell’Unione, nella decisione che si commenta la Corte costituzionale, nonostante il rinvio provenga dalla Corte di Cassazione,  sembra voler interloquire (neanche in questo caso) a dire il vero, così cripticamente, con i giudici amministrativi.

Si fa in particolare riferimento, in primo luogo, alla decisione, non passata inosservata,  su diritti comparati,  n. 1220/10 del Consiglio di Stato. I nostri lettori ricorderanno infatti il bel post di Angelo Schillaci in cui si notava come il supremo organo di giustizia amministrativa, muovendo dalla riscontrata esigenza di applicare, nel caso di specie, i principi sull’effettività della tutela giurisdizionale dagli artt. 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, concludeva come questi ultimi sarebbero divenuti «direttamente applicabili nel sistema nazionale a seguito dell’entrata in vigore del nuovo testo dell’art. 6 del Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1 dicembre 2009».

L’altra decisione del giudice amministrativo cui si accennava in precedenza è la pronuncia del TAR del Lazio n. 11984/2010, in cui, attribuendo una forte carica innovativa alla disposizione contemplata dall’art. 6, c. 3, TUE, in forza del quale «i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali» , si concludeva che «il riconoscimento dei diritti fondamentali sanciti dalla CEDU come principi interni al diritto dell’Unione, ha immediate conseguenze di assoluto rilievo, in quanto le norme della Convenzione divengono immediatamente operanti negli ordinamenti nazionali degli Stati membri dell’Unione europea, e quindi nel nostro ordinamento nazionale, in forza del diritto comunitario, e quindi in Italia ai sensi dell’art. 11 della Costituzione, venendo in tal modo in rilievo l’ampia e decennale evoluzione giurisprudenziale che ha, infine, portato all’obbligo per il giudice nazionale di interpretare le norme nazionali in conformità al diritto comunitario, ovvero di procedere in via immediata e diretta alla loro disapplicazione in favore del diritto comunitario, previa eventuale pronuncia del giudice comunitario ma senza dovere transitare per il filtro dell’accertamento della loro incostituzionalità sul piano interno» (par. 13) .

La Corte costituzionale, nella sentenza che si commenta, inizia il suo contrattacco ai nuovi audaci tentativi della giustizia amministrativa di riproporre una “comunitarizzazione” della CEDU, proprio dall’ultimo passaggio appena citato della pronuncia del TAR del Lazio, sottolineando che «occorre ricordare come l’art. 6 del Trattato sull’Unione europea, nel testo in vigore sino al 30 novembre 2009, stabilisse, al paragrafo 2, che l’  “Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali […] e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi del diritto comunitario”». In base a tale disposizione – continua la Corte – che recepisce «un indirizzo adottato dalla Corte di giustizia fin dagli anni settanta dello scorso secolo – tanto la CEDU quanto le “tradizioni costituzionali comuni” degli Stati membri (fonti esterne all’ordinamento dell’Unione) non assumevano rilievo come tali, ma in quanto da esse si traevano «i principi generali del diritto comunitario» che l’Unione era tenuta a rispettare. Sicché, almeno dal punto di vista formale, la fonte della tutela dei diritti fondamentali nell’ambito dell’Unione europea era unica, risiedendo, per l’appunto, nei “principi generali del diritto comunitario”, mentre la CEDU e le “tradizioni costituzionali comuni» svolgevano solo un ruolo “strumentale” all’individuazione di quei principi».

La Corte aggiunge quindi come, coerentemente con tale impostazione, essa stessa, sotto la vigenza del “vecchio” art. 6. 3, nella sent. 349 del 2007, avesse escluso che «la qualificazione […] dei diritti fondamentali oggetto di disposizioni della CEDU come principi generali del diritto comunitario – operata dapprima dalla Corte di giustizia, indi anche dall’art. 6 del Trattato – potesse farsi discendere la riferibilità alla CEDU del parametro di cui all’art. 11 Cost. e, con essa, la spettanza al giudice comune del potere-dovere di non applicare le norme interne contrastanti con la Convenzione».

Il passo successivo dell’iter argomentativo della Corte costituzionale è quello che tutti stiamo aspettando per svelare il dilemma emergente dal passaggio della sentenza del Tar Lazio prima evocato, vale a dire se modifica del portato letterale del art. 6.3 TUE sia in grado di poter fare giungere a conclusioni differenti rispetto a quelle cui era pervenuta la Corte costituzionale nelle sentenze gemelle del 2007. Sul punto i giudici costituzionali non potevano essere più chiari: «quanto, poi, al richiamo alla CEDU contenuto nel paragrafo 3 del medesimo art. 6 – secondo cui i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione “e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali» – si tratta di una disposizione che riprende, come già accennato, lo schema del previgente paragrafo 2 dell’art. 6 del Trattato sull’Unione europea: evocando, con ciò, una forma di protezione preesistente al Trattato di Lisbona. Restano, quindi, tuttora valide le considerazioni svolte da questa Corte in rapporto alla disciplina anteriore, riguardo all’impossibilità, nelle materie cui non sia applicabile il diritto dell’Unione (come nel caso sottoposto a questa Corte), di far derivare la riferibilità alla CEDU dell’art. 11 Cost. dalla qualificazione dei diritti fondamentali in essa riconosciuti come “principi generali” del diritto comunitario (oggi, del diritto dell’Unione). Le variazioni apportate al dettato normativo – e, in particolare, la sostituzione della locuzione «rispetta» (presente nel vecchio testo dell’art. 6 del Trattato) con l’espressione «fanno parte» – non sono, in effetti, tali da intaccare la validità di tale conclusione».

Ed il TAR del Lazio è sistemato.

Passiamo a vedere come i giudici costituzionali hanno invece “messo a posto” i giudici di Palazzo Spada. Come abbiamo detto, quest’ultimi, nella decisione cui prima si è fatto riferimento arguivano, peraltro inserendo l’inciso in una parentesi solo apparentemente innocua, come le disposizioni della CEDU sarebbero divenute «direttamente applicabili nel sistema nazionale a seguito dell’entrata in vigore del nuovo testo dell’art. 6 del Trattato di Lisbona». Come già Angelo Schillaci   ha fatto notare nel suo post su diritticomparati prima richiamato, non è chiaro a quale delle disposizioni previste dal “nuovo” art. 6 TUE abbia voluto fare riferimento il Consiglio di Stato per supportare tale tesi. Una prima ipotesi è che il riferimento rilevante sia quello all’art. 6. 1, che riconosce un valore vincolante alla Carta europea dei diritti fondamentali. È quindi possibile che il Consiglio di Stato, visto che l’art. 47 della stessa Carta si riferisce al diritto al ricorso effettivo tutelato anche dalle disposizioni della CEDU richiamate nel passaggio della pronuncia prima citato, abbia ritenuto che tale equivalenza sostanziale del diritto fondamentale da tutelare fosse in gradi, alla luce della “clausola di equivalenza” che figura nell’art. 52, paragrafo 3, della Carta di Nizza, di “contagiare” la CEDU del carattere dell’applicabilità diretta di cui gode il diritto dell’Unione europea, pur non avendo il caso di specie, si badi bene, alcun collegamento con il diritto dell’Unione europea. La seconda ipotesi è che il Consiglio di Stato abbia dedotto la diretta applicabilità delle disposizioni della CEDU dal disposto dell’art. 6.2, che prevede l’obbligo per l’Unione europea di aderire alla CEDU.

Nel dubbio la Corte costituzionale smonta la logicità e l’adeguatezza di entrambe le ipotesi prospettate. Con riguardo alla prima, la Corte è perentoria nel rilevare come «in sede di modifica del Trattato si sia inteso evitare nel modo più netto che l’attribuzione alla Carta di Nizza dello “stesso valore giuridico dei trattati” abbia effetti sul riparto delle competenze fra Stati membri e istituzioni dell’Unione. L’art. 6, paragrafo 1, primo alinea, del Trattato stabilisce, infatti, che “le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione definite nei trattati”. A tale previsione fa eco la Dichiarazione n. 1 allegata al Trattato di Lisbona, ove si ribadisce che “la Carta non estende l’ambito di applicazione del diritto dell’Unione al di là delle competenze dell’Unione, né introduce competenze nuove o compiti nuovi dell’Unione, né modifica le competenze e i compiti definiti dai trattati”… Ciò esclude, con ogni evidenza, che la Carta costituisca uno strumento di tutela dei diritti fondamentali oltre le competenze dell’Unione europea, come, del resto, ha reiteratamente affermato la Corte di giustizia, sia prima (tra le più recenti, ordinanza 17 marzo 2009, C-217/08, Mariano) che dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (sentenza 5 ottobre 2010, C-400/10 PPU, McB; ordinanza 12 novembre 2010, C-399/10, Krasimir e altri)».

In relazione, invece, alla seconda possibile ipotesi interpretativa prima enucleata, e che cioè il Consiglio di Stato intendesse riferirsi, quale base giustificativa per l’asserita diretta applicabilità delle disposizioni della CEDU, all’art. 6.2 TUE che ora prevede l’obbligo di adesione della Unione europea alla Convenzione, la Corte ha gioco facile nel rilevare che «nessun argomento in tale direzione può essere tratto, anzitutto, dalla prevista adesione dell’Unione europea alla CEDU, per l’assorbente ragione che l’adesione non è ancora avvenuta. A prescindere da ogni altro possibile rilievo, la statuizione del paragrafo 2 del nuovo art. 6 del Trattato resta, dunque, allo stato, ancora improduttiva di effetti. La puntuale identificazione di essi dipenderà ovviamente dalle specifiche modalità con cui l’adesione stessa verrà realizzata».

Ed anche il Consiglio di Stato è servito.

Il tono argomentativo della Corte, nella decisione che si commenta è assai fermo, per non dire perentorio. Ma d’altronde la posta in gioco, così come per le sentenze gemelle del 2007, anche in questo caso, era molto alta. I giudici costituzionali, infatti, dopo avere dovuto, in sostanza, auto-estromettersi dal circuito biunivoco che collega giudici nazionali a Corte di giustizia, rinunciando, a favore dei giudici comuni al giudizio accentrato relativo alla valutazione di conformità tra la normativa nazionale ed il diritto dell’Unione, ci tengono ancora una volta a ribadire che la stessa cosa non può avvenire nè per la CEDU, né per la Carta di Nizza, almeno nei casi di rilevanza esclusivamente domestica, in cui non è in gioco l’applicazione del diritto dell’Unione.

Se ciò fosse in qualsiasi modo consentito o tollerato, infatti, la decentralizzazione del giudice delle leggi rispetto al crocevia interordinamentale privilegiato relativo alla tutela multilivello dei diritti fondamentali in Europa sarebbe stata probabilmente irreversibile.