La Corte Suprema come problema

Torna con ciclicità il tema della riforma della Corte Suprema federale statunitense. L’occasione questa volta è rappresentata dall’istituzione, il 9 aprile 2021, di una commissione di studio da parte dell’amministrazione Biden per una riforma dell’organo.
La stampa di area liberal sintetizza la direzione dei lavori come volti principalmente a sondare la possibilità di allargare il numero dei componenti della Corte Suprema (dalla fine del XIX secolo fisso a nove), affinché l’attuale amministrazione possa esprimere con sicurezza nuovi giudici e così riequilibrare la composizione politica dell’organo; composizione che si ritiene attualmente troppo sbilanciata dal lato dei conservatori, con sei giudici nominati da amministrazioni a guida Repubblicana e tre nominati da amministrazioni a guida Democratica.
Invero l’attività della commissione non sembra limitata a questo obiettivo, né più in generale sembra vincolata a produrre raccomandazioni di sorta, mentre deve presentare un report entro 180 giorni dell’inizio dei lavori. Ma gli animi sono infuocati e incitano comunque all’innesto di nuovi giudici (c.d. Court-packing) da quando, alla vigilia delle drammatiche elezioni presidenziali del novembre 2020, l’amministrazione Trump ha sollecitamente nominato in Corte Suprema Amy Coney Barrett in sostituzione della giudice Ruth Bader Ginsburg, scomparsa il 18 settembre 2020. Il risultato – fortemente cercato da tutto il Partito Repubblicano, anche nelle sue frange più opposte alla linea del Presidente Trump – ha suscitato ferventi polemiche e la promessa elettorale di Biden di occuparsi del problema-Corte Suprema qualora eletto. Tra i numerosi motivi di polemica, si è ricordato che, a parti inverse, nel 2016 all’uscente amministrazione Obama fu impedito di nominare un sostituto al posto del giudice Antonin Scalia, con la scusa che bisognava attendere l’espressione del voto popolare sulla nuova amministrazione (tuttavia, ed è questa la principale differenza rispetto alla nomina di Coney Barrett, in quel caso il Partito Repubblicano già deteneva la maggioranza del Senato e dettava le regole delle udienze di conferma). Rare e tendenzialmente inascoltate sono invece state le voci da area progressista che hanno suggerito di abbandonare del tutto la retorica basata sul controllo della Corte.
Al momento è difficile proporre previsioni sull’andamento dei lavori della commissione, anche perché insieme a una evidente maggioranza di giuristi di orientamento liberal (tra gli altri, Laurence H. Tribe da Harvard, Jack M. Balkin da Yale, Olatunde C. Johnson da Columbia), sono presenti anche studiosi conservatori del calibro dell’originalista Keith E. Whittington (Princeton).
Si apprende che la commissione lavorerà in cinque sottogruppi, composti da circa sette membri ciascuno. Il primo si dovrebbe occupare di raccogliere materiale preparatorio al lavoro della commissione, comprese le informazioni su quali problemi abbiano reso la riforma della Corte Suprema una questione di dibattito ricorrente. Il secondo gruppo di lavoro si occuperà della posizione della Corte Suprema nel più ampio ordine costituzionale; dovrebbe anche istruire proposte come quelle volte a spogliare la Corte della giurisdizione su certe tematiche o a prevedere maggioranze qualificate del collegio per l’annullamento di atti del Congresso. Il terzo gruppo si occuperebbe di temi come quello dell’anzianità di servizio e del turnover dei giudici, e proposte come quella di istituire tetti massimi di permanenza in carica o di imporre un’età pensionabile obbligatoria. Il quarto gruppo dovrebbe analizzare la questione del numero e delle procedure di nomina dei giudici della Corte Suprema. Un quinto e ultimo gruppo di studio dovrebbe riguardare le modalità di selezione dei casi di cui la Corte Suprema sceglie di occuparsi, modalità ritenute oggi troppo discrezionali.
Bisogna comunque segnalare che i lavori della commissione a stento sono iniziati e già al Congresso è stata presentata una proposta di legge (intitolata Judiciary Act of 2021) volta ad aumentare a tredici il numero dei componenti della Corte Suprema.
In attesa di ulteriori sviluppi, nel complesso mondo di questo organo, si possono appuntare i seguenti dati:

  • Modificare il numero dei componenti della Corte Suprema non richiede una riforma del testo costituzionale, ma è una facoltà che rientra nel dominio del Congresso (cfr. III § 1 della Costituzione federale). Ciò che si ritiene fissato in Costituzione è invece il mandato vitalizio dei giudici federali (during good Behaviour).
  • Il Congresso ha variato il numero dei seggi già sette volte nel corso della storia statunitense, passando da un minimo di cinque giudici a un massimo di dieci. In particolare vanno ricordate le modifiche introdotte a cavallo della Guerra Civile: nel 1863 i Repubblicani aumentarono il numero dei seggi a dieci, per controbilanciare i Democratici (allora esponenti del partito Sudista) in una Corte il cui Chief Justice era Roger Taney; dopo l’assassinio di Lincoln, nel 1866 gli stessi Repubblicani lo abbassarono a sette per impedire al Democratico Johnson di nominare giudici di suo gradimento; infine, dopo l’elezione di Grant, col Judiciary Act del 1869, il numero di giudici fu riportato a nove e da allora non è più stato cambiato.
  • Tra i tentativi non riusciti di modificare il numero dei componenti dell’organo, famoso è quello dell’amministrazione Roosevelt, tramite il Judicial Procedures Reform Bill del 1937, con cui si volevano superare le continue censure di costituzionalità che una Corte figlia dell’Era Lochner poneva al New Deal; tentativo poi fallito sia per le opposizioni interne al partito del Presidente Roosevelt, che per il noto riposizionamento del giudice Owen Roberts nel caso West Coast Hotel Co. v. Parrish (1937).
  • Dall’inizio degli anni ’70 del XX secolo, le amministrazioni guidate dal Partito Repubblicano hanno potuto nominare in Corte Suprema ben quindici giudici, e hanno espresso gli ultimi due Chief Justices, William Rehnquist (1986-2005) e John Roberts (in carica dal 2005). Nello stesso arco di tempo, le amministrazioni guidate dal Partito Democratico sono riuscite a intestarsi solo quattro nomine (Bader Ginsburg, Breyer, Sotomayor e Kagan).
  • A partire dalla nomina a Chief Justice di Roberts (approvata dal Senato con 78 voti favorevoli contro 22), tutte le udienze di conferma successive si sono sistematicamente concluse con maggioranze risicate e un Senato spaccato a metà.

Senza scomodare Tocqueville, bastano forse questi pochi dati per rendere l’idea di quanto il potere giudiziario statunitense sia per statura un campo di battaglia politica, nonché forse proprio il principale problema alla base delle crisi di identità che questa cultura costituzionale propone ciclicamente.
Sul tema, un recente contributo di uno dei membri della commissione di studio istituita dal Presidente Biden, Jack M. Balkin, sembra proporre la tesi di un radicale superamento della finzione secondo cui, continuando a predicare la neutralità del judicial review fatto dalla Corte Suprema federale, è possibile nobilitare l’idea di un sistema costituzionale (ovvero, di un certo grado di razionalità insito nel discorso costituzionalistico statunitense). Tutto invece è ormai polarizzato: élite altamente istruite «discordano sulla natura del mondo, sui fatti della politica americana, sulle fonti della corruzione, soprattutto su quali sono le più gravi minacce alla democrazia». E anche l’apparato giudiziario è polarizzato, nella sua composizione e nella sua giurisprudenza. L’indipendenza dei giudici va quindi pacificamente dichiarata perduta.
A questa constatazione il Balkin-autore non unisce un’indolente rassegnazione. Anzi, coglie l’occasione per sanzionare l’alta politicità della Corte Suprema tramite un pacchetto di riforme –nomine regolari e prevedibili dei giudici della Corte, istituzione di limiti temporali al loro mandato, minore discrezionalità alla Corte nella scelta dei casi, automatismi per compulsare riforme bipartisan – che appunto ruota attorno non a un superamento ma a una esplicitazione e regolarizzazione dell’intreccio partitico che ha connotato il funzionamento dell’organo. Non è possibile prevedere quanto queste proposte entreranno a far parte del contributo del Balkin-commissario, ma certamente si muovono nel solco di quanto quella dottrina sostanzialmente propone ormai da tempo sul tema. Così come, più ampiamente, in uno stesso solco sembra muoversi il pensiero costituzionalistico statunitense, che continua a coltivare una sorta di ossessione verso il judicial constitutionalism, alla quale non si riesce più ad accompagnare una riflessione comprensiva sulla sorte dei pesi e contrappesi in quella forma di governo.