La Corte Costituzionale torna sul divieto di analogia in malam partem in materia penale: canoni di tecnica ermeneutica e indicazioni di politica criminale nello scenario della crisi della legalità

La sentenza n. 98 del 2021 rappresenta una decisione di grande interesse per gli studiosi di diritto pubblico in quanto la Corte Costituzionale, muovendo da una questione di legittimità costituzionale di rilevanza apparentemente circoscritta, articola una argomentazione di ampio respiro, la quale tocca uno dei pilastri fondamentali della roccaforte – da tempo sotto assedio – del principio di legalità penale, ossia il divieto di analogia in malam partem.
L’occasione per tornare su tale postulato è offerta alla Corte da un incidente di costituzionalità prima facie distante dal dibattito relativo al ruolo del formante giurisprudenziale rispetto alla lex poenalis. Il Tribunale di Torre Annunziata, infatti, ha sollevato una questione di legittimità costituzionale (rispetto agli artt. 3, 24 e 111 Cost.) riguardante l’art. 521 c.p.p. «nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato, allorquando sia invitato dal giudice del dibattimento ad instaurare il contraddittorio sulla riqualificazione giuridica del fatto, di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al fatto diversamente qualificato». Il sospetto di incostituzionalità relativo a tale disposizione era sorto in quanto il giudice di merito aveva ritenuto che il fatto contestato all’imputato dovesse essere qualificato non – come originariamente ritenuto dall’accusa – come atti persecutori aggravati dalla presenza di una relazione affettiva (art. 612 bis, co. 2 c.p.), bensì come maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.). Più nel dettaglio, il rimettente aveva reputato che il caso in esame andasse inquadrato entro i confini di quest’ultima fattispecie, «diversa e ben più grave», in quanto l’imputato avrebbe commesso i fatti contestatigli in costanza di una relazione sentimentale intercorsa con la persona offesa che, pur non sfociando in una convivenza, sarebbe comunque stata «seria, consolidata e fondata sulla condivisione dei rispettivi affetti». Esplicitamente, pertanto, il rimettente si era riferito al canone ermeneutico della «interpretazione estensiva», ritenendo che il requisito della “convivenza” richiesto dall’art. 572 c.p. si potesse estendere anche a condotte maltrattanti compiute in un «contesto affettivo protetto» in cui non v’è però una coabitazione perdurante nel tempo. Ad avviso del giudice, peraltro, tale interpretazione sarebbe stata corroborata dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, la quale nei suoi precedenti avrebbe imperniato l’applicazione dell’art. 572 c.p. non tanto sul «dato formale della condivisione continuativa di spazi fisici», quanto piuttosto sul «dato sostanziale della condivisione di progetti di vita».
La Corte Costituzionale non entra nel merito della questione di legittimità costituzionale riguardante l’art. 521 c.p.p. poiché scardina il prius logico della sua rilevanza per il giudizio principale (ossia la riqualificazione del fatto contestato all’imputato nel delitto di maltrattamenti in famiglia) e la dichiara, pertanto, inammissibile. Tralasciando dunque il tema della controversa costituzionalità dell’art. 521 c.p.p. (su cui Tondi), in questo breve commento ci si intende soffermare sulla argomentazione elaborata dalla Corte nell’orizzonte problematico della legalità penale. L’iter motivazionale sviluppato a tal proposito può essere suddiviso in due principali passaggi argomentativi: il primo, di valenza generale, consiste nella ricostruzione del significato del divieto di analogia in malam partem in materia penale, mentre il secondo, di portata più specifica, concerne la corretta interpretazione dell’art. 572 c.p. alla luce di tale canone ermeneutico.
Procedendo in tale ordine, con riferimento al primo aspetto va osservato che la Corte è consapevole della rilevanza e, al contempo, della (sempre più manifesta) precarietà teorica del divieto di analogia in malam partem e pertanto, al fine di consolidare la sua motivazione, richiama alcune tra le sentenze più rilevanti in materia di legalità penale (tra le quali, ad esempio, la n. 96 del 1981, la n. 364 del 1988 e la n. 327 del 2008). In particolare, dopo aver ricordato le fonti di tale postulato (art. 14 delle Preleggi e, implicitamente, art. 1 c.p. e art. 25, co. 2 Cost.), la Corte ne illustra il significato sostenendo che esso «non consente di riferire la norma incriminatrice a situazioni non ascrivibili ad alcuno dei suoi possibili significati letterali e costituisce così un limite insuperabile rispetto alle opzioni interpretative a disposizione del giudice». A sostegno di tale lettura viene menzionata anche la giurisprudenza del Bundesverfassungsgericht, secondo cui in materia penale «il possibile significato letterale della legge fissa il limite estremo della sua legittima interpretazione da parte del giudice». Di grande interesse è, poi, la ricostruzione delle ragioni poste a fondamento del divieto di analogia in malam partem, che a tal fine viene osservato nella sua complementarità rispetto agli altri corollari della legalità penale, ossia il principio di riserva di legge e il principio di determinatezza. Trattasi di «corollari posti a tutela sia del principio “ordinamentale” della separazione dei poteri […]; sia della garanzia “soggettiva”, riconosciuta ad ogni consociato, della prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte, a tutela delle sue libere scelte d’azione». In quest’ottica, dunque, il divieto di analogia in malam partem costituisce il contrappunto (non solo del principio della «riserva assoluta di legge in materia penale», ma anche) dell’imperativo costituzionale, rivolto al legislatore, di «formulare norme concettualmente precise sotto il profilo semantico» e volge a impedire che il giudice possa assumere «un ruolo creativo». Per corroborare tale affermazione, si citano le parole della sentenza n. 115 del 2018, ove con estrema chiarezza la Corte ha affermato che «l’ausilio interpretativo del giudice penale non è che un posterius incaricato di scrutare nelle eventuali zone d’ombra, individuando il significato corretto della disposizione nell’arco delle sole opzioni che il testo autorizza e che la persona può raffigurarsi leggendolo».
Tali statuizioni di principio vengono poi calate dalla Corte nella questione sottoposta al suo scrutinio. Pur riconoscendo le esigenze di giustizia sostanziale che muovono l’indirizzo interpretativo cui ha aderito il Tribunale di Torre Annunziata – ossia «assicurare una più intensa tutela penale a persone particolarmente vulnerabili, vittime di condotte abusive nell’ambito di rapporti affettivi dai quali esse hanno difficoltà a sottrarsi» – la Corte riafferma però il primato costituzionale del divieto di analogia in malam partem. Dopo aver dimostrato che la giurisprudenza di legittimità fornisce «indicazioni assai meno univoche di quanto appaia dall’ordinanza di rimessione», la Corte evidenzia infatti la necessità «di chiarire se davvero possa sostenersi che […] un rapporto affettivo dipanatosi nell’arco di qualche mese e caratterizzato da permanenze non continuative di un partner nell’abitazione dell’altro possa già considerarsi […] come una ipotesi di “convivenza”» o di appartenenza (della vittima) «alla medesima “famiglia” dell’imputato». L’interrogativo pare, in verità, retorico: la risposta che la Corte ritiene scontata è, evidentemente, negativa e preclude, dunque, un’interpretazione che, pur giustificabile dal punto di vista «teleologico e sistematico» (e delle esigenze di giustizia sostanziale), si scontra con il limite, invalicabile, costituito dall’art. 25, co. 2 Cost. Emerge qui una caratteristica ricorrente dell’operato della Corte quando foggia la materia della legalità penale: essa fornisce indicazioni interpretative non solo generali (sui criteri ermeneutici ammissibili e sulla relativa gerarchia) ma, anche, circostanziate, ossia attinenti alla possibilità di sussumere determinati fatti entro le incriminazioni sottoposte al suo sindacato, esercitando così una funzione quasi nomofilattica (cfr., ad esempio, proprio le sentenze n. 96 del 1981, n. 34 del 1995 e n. 327 del 2008).
Ad avviso di chi scrive, due sono i profili che meritano alcuni cursori cenni di analisi critica. Il primo concerne la distinzione tra “interpretazione estensiva” e “analogia in malam partem”, da sempre punctum dolens dell’esegesi penalistica. Nella pronuncia in commento, la Corte individua la linea di demarcazione tra le due tecniche ermeneutiche nei «possibili significati letterali» attribuibili alla norma, non reputando che il canone “teleologico” – che pure fonda la controversa interpretazione del giudice principale – possa interferire con la loro mera “dichiarazione”. Si tratta di un’impostazione formalmente corretta che, però, genera alcune perplessità in quanto pare escludere che la ratio della norma incriminatrice possa svolgere alcuna funzione nell’interpretazione della disposizione. Il tema è assai impegnativo, anche in considerazione del rilievo che in tale materia ha l’elemento del “tipo criminoso” (per tutti, Palazzo), e la letteratura che lo riguarda è tanto sterminata da rendere velleitario ogni tentativo di fornire, in questa sede, un contributo originale: ci si limita pertanto ad osservare che il richiamo al «significato letterale» del testo legislativo operato dalla Corte nella sentenza in commento si presta ad essere letto come un tributo ai canoni classici del diritto penale moderno che però stride con la (sempre più diffusa) consapevolezza dell’impossibilità dei criteri semantici e sintattici di servire come argine alla discrezionalità ermeneutica del giudice. In quest’ottica, pare legittimo dubitare che le formule impiegate dalla Corte – ascrivibili alla “mitologia” dell’illuminismo giuridico – possano contribuire al superamento della crisi attuale della legalità penale e al conseguimento di quel «riorientamento gestaltico» di cui, secondo alcuni, la scienza penale ha «urgente bisogno» (M Vogliotti, Dove passa il confine? Sul divieto di analogia nel diritto penale, Torino, 2011, p. 9): tale ardua impresa richiede infatti argomenti originali, capaci di spingersi oltre gli stilemi convenzionali e oltre, dunque, la «prospettiva culturale nel cui seno è germogliato lo stesso principio di legalità». A tal riguardo, va comunque riconosciuto che, probabilmente, la semplicità delle motivazioni adottate dalla Corte sul piano dei principi è da ascrivere alla linearità della vicenda sottoposta al suo scrutinio: in effetti, ricondurre una relazione sentimentale durata per pochi mesi e connotata dall’assenza di una coabitazione stabile entro i rapporti di “convivenza” o “di famiglia” richiesti dall’art. 572 c.p. pare soluzione interpretativa distorta e forzata, che la Corte può agevolmente (e condivisibilmente) censurare.
Il secondo profilo riguarda invece l’identificazione delle ragioni di garanzia poste a fondamento del divieto di analogia in malam partem. A tal proposito, è interessante rilevare come la Corte, sulla scorta della considerazione degli altri corollari del principio di legalità penale, individui un duplice ordine di giustificazioni: il primo, “oggettivo”, concerne l’esigenza di assicurare la separazione dei poteri, mentre il secondo, “soggettivo”, consiste nella necessità di garantire all’individuo la certezza del diritto e, dunque, la prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie delle sue condotte. La Corte, dunque, ribadisce la matrice garantista che è comune a tutte le declinazioni funzionali della legalità penale e conferma un’acquisizione ampiamente condivisa dalla scienza giuridica, ossia che le radici assiologiche del divieto di analogia in malam partem (perlomeno nella prospettiva della “mitologia” legalista dell’illuminismo giuridico) sono rappresentate proprio dal rispetto del principio democratico e, soprattutto, dalla tutela della libertà individuale (M. Vogliotti, cit., p. 35 ss.). Probabilmente, tale ricognizione dei fondamenti classici della legalità penale ha lo scopo di riaffermare la preminenza assiologica del principio in discussione, rammentando così all’interprete che nessuna ragione di giustizia sostanziale può giustificare la violazione di tale dogma e dei suoi corollari, i quali rappresentano un apparato di garanzia della libertà personale imprescindibile per il nostro ordinamento democratico. Tale monito, ovviamente, travalica i confini della vicenda sub iudice e assume la valenza di un insegnamento generale di diritto penale costituzionale così riassumibile: l’intero sistema della legalità penale va letto e giustificato sulla base del postulato assiologico del favor libertatis.
Nihil sub sole novi, si dirà: ma, in una fase storica in cui dominano il “paradigma vittimario” e la “pulsione vendicatoria”, raffigurare alla maniera neoclassica (rectius, neoilluminista) l’architettura liberale e garantista dell’edificio della legalità penale è operazione che, probabilmente, non ne ricompone le fratture ma che, comunque, ha una chiara valenza simbolica e culturale. In altri termini, la pronuncia in commento si apprezza non tanto dal punto di vista dell’originalità degli argomenti tecnico-giuridici proposti, quanto piuttosto con riguardo all’indirizzo di politica criminale che la Corte esprime mediante l’uso di tali argomenti canonici: essa sancisce che i principi di garanzia formale della libertà personale rappresentano un valore irrinunciabile del nostro ordinamento costituzionale e che nessuna esigenza sostanziale di tutela penale, per quanto “comprensibile”, può giustificarne il sacrificio. Nel contesto burrascoso della legalità «ibrida», dunque, la Corte tenta di recuperare «il senso e le ragioni» di quell’etica del limite che informa il divieto di analogia in malam partem (M. Vogliotti, cit., p. 142).