L’approccio hotspot davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo: commento a margine della sentenza nella causa J.A. e altri contro Italia (ricorso n. 21329/18)

Con la sentenza del 30 marzo 2023 (ricorso n. 21329/18, J.A. e altri contro Italia), la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Corte EDU) ha accertato la responsabilità dell’Italia per la violazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) mediante il trattenimento di quattro ricorrenti tunisini nel punto di crisi (hotspot) di Lampedusa e il loro respingimento al Paese di origine. La Corte di Strasburgo ha dichiarato che le condizioni materiali nel centro di prima accoglienza isolano si configuravano come trattamento inumano e degradante di cui all’art. 3, e la detenzione senza una chiara base giuridica e una decisione motivata corrispondeva alla privazione arbitraria della libertà personale di cui all’art. 5 §§ 1, 2 e 4 della CEDU. Inoltre, respingendo i ricorrenti in Tunisia senza una giusta procedura che avesse accertato le circostanze individuali, l’Italia ha violato il divieto di espulsione collettiva di stranieri di cui all’art. 4 del Protocollo 4.
Inserendosi in una serie di pronunce che hanno dichiarato la violazione della CEDU da parte dell’Italia riguardo alla “questione immigrazione” (cfr. ricorso n. 27765/09, Hirsi Jamaa e altri contro Italia, sentenza del 23 febbraio 2012, ricorso n. 16483/12, Khlaifia e altri contro Italia, sentenza del 15 dicembre 2016), la sentenza qui in commento fornisce un’analisi completa della cornice normativa e delle pratiche sviluppate in Italia negli ultimi anni. Più nello specifico, è di fondamentale importanza per la valutazione giuridica del c.d. approccio hotspot, lanciato dall’Agenda europea sulla migrazione del 2015, consistente nell’introduzione di una fase preliminare finalizzata alla preselezione delle persone bisognose di protezione internazionale dagli altri migranti, successivamente indirizzati alle procedure di rimpatrio. Inoltre, il termine indica anche il luogo in cui svolgere la prima selezione, istituito sulle frontiere esterne dell’Ue (nel caso dell’Italia, i punti di crisi sono stati stabiliti in Sicilia e in Puglia). La presente nota riassume brevemente i fatti e gli argomenti principali della pronuncia.
Dopo aver lasciato la Tunisia, l’imbarcazione – che trasportava un centinaio di persone, tra cui i ricorrenti – è stata soccorsa in mare da una nave italiana il 16 ottobre 2017. Successivamente, i ricorrenti sono stati accolti nell’hotspot di Lampedusa dove sono stati sottoposti al controllo medico e alla registrazione dei dati, ma hanno dichiarato di non aver ricevuto informazioni sufficienti circa la procedura di protezione internazionale. Sono rimasti lì per dieci giorni, periodo durante il quale non hanno avuto modo di interagire con le autorità, né lasciare legalmente il centro. Il 26 ottobre sono stati trasferiti all’aeroporto di Lampedusa dove le autorità hanno fatto firmare loro le decisioni sui divieti di ingresso e li hanno ammanettati. Successivamente, i ricorrenti sono stati trasferiti all’aeroporto di Palermo, dove hanno incontrato un rappresentante del consolato tunisino che ha registrato i loro dati. Infine, sono stati riportati in aereo in Tunisia lo stesso giorno (§§ 2-11).
Alla luce dei fatti, la valutazione della Corte consiste nell’analisi delle condizioni materiali di accoglienza, della detenzione e successivo respingimento dei ricorrenti. In primo luogo, riguardo alla collocazione nell’hotspot di Lampedusa, secondo il ricorso le condizioni materiali avrebbero raggiunto la soglia del trattamento inumano e degradante. Da un canto, la Corte EDU ha riconosciuto provato tale fatto attraverso vari mezzi di prova (cfr. il rapporto del 2017 del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale), corroborati anche da molteplici fonti nazionali e internazionali (cfr. il rapporto del 2017 del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti), nonché dalle testimonianze di diverse organizzazioni, come l’Organizzazione mondiale contro la tortura, che sono intervenute a fianco dei ricorrenti (§§ 59-63).
D’altro canto, i giudici di Strasburgo hanno ribadito che, pur sottolineando alcuni aspetti positivi del sistema hotspot, il governo italiano non ha contestato le affermazioni dei ricorrenti riguardo alle criticità delle condizioni materiali nel punto di crisi di Lampedusa, né ha prodotto prove sufficienti al fine di comprovare l’idoneità dell’accoglienza. Rinviando alla giurisprudenza consolidata (cfr. ricorso n. 30696/09, M.S.S. contro Belgio e Grecia, sentenza del 21 gennaio 2011, Khlaifia e altri contro Italia, cit.), la Corte ha ribadito che il divieto di tortura e trattamento inumano e degradante è di carattere assoluto; pertanto, l’art. 3 della CEDU non consente limitazioni o deroghe a tale divieto. Ne consegue che gli Stati membri del Consiglio d’Europa, in particolare gli Stati responsabili per le frontiere esterne dell’Unione europea (Ue) che devono affrontare intensi flussi migratori, non sono esentati dagli obblighi derivanti da tale articolo. Alla luce di ciò, la Corte di Strasburgo ha dichiarato che, esponendo i ricorrenti a un trattamento inumano e degradante durante la permanenza nell’hotspot di Lampedusa, l’Italia ha violato l’art. 3 della CEDU (§§ 64-67).

In secondo luogo, riguardo al trattenimento dei ricorrenti, la Corte di Strasburgo ha provveduto a una valutazione comprensiva dei concetti di legalità e arbitrarietà. In tale ottica, ha sottolineato che in Italia l’approccio hotspot era stato implementato tramite atti prettamente amministrativi, senza l’adozione di una normativa sistematica, come denunciato anche dalla dottrina (cfr., ex multis, C. Leone, La disciplina degli hotspot nel nuovo art. 10 ter del d.l.gs. 286/98: Un’occasione mancata, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, n. 2, 2017). Ne consegue che, nel periodo in cui i fatti sono accaduti (ottobre 2017), la cornice giuridica domestica non conteneva riferimenti di diritto sostanziale o processuale idonei a confermare la legalità della detenzione, né il governo ha fornito chiare fonti normative sulla massima durata e sulle condizioni della medesima (§§ 90-91).
Per quanto riguarda la nozione di arbitrarietà, la Corte ha ricordato che, pur essendo prevista dalla legge, la detenzione può essere arbitraria se non è condotta in buona fede, non è strettamente connessa allo scopo di prevenire l’ingresso non autorizzato nel territorio nazionale, e non provvede a garantire condizioni materiali adeguate (§ 82). In tale ottica, la Corte ha rigettato la motivazione del governo secondo la quale la detenzione serviva interessi pubblici legati all’identificazione e registrazione dei ricorrenti visto che loro non erano formalmente considerati richiedenti protezione internazionale. Dai rapporti di esperti indipendenti e organizzazioni nazionali e internazionali (si rinvia, ad esempio, al rapporto del 2017 del Rappresentante speciale per le migrazioni e i rifugiati del Consiglio d’Europa) si evince che il punto di crisi di Lampedusa sia uno stabilimento chiuso in cui non è consentita la libera circolazione dei migranti. Pertanto, la Corte di Strasburgo ha concluso che, oltre alla violazione del divieto di trattamento inumano e degradante, la detenzione dei ricorrenti equivaleva alla privazione di libertà personale di cui all’art. 5 §§ 1, 2 e 4 della CEDU (§§ 92-99).
In terzo luogo, riguardo al respingimento differito dei ricorrenti nel Paese di origine, la Corte ha reiterato che, ai sensi dell’art. 4 del Protocollo n. 4, corrisponde a espulsione collettiva qualsiasi misura che costringa collettivamente gli stranieri, come gruppo, a lasciare il territorio nazionale senza il dovuto esame delle circostanze personali di ciascun individuo (§ 106). Citando, tra diverse fonti, la sentenza n. 275 dell’8 novembre 2017 della Corte costituzionale, i giudici di Strasburgo hanno sottolineato che le autorità non avevano esaminato dovutamente le circostanze individuali e che la distribuzione di fogli notizie – pratica analizzata dalla Corte di Cassazione insieme ai respingimenti differiti con le pronunce n. 18189/2020 e n. 18322/2020 – non equivaleva ad un’assistenza adeguata ai ricorrenti per fargli comprendere il contenuto degli ordini di divieto di ingresso. Inoltre, i ricorrenti non hanno avuto la possibilità di impugnare tali decisioni in sede giudiziaria (§§ 113-115).
Alla luce di ciò, la Corte EDU ha concluso che, respingendo i ricorrenti in Tunisia, l’Italia non ha rispettato il divieto di espulsione collettiva di cui all’art. 4 del Protocollo n. 4. In sintesi, per la violazione degli articoli 3, 5 §§ 1, 2 e 4 e l’art. 4 del Protocollo n. 4 della Convenzione, i giudici di Strasburgo hanno condannato l’Italia a pagare un ammontare di 8.500 EUR a ciascun ricorrente a titolo di danno non patrimoniale, in più un importo complessivo di 4.000 EUR per coprire le spese processuali.
Come sottolineato in precedenza, la sentenza qui in commento non è la prima a stabilire la responsabilità dell’Italia per la mancata osservanza della Convenzione riguardo alle pratiche di accoglienza, trattamento e respingimento dei migranti soccorsi in mare. Più in generale, con la pronuncia del 30 marzo 2023 la Corte EDU ha di nuovo richiamato l’attenzione sulle criticità emergenti dalla gestione delle frontiere esterne dell’Ue (cfr., la giurisprudenza relativa alle zone di transito istituite dall’Ungheria al confine con la Serbia: ricorso n. 47287/15, Ilias e Ahmed, sentenza del 21 novembre 2019, ricorso n. 36037/17, R.R. e altri, sentenza del 2 marzo 2021, ricorso n. 38967/17, H.M. e altri, sentenza del 2 giugno 2022, ricorso n. 36896/18, W.O. e altri, sentenza del 25 agosto 2022; oppure la pratica dei respingimenti messa in atto dalla Polonia verso la Bielorussia: ricorso n. 51246/17, D.A. e altri, sentenza dell’8 luglio 2021, ricorso n. 42907/17, A.B. e altri, ricorso n. 39028/17, A.I. e altri, sentenze del 30 giugno 2022).
La sentenza del 30 marzo 2023, dunque, è un altro esempio dell’interpretazione evolutiva della Convenzione come “strumento vivente”, in base alla quale i giudici di Strasburgo mirano a trovare un giusto equilibrio fra gli interessi nazionali legati al controllo dei confini e gli eccessi di tali pratiche. Riguardo alle prospettive della “questione immigrazione” nell’Ue, le proposte legislative del nuovo Patto europeo sulla migrazione e asilo lanciato nel settembre 2020 sono attualmente oggetto di negoziazioni. Tuttavia, le criticità legate soprattutto alla formalizzazione dell’approccio hotspot tramite l’introduzione di una fase preliminare degli accertamenti sulle frontiere esterne sono state già riscontrate in varie sedi. Qualunque siano gli esiti delle trattative fra le istituzioni dell’Ue, gli Stati membri e gli Stati terzi, non vi è dubbio che la Corte EDU continuerà a giocare un ruolo centrale nella protezione dei diritti umani dei migranti in Europa.