“Le origini sono un inizio che spiega”
NYSRPA v. Bruen e il porto d’armi come diritto costituzionale tradizionale

Con la sentenza sul caso NYSRPA v. Bruen (597 U.S. __ 2022) la Corte Suprema degli Stati Uniti ha statuito che il diritto a detenere e portare armi da fuoco per autodifesa (codificato dal II Emendamento e garantito dal XIV Emendamento della Costituzione americana) può essere esercitato in ogni luogo, anche al di fuori della propria abitazione. Viola quindi tale diritto il requisito di una giusta causa (proper-cause) imposto dalla legislazione dello stato di New York a probi e onesti cittadini (law-abiding citizens) che vogliano ottenere una licenza totale (unrestricted license) di portar con sé un’arma da fuoco (concealed firearm).
In questo senso si è espressa una maggioranza di sei giudici contro tre, allargando il solco tracciato in questa materia dalle sentenze emesse nei casi Heller (2008) e McDonald (2010): se con Heller si è detto che il II Emendamento protegge il diritto individuale a possedere un’arma da fuoco, non legato al servizio in una militia, e di usarla per scopi tradizionalmente legittimi quali l’autodifesa domestica (e con McDonald si è precisato che tale diritto è garantito non solo a livello federale ma anche nei confronti delle autorità statali), ora si aggiunge che tale protezione va accordata anche alla conduzione di armi da fuoco al di fuori della propria abitazione.
La collocazione politico-culturale dei membri della Corte appare preliminare a una comprensione degli argomenti usati a sostegno della decisione. L’estensore dell’opinione di maggioranza è Clarence Thomas, il decano della Corte Suprema, nominato da Bush senior nel ‘91, tra i più radicali esponenti alla dottrina originalista. Hanno aderito alla sua opinion tutti e cinque i giudici nominati da amministrazioni a guida GOP, a loro volta in maggioranza di formazione originalista. Poi, attraverso separate concurring opinions, il giudice Kavanaugh ha cercato di descrivere due confini di questa pronuncia, la giudice Barrett ha evidenziato alcuni nodi metodologici rimasti irrisolti e il giudice Alito ha inteso rispondere alla dissenting opinion depositata dal giudice Breyer. Al dissenso di Breyer hanno quindi aderito le giudici Sotomayor e Kagan: tutti e tre i dissenzienti nominati da amministrazioni a guida Democrats. La polarizzazione ideologica è dunque manifesta.
Il repertorio argomentativo del conservatore originalista ruota attorno a una dichiarazione di purezza teorico-generale (separazione dei poteri e rigidità del testo storico), condensata nell’unica tecnica interpretativa possibile della Costituzione, il testualismo (che, applicato a un sistema di valori graficamente espressi in un documento sempre più lontano nel tempo, diventa testualismo storicistico). Le varianti su questo tema sono numerose (è nota, ad esempio, la differenza di posizione tra Thomas e un altro campione dell’originalismo, Scalia), ma l’approdo pratico delle pronunce non muta significativamente, così come ripetuta è la motivazione alla base della dottrina: assicurare un’idea di neutralità/non-politicità del judicial branch.
È appena il caso di rilevare che, nella pronuncia in commento, i canoni della dottrina originalista vengono necessariamente piegati alle esigenze poste dalla risoluzione della controversia in esame (allargare, anziché restringere o rimuovere, la garanzia costituzionale di un diritto).
E infatti il testo costituzionale, di solito inizio e fine di ogni ragionamento originalista, qui viene soltanto evocato. Non si trova traccia, ad esempio, di disamine come quella sulla parola “militia” contenuta nel II Emendamento, su cui tanto si era invece concentrata la Corte nel caso Heller.
Invero l’opinione della maggioranza in Bruen si presenta come mera rettifica dell’andamento preso dalla giurisprudenza federale successiva a Heller e McDonald, la quale aveva elaborato un doppio grado di scrutinio nel sindacato sulle limitazioni al II Emendamento: un primo basato sulla coerenza di tali restrizioni con testo costituzionale e storia, un secondo basato sul rapporto tra mezzi e fini. Per il giudice Thomas il constitutional standard da applicare quando si verte di limitazioni al diritto di portare armi da fuoco è solo uno: il primo. A dirlo, secondo Thomas, sarebbe proprio l’opinion di maggioranza nel caso Heller (errando invece la giurisprudenza successiva, che avrebbe aggiunto un criterio di proporzionalità): quella offerta nel caso Bruen vuol dunque essere una sorta di restaurazione del significato originario di quel precedente. Un originalismo, quindi, applicato alla giurisprudenza (più che al testo) costituzionale. Il che può già suggerire un confronto tra questa argomentazione e la storica resistenza degli originalisti a ritenere applicabile il principio dello stare decisis e quindi a vincolarsi ai precedenti giurisprudenziali (per un approfondimento v. qui).
Espunto così un giudizio di proporzionalità sulla materia, il giudice Thomas articola meglio la consistenza dell’unico standard applicabile alla materia.
In primo luogo, l’analisi storica che propone la Corte poggia su due metri di giudizio: bisogna analizzare a) se le attuali regolazioni del diritto all’autodifesa armata e quelle storicamente affermatesi nel tempo pongono a tale diritto una stessa tipologia di limitazione (a comparable burden), e quindi b) se la regolazione in esame è comparabilmente giustificata (comparably justified).
In secondo luogo, qualunque sia la consistenza di questo tipo di ricerca, il giudice Thomas precisa che la storia da prendere in considerazione non pesa tutta allo stesso modo (not all history is created equal), 4) né qualitativamente né quantitativamente. Dal primo punto di vista, ad esempio, la storia del common law inglese è ritenuta quantomeno ambigua (31 ss.), e in generale una historical evidence troppo precedente o troppo successiva all’adozione del testo costituzionale non sarebbe adatta a illuminarne il significato. Da un punto di vista quantitativo, invece, secondo la Corte non basterebbero appena tre casi di legislazione restrittiva risalenti al periodo coloniale (37 ss.) per argomentare l’esistenza di una tradizionale limitazione del diritto all’autodifesa armata.
Inoltre, viene sottilmente aggiornato anche il repertorio dell’argomentazione originalista: accanto alla (in questo caso, in assenza di) analisi sull’original meaning del testo costituzionale, la Corte propone anche uno studio della tradition, intesa come continuità di prassi su una certa materia: the regulation [must be] consistent with the Nation’s historical tradition of firearm regulation (8).  Secondo la maggioranza della Corte uno scrutinio di costituzionalità basato su questo tipo di analisi è più legittimo e più administrable rispetto a giudizi empirici su costi e benefici delle restrizioni al possesso di armi da fuoco (16). Non che l’analisi storica sia sempre facile per storici non professionisti come i giudici federali: il giudice Thomas ammette che si dànno casi difficili (18 ss.), ma anche casi fairly straightforward, come quello presente.
Alla fine, secondo la maggioranza della Corte, l’amministrazione dello stato di New York non riesce a fornire un’evidenza storica a sostegno della sua regolazione sufficiente a superare la confutazione di un’indagine che in circa 30 pagine (sulle 60 che compongono l’opinione di maggioranza) il giudice Thomas distende su oltre 600 anni di storia inglese e americana: indagine dalla quale non può emergere una normativa tradizionalmente comparabile con (che quindi possa storicamente giustificare) quella adottata dallo stato di New York. Il giudice Breyer impiegherà la stessa proporzione della sua opinione dissenziente (25 su una cinquantina di pagine) per ripercorrere lo stesso spettro di tempo e raggiungere una conclusione opposta a quella della maggioranza.
Questa pronuncia e le sue argomentazioni possono apparire di non immediata pregnanza per l’osservatore europeo, che a buon diritto potrebbe ricomprendere il caso Bruen tra le vicende di cronaca che connotano la cultura politica dell’America contemporanea.
Il ragionamento originalista, qui variato da un argomento tradizionalista (su cui v. Balkin), pone tuttavia degli interrogativi non nuovi alla cultura giuridica eurocontinentale, e al contempo non lontani da quelli che l’interprete di questo costituzionalismo potrebbe porsi davanti alla maturazione di una distanza storica dai patti costituzionali.
Dal primo punto di vista, è risalente il dibattitto sulle capacità del giudice, il quale secondo Croce non può permettersi di fare lo storico, secondo Calamandrei non può permettersi di fare il politico, ma come detto da Calogero non può essere più ritenuto mera bocca del legislatore (si v. la ricostruzione di Ridola, qui commentata). Ma, sul secondo punto di vista, se è vero che il confronto fra il ruolo dello storico e quello del giudice costituisce un locus classicus del dibattito sul mestiere dello storico (v. per es. Ginzburg), è anche vero che esso è stato spesso appiattito su quella che è ritenuta la maggiore delle differenze che connotano il giudizio storico e il giudizio giudiziario, per cui il primo sarebbe volto a indagare azioni collettive, il secondo ad accertare responsabilità individuali (v. Garapon).
Il ragionamento originalista provoca a chiedersi se questi steccati restino validi anche quando il giudizio verta sull’interpretazione costituzionale, dove vengono piuttosto in rilievo comportamenti o azioni di istituzioni ed entità, e dove soprattutto un testo è al tempo stesso parametro di giudizio e fatto storico.
Nell’ideale originalista, l’approdo di questo ragionamento – chiaramente consegnato a questa pronuncia – diventerebbe la trasformazione del giudice costituzionale, ormai espressione di una professionalità generale, in custode della storia (più che della costituzione) e la sostituzione al judicial review di una sorta di historical review of legislation.
Tuttavia, se si pensa alla forza motrice dell’originalismo (la neutralità politica della funzione giudiziaria, la non-legittimazione democratica dei giudici, la difficoltà contro-maggioritaria della Corte, etc.), è di tutta evidenza che l’uso della storia proposto da questa dottrina diventa un rudimentale espediente argomentativo che sottintende una chiara politicità nell’interpretazione costituzionale non diversa da quella espressa da altre dottrine del postmoderno; fino a portare anche la dottrina più conservatrice a definire fraudolenta la pretesa dell’originalismo di evitare posizioni morali nell’interpretazione costituzionale.
In ogni caso, volendo conferire una dignità tecnica a questo modo di risolvere controversie costituzionali, rimarrebbe ancora del tutto irrisolto da parte dell’originalista il dilemma sulla terzietà di questa indagine storica. E infatti, muovendo dalla posizione  che tanto lo storico quanto il giudice vorrebbero occupare nello spazio pubblico (aspirando l’uno a verità, l’altro  a giustizia), Ricœur ha ricordato che tale posizione, legata a un voto di imparzialità, deve far capo a una filosofia critica della storia: solo così l’ambizione di verità e di giustizia può diventare oggetto di una “vigilanza di frontiera”, al cui interno la legittimità di tale ambizione può dirsi totale.
Della cosciente elaborazione di una filosofia della storia non si trova traccia nel movimento originalista, pur non essendo mancati nella cultura giuridica statunitense interrogativi sul tema. Mentre non sembra destinato ad essere accolto il monito del giudice Breyer (che con questo Term conclude il suo mandato alla Corte Suprema) secondo cui gli storici si impegnano in metodi di ricerca e approcci interpretativi non compatibili con la risoluzione delle moderne questioni giuridiche, politiche o economiche.
Non sorprende dunque che dal magazine dell’American Historical Association le indagini in cui si è esercitata la Corte Suprema siano state ritenute “astoriche” e “dilettantistiche”, del tutto inconciliabili con la ricerca storica vera e propria.
Il tema della terzietà e dell’esplicitazione di una frontiera da cui poter vigilare la law office history della Corte Suprema rimane così ancora lontano dall’orizzonte di impegno degli originalisti.
Dopotutto, come temeva Bloch, “nel vocabolario corrente, le origini sono un inizio che spiega. Peggio ancora: che è sufficiente a spiegare”.


La Corte Suprema come problema

Torna con ciclicità il tema della riforma della Corte Suprema federale statunitense. L’occasione questa volta è rappresentata dall’istituzione, il 9 aprile 2021, di una commissione di studio da parte dell’amministrazione Biden per una riforma dell’organo.
La stampa di area liberal sintetizza la direzione dei lavori come volti principalmente a sondare la possibilità di allargare il numero dei componenti della Corte Suprema (dalla fine del XIX secolo fisso a nove), affinché l’attuale amministrazione possa esprimere con sicurezza nuovi giudici e così riequilibrare la composizione politica dell’organo; composizione che si ritiene attualmente troppo sbilanciata dal lato dei conservatori, con sei giudici nominati da amministrazioni a guida Repubblicana e tre nominati da amministrazioni a guida Democratica.
Invero l’attività della commissione non sembra limitata a questo obiettivo, né più in generale sembra vincolata a produrre raccomandazioni di sorta, mentre deve presentare un report entro 180 giorni dell’inizio dei lavori. Ma gli animi sono infuocati e incitano comunque all’innesto di nuovi giudici (c.d. Court-packing) da quando, alla vigilia delle drammatiche elezioni presidenziali del novembre 2020, l’amministrazione Trump ha sollecitamente nominato in Corte Suprema Amy Coney Barrett in sostituzione della giudice Ruth Bader Ginsburg, scomparsa il 18 settembre 2020. Il risultato – fortemente cercato da tutto il Partito Repubblicano, anche nelle sue frange più opposte alla linea del Presidente Trump – ha suscitato ferventi polemiche e la promessa elettorale di Biden di occuparsi del problema-Corte Suprema qualora eletto. Tra i numerosi motivi di polemica, si è ricordato che, a parti inverse, nel 2016 all’uscente amministrazione Obama fu impedito di nominare un sostituto al posto del giudice Antonin Scalia, con la scusa che bisognava attendere l’espressione del voto popolare sulla nuova amministrazione (tuttavia, ed è questa la principale differenza rispetto alla nomina di Coney Barrett, in quel caso il Partito Repubblicano già deteneva la maggioranza del Senato e dettava le regole delle udienze di conferma). Rare e tendenzialmente inascoltate sono invece state le voci da area progressista che hanno suggerito di abbandonare del tutto la retorica basata sul controllo della Corte.
Al momento è difficile proporre previsioni sull’andamento dei lavori della commissione, anche perché insieme a una evidente maggioranza di giuristi di orientamento liberal (tra gli altri, Laurence H. Tribe da Harvard, Jack M. Balkin da Yale, Olatunde C. Johnson da Columbia), sono presenti anche studiosi conservatori del calibro dell’originalista Keith E. Whittington (Princeton).
Si apprende che la commissione lavorerà in cinque sottogruppi, composti da circa sette membri ciascuno. Il primo si dovrebbe occupare di raccogliere materiale preparatorio al lavoro della commissione, comprese le informazioni su quali problemi abbiano reso la riforma della Corte Suprema una questione di dibattito ricorrente. Il secondo gruppo di lavoro si occuperà della posizione della Corte Suprema nel più ampio ordine costituzionale; dovrebbe anche istruire proposte come quelle volte a spogliare la Corte della giurisdizione su certe tematiche o a prevedere maggioranze qualificate del collegio per l’annullamento di atti del Congresso. Il terzo gruppo si occuperebbe di temi come quello dell’anzianità di servizio e del turnover dei giudici, e proposte come quella di istituire tetti massimi di permanenza in carica o di imporre un’età pensionabile obbligatoria. Il quarto gruppo dovrebbe analizzare la questione del numero e delle procedure di nomina dei giudici della Corte Suprema. Un quinto e ultimo gruppo di studio dovrebbe riguardare le modalità di selezione dei casi di cui la Corte Suprema sceglie di occuparsi, modalità ritenute oggi troppo discrezionali.
Bisogna comunque segnalare che i lavori della commissione a stento sono iniziati e già al Congresso è stata presentata una proposta di legge (intitolata Judiciary Act of 2021) volta ad aumentare a tredici il numero dei componenti della Corte Suprema.
In attesa di ulteriori sviluppi, nel complesso mondo di questo organo, si possono appuntare i seguenti dati:

  • Modificare il numero dei componenti della Corte Suprema non richiede una riforma del testo costituzionale, ma è una facoltà che rientra nel dominio del Congresso (cfr. III § 1 della Costituzione federale). Ciò che si ritiene fissato in Costituzione è invece il mandato vitalizio dei giudici federali (during good Behaviour).
  • Il Congresso ha variato il numero dei seggi già sette volte nel corso della storia statunitense, passando da un minimo di cinque giudici a un massimo di dieci. In particolare vanno ricordate le modifiche introdotte a cavallo della Guerra Civile: nel 1863 i Repubblicani aumentarono il numero dei seggi a dieci, per controbilanciare i Democratici (allora esponenti del partito Sudista) in una Corte il cui Chief Justice era Roger Taney; dopo l’assassinio di Lincoln, nel 1866 gli stessi Repubblicani lo abbassarono a sette per impedire al Democratico Johnson di nominare giudici di suo gradimento; infine, dopo l’elezione di Grant, col Judiciary Act del 1869, il numero di giudici fu riportato a nove e da allora non è più stato cambiato.
  • Tra i tentativi non riusciti di modificare il numero dei componenti dell’organo, famoso è quello dell’amministrazione Roosevelt, tramite il Judicial Procedures Reform Bill del 1937, con cui si volevano superare le continue censure di costituzionalità che una Corte figlia dell’Era Lochner poneva al New Deal; tentativo poi fallito sia per le opposizioni interne al partito del Presidente Roosevelt, che per il noto riposizionamento del giudice Owen Roberts nel caso West Coast Hotel Co. v. Parrish (1937).
  • Dall’inizio degli anni ’70 del XX secolo, le amministrazioni guidate dal Partito Repubblicano hanno potuto nominare in Corte Suprema ben quindici giudici, e hanno espresso gli ultimi due Chief Justices, William Rehnquist (1986-2005) e John Roberts (in carica dal 2005). Nello stesso arco di tempo, le amministrazioni guidate dal Partito Democratico sono riuscite a intestarsi solo quattro nomine (Bader Ginsburg, Breyer, Sotomayor e Kagan).
  • A partire dalla nomina a Chief Justice di Roberts (approvata dal Senato con 78 voti favorevoli contro 22), tutte le udienze di conferma successive si sono sistematicamente concluse con maggioranze risicate e un Senato spaccato a metà.

Senza scomodare Tocqueville, bastano forse questi pochi dati per rendere l’idea di quanto il potere giudiziario statunitense sia per statura un campo di battaglia politica, nonché forse proprio il principale problema alla base delle crisi di identità che questa cultura costituzionale propone ciclicamente.
Sul tema, un recente contributo di uno dei membri della commissione di studio istituita dal Presidente Biden, Jack M. Balkin, sembra proporre la tesi di un radicale superamento della finzione secondo cui, continuando a predicare la neutralità del judicial review fatto dalla Corte Suprema federale, è possibile nobilitare l’idea di un sistema costituzionale (ovvero, di un certo grado di razionalità insito nel discorso costituzionalistico statunitense). Tutto invece è ormai polarizzato: élite altamente istruite «discordano sulla natura del mondo, sui fatti della politica americana, sulle fonti della corruzione, soprattutto su quali sono le più gravi minacce alla democrazia». E anche l’apparato giudiziario è polarizzato, nella sua composizione e nella sua giurisprudenza. L’indipendenza dei giudici va quindi pacificamente dichiarata perduta.
A questa constatazione il Balkin-autore non unisce un’indolente rassegnazione. Anzi, coglie l’occasione per sanzionare l’alta politicità della Corte Suprema tramite un pacchetto di riforme –nomine regolari e prevedibili dei giudici della Corte, istituzione di limiti temporali al loro mandato, minore discrezionalità alla Corte nella scelta dei casi, automatismi per compulsare riforme bipartisan – che appunto ruota attorno non a un superamento ma a una esplicitazione e regolarizzazione dell’intreccio partitico che ha connotato il funzionamento dell’organo. Non è possibile prevedere quanto queste proposte entreranno a far parte del contributo del Balkin-commissario, ma certamente si muovono nel solco di quanto quella dottrina sostanzialmente propone ormai da tempo sul tema. Così come, più ampiamente, in uno stesso solco sembra muoversi il pensiero costituzionalistico statunitense, che continua a coltivare una sorta di ossessione verso il judicial constitutionalism, alla quale non si riesce più ad accompagnare una riflessione comprensiva sulla sorte dei pesi e contrappesi in quella forma di governo.


Hyatt III e la tentazione dell’overruling

In Nord America, prima della costituzione di un ordinamento federale, i singoli Stati (le ex Colonie) erano considerati entità sovrane, reciprocamente autonome e indipendenti.
Con la ratificazione ed entrata in vigore della Costituzione degli Stati Uniti (1788-1789), gli Stati necessariamente cedevano alcune prerogative sovrane. Tra queste, essi abdicavano alla prerogativa di citarsi in giudizio a vicenda nelle rispettive corti territoriali: conseguenza, dunque, di una costituzione federale, e quindi dell’«eguale dignità e sovranità» degli Stati, era l’imposizione agli stessi di un’immunità reciproca (c.d. sovereign immunity).
Tanto si apprende dalla storia del periodo della fondazione, e in particolare dai dibattiti che hanno accompagnato la redazione dell’Art. III, e dalla storia sottesa all’approvazione (nel 1795) dell’XI Emendamento, nonché dal generale impianto della Costituzione americana.

A questa conclusione è giunta, il 13 maggio 2019, la Corte Suprema degli Stati Uniti, con una maggioranza (5-4) guidata dal giudice Clarence Thomas.

Nel dichiarare che la Costituzione federale impone agli Stati di garantirsi vicendevolmente detta immunità (un cittadino non può, per tabulas, citare in una corte territoriale di uno Stato le autorità di un altro Stato), la Corte revoca espressamente la validità di precedente alla sentenza pronunciata in Nevada v. Hall (1979), nella quale si era invece sostenuto che la Costituzione non obbligherebbe ma permetterebbe agli Stati di riconoscere (o meno) una tale immunità.

La pronuncia merita di essere segnalata (e inviterebbe a un’analisi più approfondita) sotto diversi profili. Tra questi:

a) L’interpretazione proposta dalla maggioranza della Corte. Thomas è ritenuto uno dei giudici originalisti della Corte Suprema. Il c.d. originalismo è una judicial doctrine elaborata nella seconda metà del secolo scorso (risalente agli studi di Berger e Bork), e divenuta bandiera del movimento conservatore che, tramite l’influente Federalist Society, consiglia le amministrazioni Repubblicane nella nomina dei giudici federali.
L’originalismo conosce varie sfaccettature. Quella sposata da Thomas appartiene alla specie di originalismo secondo cui, tramite una lettura neutrale della storia legislativa, è possibile discernere l’intenzione del legislatore, quindi il significato del testo. Diversa, ad esempio, era l’idea di originalismo di un altro giudice della Corte Suprema, Antonin Scalia, che, screditando la storia legislativa, proponeva un approccio misto di testualismo e storia: il significato della norma è quello che sarebbe stato ragionevolmente trasmesso a un cittadino al tempo in cui la legge fu adottata (un significato quindi pubblico-storico).
Ebbene, dopo un succinto excursus sul pensiero in materia di diritto internazionale diffuso al tempo della fondazione (si muove dall’autorità di Emer de Vattel), l’originalismo di Thomas si palesa nella lettura delle norme dell’Art. III e dell’XI Emendamento, interpretate alla luce dei dibattiti delle assemblee costituenti del tempo, come registrati nei biblici Elliot’s Debates.
Tuttavia, a questa chiave di lettura – cui Thomas forse sa di non poter dare il rigore che la sua dottrina esigerebbe (le norme citate disciplinano la giurisdizione delle corti federali, non quella delle corti statali) – la maggioranza della Corte aggiunge quella di natura deduttiva: dal momento che nessuna previsione in Costituzione letteralmente prevede una tale immunità, ma della sua necessità è piena la storia del periodo costituente, essa va data per implicita e necessariamente embedded nella Costituzione.
La disinvoltura di richiami come quello al «constitutional design», al «plan of the Convention», o alla «structure» della Costituzione viene duramente censurata dall’opinione dissenziente firmata dal Stephen Breyer. Replicando con argomento testualista, il giudice Breyer nota che è certamente vero che la Costituzione federale ha privato gli stati di certi diritti sovrani, ma quando ha fatto ciò ha «teso» a essere esplicita (si citano la Import-Export Clause, la Full Faith and Credit Clause): e dove non lo è stata, vale il dettato del X Emendamento, secondo cui tutto ciò che non è espressamente attribuito alla Federazione o proibito agli Stati, va ritenuto di competenza degli Stati o del popolo.

b) Un apparente crossover L’ala liberal della Corte, argomentando principalmente dal testo della Costituzione, si trova a difendere l’impianto federale originario: gli Stati della Federazione dovrebbero poter mantenere la prerogativa sovrana di concedere o meno l’immunità giurisdizionale agli altri Stati della federazione; che poi nella prassi tale immunità sia quasi sempre accordata, visto il timore di vedersela poi negare in futuro, non fa altro che dimostrare la natura di soggetti di diritto internazionale indipendenti (v. p. 10 della dissenting opinion). L’ala conservatrice della Corte, invece, con argomenti extra-testuali e invocando lo spirito o il non-detto della Costituzione, sembrerebbero compattare l’assetto federativo: la pubblica autorità di uno Stato non può citare in un proprio tribunale la pubblica autorità di un altro Stato, e ciò per lo stesso motivo per cui non può decidere da sola dispute riguardanti i confini o diritti fluviali (la natura interstatale della controversia rende inappropriata l’applicazione di una normativa locale).

c) Argomenti per il superamento dello stare decisis. Anche in questo caso l’onere argomentativo è assolto in poche righe (p. 17). Quattro aspetti andrebbero considerati, secondo la Corte, ai fini di un overruling: la qualità del ragionamento contenuto nella decisione, la sua coerenza con decisioni simili, lo sviluppo normativo successivo, l’affidamento maturato sulla stabilità della decisione. Trattando il secondo e il terzo come equivalenti, la Corte ritiene che tutti e tre «confortano la nostra decisione di superare [Nevada ] Hall»: Hall non aveva tenuto conto della comprensione storica della state sovereign immunity, né aveva considerato quanto la privazione dei tradizionali strumenti diplomatici avesse riorganizzato le relazioni tra gli stati; la giurisprudenza in materia, inoltre, mostrerebbe come Hall sia rimasta una pronuncia «anomala». Quanto al quarto argomento a sostegno dell’overruling, si dispiace la Corte per il signor Hyatt, che ha fatto affidamento sulla tenuta del precedente (in una controversia durata peraltro circa un ventennio), ma le perdite economiche cui andrà incontro «non rientrano tra gli interessi che ci persuaderebbero ad aderire a una soluzione sbagliata su un’importante questione costituzionale».

d) Which case the Court will overrule next? Questa è la domanda (retorica) che si pone il giudice Breyer e in essa si racchiude forse il principale motivo di interesse in questa pronuncia.
Quello che occupa la Corte è il terzo episodio della saga Hyatt: le autorità della California avevano accusato Gilbert P. Hyatt di aver simulato un trasferimento in Nevada nei primi anni Novanta per eludere il fisco californiano; ma il modo in cui furono condotte le indagini (con ricerche nei rifiuti domestici, interrogatori ai colleghi di Hyatt, avvicinamento ai suoi familiari) indussero Hyatt a citare in giudizio gli inquirenti californiani in una corte del Nevada; Hyatt vinse la causa, aggiudicandosi un risarcimento inizialmente fissato a circa mezzo milione di dollari. Le autorità californiane, ritenendo di non dover essere affatto chiamate a rispondere davanti a una giurisdizione di altro Stato, avevano invocato l’intervento della Corte Suprema: ciò in un primo momento  sulla base della Full Faith and Credit Clause, che però secondo una Corte unanime non rappresentava motivo per censurare la giurisdizione del Nevada (Hyatt I, 2003); in un secondo momento, davanti agli sviluppi processuali del caso (i giudici del Nevada non avevano ritenuto valido anche per le autorità californiane il tetto massimo al risarcimento previsto invece per i danni cagionati dalle autorità del Nevada), l’ala conservatrice della Corte Suprema cambiò idea, ma non poté raggiungere un verdetto di maggioranza, essendo il collegio allora composto da otto membri (Scalia era da poco deceduto, non era stato ancora nominato il sostituto, e la Corte si divise a metà, 4-4) (Hyatt II, 2017). Ora finalmente si può confermare quanto lasciato intendere in quella sede: ogni Stato ha il dovere di garantire l’immunità giurisdizionale agli altri Sister States.
Il tema della state sovereign immunity, invero, appare di scarsa importanza in sé considerato (e il contenimento della sentenza in appena trenta di pagine, dissenting opinion inclusa, dimostra la poca animazione dei membri della Corte). Lo stesso Breyer nota come siano stati soltanto 14 i casi in cui, nei quarant’anni passati dal caso Hall, uno Stato ha celebrato un processo nelle proprie corti contro le autorità di un altro Stato.
Si tratta di un overruling sostanzialmente innocuo per la tematica coinvolta. Eppure importante per il messaggio che pare sottendere.
Il giudice Breyer rileva come Hall sia stato sempre sostenuto dalla giurisprudenza successiva, seppur con vari distinguishing. Ma se anche ci fosse qualche dubbio circa la sua validità, già solo il fatto che si tratti di una mera indecisione non autorizza la Corte ad abiurare quella decisione: e alla solidità dei precedenti l’ala liberal della Corte è ultimamente molto sensibile.
Nel suo dissenso, infatti, Breyer lascia intendere di avere in mente ben altre tematiche: quella sulle affirmative actions e, in particolare, il diritto all’interruzione della gravidanza.
Quanto a quest’ultimo, è noto come l’overruling dello storico precedente che lo ha riconosciuto a livello federale (Roe v. Wade, 1973) sia da tempo, e sempre di più al centro dello dibattito politico statunitense. È anzi esplicita l’intenzione delle frange più estreme del Partito Repubblicano di provocare un casus ad arte per raggiungere quanto prima una Corte Suprema, che ora sarà più incline a prestare ascolto alle ragioni del movimento c.d. pro-life: le vicende delle ultime settimane sulla legislazione adottata dall’Alabama sono solo l’ultima manifestazione di una consapevole strategia di politica costituzionale, di cui su questo blog Laura Pelucchini ha dato ampiamente conto (link 1, link 2).
Non casualmente Breyer conclude il suo dissenso (p. 13) ricordando alcuni passi della sentenza emessa nel caso Planned Parenthood v. Casey (1992), in cui l’overruling di Roe v. Wade fu evitato grazie al voto del giudice Kennedy, celebre swing justice, ritiratosi proprio lo scorso anno e sostituito da Brett Kavanaugh (le cui posizioni in materia di overruling e aborto sembrano abbastanza delineate). «Un conto – ricorda Breyer – è superare un precedente quando “è divenuto a stento praticabile”, quando “i principi di diritto si sono talmente sviluppati da aver fatto di quella regola poco più di un residuo di una dottrina abbondata”, o quando “i fatti sono talmente cambiati, e sono visti in modo così diverso, da aver privato quella pronuncia di ogni giustificazione o applicazione pratica”». Altro conto, e «molto più pericoloso», ammonisce Breyer, è «contraddire una decisione sol perché cinque Membri di una nuova Corte si trovano d’accordo con i giudici dissenzienti di una precedente Corte su una delicata questione di diritto».
La maggioranza della Corte, con Hyatt III, ha ceduto a questa «tentazione». E potrebbe ricadervi nel prossimo futuro.


La nomina di Brett Kavanaugh

Cinquantatré anni, maschio, bianco, cattolico, Brett Kavanaugh è il giurista che l’amministrazione Trump ha scelto di proporre al Senato per colmare il posto liberato da Anthony Kennedy nella Corte Suprema degli Stati Uniti d’America.

1.Per avere un primo inquadramento di questa nomina è opportuno muovere preliminarmente dalla ricostruzione del profilo politico del magistrato, un passaggio divenuto imprescindibile per orientarsi nell’agonismo che ormai anima l’attenzione verso la composizione della Corte Suprema (per una recente testimonianza, v. qui).
Il nome di Brett Kavanaugh era presente nella lista composta appositamente per il Presidente Trump dalla zelante Federalist Society, l’organizzazione di ispirazione conservatrice, attiva dagli anni ‘80, e ormai specializzata nel fornire supporto organizzativo e culturale alle amministrazioni a guida Repubblicana.
Kavanaugh, infatti, viene da un cursus politico molto eloquente. Nato nella capitale, cresciuto nel Maryland, dopo aver compiuto gli studi a Yale, Kavanaugh è stato assistente di vari magistrati tra i quali Kenneth Starr e, da ultimo, proprio Anthony Kennedy. Ha poi coadiuvato lo stesso Starr nell’indagine per l’impeachment di Bill Clinton. Sotto la presidenza di George W. Bush, mentre la moglie era la segretaria personale del Presidente, Kavanaugh ne è stato prima consigliere poi capo dello staff. Nel 2006 lo stesso Presidente lo ha nominato giudice federale per il Distretto di Columbia, carica ricoperta fino ad oggi.

2.Provando ora a tracciare alcune coordinate rappresentative della politica giudiziaria di Kavanaugh, si può muovere dai suoi orientamenti in materia di separazione dei poteri.
Su questo tema Kavanaugh ha tenuto dei corsi alla Harvard Law School, chiamato dalla allora preside Elena Kagan (che oggi siede in Corte Suprema, nominata sotto l’amministrazione Obama).  In un articolo pubblicato nel 2009 per la Minnesota Law Review Kavanaugh tirava le fila dei suoi anni trascorsi al servizio dell’Executive Branch, proponendo una serie di misure che potrebbero migliorare le dinamiche interne all’amministrazione federale. La prima di queste proposte, e quella che ha attirato le maggiori attenzioni della cronaca di questi giorni, è intitolata: «Assicurare ai presidenti in carica un differimento temporaneo delle cause civili e di indagini e incriminazioni penali».
Della sua attività giudiziaria si può ricordare il caso Al Bahlul v. United States, in cui l'imputato, l'autista di Osama Bin Laden, aveva presentato ricorso contro la condanna inflitta da una commissione militare sui crimini di guerra, sostenendo che gli articoli I e III della Costituzione impedissero al Congresso di rendere la cospirazione un reato perseguibile ad opera di una commissione militare, dal momento che la cospirazione non è un crimine secondo il diritto internazionale. Nel confermare la condanna, i giudici della Corte federale si erano mostrati divisi: quelli della maggioranza hanno evitato di affrontare la questione dell'autorità del Congresso; nella sua lunga concurring opinion, invece, il giudice Kavanaugh, rispondendo direttamente a quella domanda, ha dichiarato di non aver trovato alcun limite costituzionalmente imposto: «the federal courts are not empowered to smuggle international law into the U.S. Constitution and then wield it as a club against Congress and the President in wartime».
Altre pronunce concernenti la separazione dei poteri hanno tendenzialmente mirato a contenere l'autorità delle agenzie indipendenti. Più di recente, Kavanaugh ha dissentito da una sentenza che ha confermato la costituzionalità della struttura del Consumer Financial Protection Bureau: struttura in virtù della quale l'ufficio è diretto da un singolo funzionario, che può essere rimosso solo per giusta causa. Kavanaugh sarebbe invece dell’idea che una tale struttura violi l'articolo II della Costituzione che garantisce i poteri del Presidente: «Because of their massive power and the absence of Presidential supervision and direction – scrive Kavanaugh – independent agencies pose a significant threat to individual liberty and to the constitutional system of separation of powers and checks and balances». Da notare come Kavanaugh, in una nota a piè di pagina (la nota 18, a p. 61 della sua opinione dissenziente), abbia messo in dubbio il principio sancito in Humphrey’s Executor v. United States (1935), che rappresenta il fondamento storico della costituzionalità delle agenzie indipendenti, lasciando intendere che sarebbe incline a considerare un suo overruling.

3.Approfondendo il tema della regolazione amministrativa, è notorio che quella del Distretto di Columbia è una giurisdizione particolarmente impegnata nel judicial review of administration.
Kavanaugh, nel corso del suo mandato, si è segnalato per numerose pronunce in casi aventi ad oggetto atti di regolazione della Environmental Protection Agency (EPA). Sul tema, peraltro, in un più di un’occasione si sono registrate significative sinergie con Antonin Scalia, anch’egli esperto di regolazione amministrativa.
In un caso Kavanaugh, nel dissentire dal giudizio di inammissibilità su un ricorso riguardante la regolazione delle emissioni di gas serra, si è opposto al tentativo dell’EPA di adattare il testo di una legge del 1970, il Clean Air Act, per consentire la regolazione di una problematica ambientale che il Congresso non avrebbe potuto prevedere al tempo dell’emanazione della stessa, concludendo che l'EPA aveva ecceduto la sua autorità: secondo il giudice, «agencies presumably could adopt absurd or otherwise unreasonable interpretations of statutory provisions and then edit other statutory provisions to mitigate the unreasonableness». La Corte Suprema, con una maggioranza guidata da Scalia, nel rovesciare il verdetto, avrebbe preso le mosse dagli argomenti di Kavanaugh per sostenere che il Clean Air Act non autorizzava l'EPA a imporre alle fonti stazionarie di gas il previo ottenimento di autorizzazioni basate unicamente sulle emissioni prodotte.
In un altro caso il dissenso di Kavanaugh dalla maggioranza (che aveva sostenuto la decisione dell’EPA di non considerare i costi nel giudizio di proporzionalità – appropriate and necessary standard – in tema di regolazione delle centrali elettriche) sarebbe stato ripreso da Antonin Scalia, autore della sentenza con cui la Corte Suprema che avrebbe cassato quella decisione: «Put simply – aveva scritto Kavanaugh nel suo dissenso –  as a matter of common sense, common parlance, and common practice, determining whether it is “appropriate” to regulate requires consideration of costs».
Sebbene Kavanaugh non si sia sempre e sistematicamente pronunciato contro le misure dell’EPA (cfr. American Trucking Associations v. EPA 2010, National Mining Association v. McCarthy 2014, Natural Resources Defense Council v. EPA 2014) e abbia prediletto un approccio casistico, evitando attacchi frontali e sistematici alla dottrina Chevron sulla deferenza verso le interpretazioni delle agenzie, egli ha manifestato una chiara inclinazione a mitigare l’espansione delle autorità amministrative (conformemente alla tendenza ormai diffusa di rileggere criticamente la storia dello stato amministrativo americano). Conseguenziale è dunque lo stato di allerta in cui sono entrate le maggiori organizzazioni di protezione dell’ambiente dopo la nomina di Kavanaugh (v. ad esempio qui).
Per quanto concerne più in generale l’approccio al judicial review of administration, Kavanaugh è annoverabile tra i promotori della c.d. “major rules” doctrine, a tenore della quale, mentre le agenzie amministrative sono generalmente ritenute in possesso dell'autorità di emettere regole che risolvano ambiguità dell’atto di legge che delega loro il potere (e ciò in virtù della c.d. dottrina Chevron), le stesse possono adottare una regolazione importante (una major rule), ovvero una norma di grande significato economico e politico, solo a condizione che siano dotate di una puntuale autorizzazione del Congresso. La dottrina è notoriamente vista con favore dal Chief Justice Roberts, che ha improntato l’amministrazione della Corte Suprema a una forma di neutralismo scettico della funzione giudiziaria: a questa dottrina il giudice Roberts ha informato la decisione in King v. Burwell, 2015 (riguardante la riforma sanitaria voluta dall’amministrazione Obama), e la stessa è stata impiegata e spiegata dalla stesso Kavanaugh con un recente dissenso fatto registrare in un caso vertente sulla regolazione improntata alla c.d. net neutrality.
In un intervento tenuto nel 2017 alla Notre Dame Law School, Kavanaugh ha poi direttamente citato Roberts che nella sua confirmation hearings aveva paragonato il ruolo del giudice a quello di un arbitro di una partita di baseball.
Muovendo anche da queste considerazioni, dunque, secondo alcuni commentatori (v. qui v. qui), con la sostituzione di swinging Kennedy, potrebbe finalmente avviarsi il ciclo di una Corte Roberts.

4.Su un altro versante, risulta ancora difficile, all’indomani del suo ritiro, destreggiarsi tra le letture sull’eredità della giurisprudenza del giudice Kennedy, da un lato caratterizzata dalle monumentali tappe nella lotta per i diritti civili firmate dalla sua penna, e dall’altro sempre molto legata alle politiche del Partito Repubblicano.
Le reazioni dall’area progressista alla notizia delle sue dimissioni hanno oscillato tra lo sconforto e il disincanto. Ma il sentimento di gran lunga dominante all’indomani della nomina di Brett Kavanaugh è la preoccupazione verso la tenuta del principio di diritto dichiarato nella sentenza Roe vs. Wade (1973) sul diritto all’interruzione di gravidanza, il cui totale overruling è stato più volte evitato proprio dal giudice Kennedy.
Particolare attenzione sta ad esempio destando il caso Garza v. Hargan, che prende le mosse dalla vicenda di una minorenne incinta e senza documenti, in custodia per violazione della legge sull’immigrazione irregolare, che voleva interrompere la gravidanza ma aveva incontrato il diniego dei suoi tutori nominati dall’amministrazione. Davanti alla decisione della Corte federale (ottobre 2017) di rimettere a quella distrettuale l’esecuzione di un’ingiunzione che permettesse all’adolescente di ottenere l’aborto, il giudice Kavanaugh, sostenendo invece l’opportunità di annullare quell’ordine, ha dichiarato che una simile pronuncia è fondamentalmente basata «on a constitutional principle as novel as it is wrong: a new right for unlawful immigrant minors in U.S. Government detention to obtain immediate abortion on demand».
Da parte dei senatori Democratici si avanza in queste ore l’ipotesi di interrompere la prassi secondo cui, in sede di confirmation hearings, non si interrogano i giudici nominati su come deciderebbero uno specifico caso. Il leader della minoranza al Senato, Chuck Schumer,  sembra infatti intenzionato a rivolgere una netta domanda: «Do you support a woman’s constitutional right to an abortion, and will you vote to overturn the 1973 decision that guaranteed it nationwide, Roe v. Wade?».

5.Quanto alla tecnica interpretativa, nel citato intervento alla Notre Dame Law School, Kavanaugh ha chiarito la sua visione di giudice neutrale, in parte discostandosi dall’approccio puramente scettico sposato dal giudice Roberts. Secondo Kavanaugh, «[s]everal substantive canons of statutory interpretation, such as constitutional avoidance, legislative history, and Chevron, depend on an initial determination of whether the text is clear or ambiguous»; ma, piuttosto che sforzarsi di capire se una legge è chiara o ambigua, «judges should strive to find the best reading of the statute, based on the words, context, and appropriate semantic canons of construction».
Recensendo il libro di Robert Katzmann (Judging Statutes, Oxford University Press, 2014), Kavanaugh ha poi criticato il favore dell’autore verso l’impiego della storia legislativa per interpretare le leggi, ritenendo invece che «the decision whether to resort to legislative history is often indeterminate», e che  l'uso della storia legislativa dovrebbe «largely limited to helping answer the question of whether the literal reading of the statute produces an absurdity».
Questo approccio è stato seguito da Kavanaugh nella sua attività giudiziaria. Ad esempio, in Heller vs. District of Columbia (2011) – un caso riguardante una legge adottata dopo che nel 2008 la Corte Suprema, guidata da Scalia, aveva dichiarato incostituzionale una precedente regolazione di armi da fuoco – Kavanaugh ha dissentito dalla maggioranza per aver applicato uno scrutinio talmente amplio da arrivare ad ammettere la validità della legge: secondo Kavanaugh, invece, Scalia e la Corte Suprema avevano lasciato «little doubt that courts are to assess gun bans and regulations based on text, history, and tradition, not by a balancing test such as strict or intermediate scrutiny».
Nelle dichiarazioni successive alla presentazione della sua nomina, Kavanaugh si è quindi affrettato a ribadire il mantra secondo cui il giudice «should interpret the law, not make the law» (3’20’’).

6.Dalla già vastissima produzione giurisprudenziale di Kavanaugh (per alcuni dati statistici v. qui) non sembrano emergere orientamenti ben consolidati in materia di diritti civili, libertà d’espressione e diritto penale.
L’ingente dimensione del fascicolo che lo riguarda, in ogni caso, lascia supporre che il Senato impiegherà non pochi mesi per preparare la confirmation hearing.


Le finzioni di Marbury vs. Madison e la rule of law d’America

Note in margine a una rilettura di Paul W. Kahn, The  Reign  of  Law  -  Marbury  v.  Madison  and  the Construction  of  America  (Yale  University  Press,  New  Haven/London, 1997,  XII-306)