L’ultima sentenza Lautsi: margine di apprezzamento, principio maggioritario e libertà di coscienza

Il 18 marzo è stata pubblicata l’attesa sentenza della Grand Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo relativa alla dibattuta questione della compatibilità tra obbligo di esposizione del Crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche della Repubblica italiana e alcune norme della CEDU, tra cui l’art. 9 della Convenzione – in materia di libertà di coscienza e religione – e l’art. 2 del Protocollo addizionale n. 1, relativo al diritto all’istruzione: quest’ultima disposizione, in particolare, prevede che lo Stato, “nell’esercizio delle funzioni che assume nel campo dell’educazione e dell’insegnamento”, debba rispettare il diritto dei genitori a provvedere a tali compiti secondo le proprie convinzioni.

La sentenza resa sulla stessa questione dalla seconda Sezione della Corte (3 novembre 2009) aveva ricavato dal combinato operare delle due disposizioni segnalate la conclusione secondo cui l’obbligo di esposizione del Crocifisso nelle aule scolastiche violava, oltre che il diritto dei genitori di cui all’art. 2 del Protocollo citato, anche la libertà religiosa e di coscienza dei giovani allievi dell’istituto scolastico, nella misura in cui l’esposizione (obbligatoria) di un simbolo riconducibile ad una delle confessioni religiose presenti nella comunità politica italiana – sia pure maggioritaria e facente parte della tradizione culturale e spirituale del Paese – si poneva in contrasto con l’obbligo dello Stato di garantire un ambiente scolastico “neutro”, nel senso (non di indifferente alle diverse convinzioni anche religiose ma) di aperto alla molteplicità delle posizioni presenti nel contesto di una moderna democrazia pluralista (parr. 48 ss.).

La sentenza, come noto, aveva dato luogo ad un vasto dibattito in dottrina e nella pubblicistica, di cui è traccia anche negli archivi di questo blog (cfr. il contributo di I. Ruggiu, la pubblicazione dell’intervista di Marta Cartabia all’Avvenire e la pubblicazione dell’intervento di Joseph Weiler dinanzi alla Corte del 30 giugno 2010).

Com’era stato segnalato in uno dei commenti a precedenti post sul tema (a.b. sul post di I. Ruggiu), si è rivelata decisiva – nella sentenza della Grande Camera – la questione del margine di apprezzamento riconosciuto allo Stato nell’osservanza della Convenzione, rilievo peraltro centrale nel ricorso del Governo italiano avverso la sentenza della seconda Sezione. Proprio su questo profilo è necessario soffermarsi, prima di svolgere alcune considerazioni generali sul rapporto tra obbligo di esposizione del Crocifisso nelle aule scolastiche, libertà religiosa e di coscienza, principio di laicità.
Nella sentenza in esame, la Corte lega il margine di apprezzamento alla salvaguardia di tradizioni legate all’esperienza religiosa ed all’universo simbolico che ad essa fa capo, riservandosi la funzione di sindacare la coerenza interna e la ragionevolezza delle previsioni normative e delle prassi statali in ordine al rispetto della Convenzione, con riferimento – nel caso di specie – alla protezione della libertà religiosa. La sussistenza del margine di apprezzamento è dedotta, tra l’altro, dall’asserita assenza di un “vasto consenso europeo” sul tema (profilo aspramente criticato nell’opinione dissenziente del giudice svizzero Malinverni), che giustificherebbe la specifica rilevanza dell’istanza identitaria rispetto all’esigenza di garantire uniformemente i diritti tutelati dalla Convenzione.

Il legame tra margine di apprezzamento e salvaguardia della tradizione e dell’identità dello Stato membro – di per sè non criticabile – è tuttavia ammissibile, come si ricordava, solo nei limiti di un controllo molto puntuale sulle soluzioni concretamente adottate dallo Stato membro, sotto il profilo della loro effettiva incidenza sulla libertà religiosa dei singoli (vedi, sul punto, le penetranti osservazioni di Antonella Ratti, nel post pubblicato ieri). Tale controllo mira, in modo particolare, a neutralizzare le conseguenze potenzialmente negative di una saldatura tra margine di apprezzamento e valutazioni dell’istanza identitaria affidate in modo esclusivo alla maggioranza (vedi, su questo profilo, il saggio di Susanna Mancini su Giurisprudenza Costituzionale, fasc. 5/2009). In altre parole, non si tratta dell’automatica legittimazione di ogni valutazione relativa alla salvaguardia dell’identità nazionale o della tradizione storica e culturale, che si traduca in previsioni normative, orientamenti giurisprudenziali o prassi idonee all’individuazione di un margine di apprezzamento; tutto al contrario, sono ammesse solo quelle soluzioni nazionali che superino lo scrutinio della Corte europea, orientato alla valutazione in concreto dell’incidenza di simili soluzioni sull’effettivo godimento – nel nostro caso – della libertà religiosa (in questo senso vedi la sentenza Ahmet Arslan c. Turchia, 23 febbraio 2010, ma anche, molto significativamente, l’opinione dissenziente del giudice Malinverni). Sulle forme e sulla portata di simile controllo si gioca dunque l’intera partita del bilanciamento tra identità costituzionale nazionale ed effettività della CEDU, orientato – è bene ribadirlo – alla protezione della libertà religiosa.

Appare dunque necessario concentrare queste rapide osservazioni critiche proprio sul modo in cui la Corte ha esercitato tale forma di controllo sulla ragionevolezza del margine di apprezzamento.

La Corte individua, come limite interno alla salvaguardia del margine di apprezzamento nazionale su questa materia, la ravvisabilità di comportamenti attivi volti all’indottrinamento o al proselitismo. In tale contesto argomentativo, pur riconoscendo che l’esposizione del Crocifisso attribuisce visibilità preponderante alla religione (già) maggioritaria, essa ritiene che l’imposizione dell’obbligo di esposizione del Crocifisso non travalichi nell’indottrinamento degli allievi, in linea con quanto a suo tempo sostenuto in relazione a programmi di insegnamento relativi alla cultura religiosa prevalente nello Stato membro (sent. Folgero e altri c. Norvegia del 29 giugno 2007). Vale ricordare – specie ai fini di una riflessione sul rapporto tra margine di apprezzamento e valutazioni maggioritarie dell’istanza identitaria – che, nella sentenza Dahlab (15 febbraio 2001, r. n. 42393/98), pure richiamata, la Corte aveva giustificato il divieto di indossare il velo islamico per l’insegnante, in quanto “segno esteriore forte” suscettibile di incidere sulla sensibilità religiosa degli allievi, con ricadute peraltro assai significative sulla libertà religiosa del singolo (l’insegnante, in questo caso), sulla sua autodeterminazione, sulla sua identità culturale. L’esposizione di un simbolo religioso sulla persona dell’insegnante veniva cioè considerato maggiormente lesivo della libertà religiosa degli allievi rispetto ad un programma di insegnamento incentrato sulla cultura religiosa prevalente o, come nel caso che oggi ci occupa, rispetto all’obbligo di esporre un simbolo religioso – riconducibile alla religione maggioritaria – sulla parete dell’aula scolastica (su questi passaggi, vedi per maggiori dettagli il post di Antonella Ratti). E’ davvero molto difficile trovare un comune denominatore a simili decisioni se non facendo riferimento all’applicazione del principio maggioritario, o quantomeno alla preferenza per “rendite di posizione” di convinzioni religiose tradizionalmente prevalenti. L’interpretazione di concetti come “indottrinamento” e “proselitismo”, in linea di principio riconosciuti come condotte attive rivolte alla trasmissione di un determinato credo religioso, appare mutevole a seconda delle fattispecie ed in definitiva profondamente condizionato da interpretazioni del contesto socio-culturale di riferimento, spesso fortemente influenzate da prospettive “maggioritarie” (nel nostro caso, un ricorso governativo), laddove sarebbero forse preferibili percorsi argomentativi di respiro più ampio, ispirati al paradigma comparativo e ad una considerazione più approfondita dei contesti (vedi, sul punto, il bel post di Renato Ibrido del 18 marzo).

Ma c’è un altro profilo della sentenza – sempre relativo al controllo sul margine di apprezzamento – che merita di essere sottolineato. Rispetto alla sentenza della seconda sezione si registra, infatti, un deciso mutamento di paradigma nell’interpretazione del principio di laicità: all’abbandono della centralità dell’autodeterminazione dei giovani allievi in materia religiosa si accompagna infatti il recupero – nell’interpretazione del principio di laicità – di una prospettiva istituzionale, incentrata cioè sulle relazioni interconfessionali e tra lo stato e le confessioni religiose. Ciò traspare molto chiaramente da uno degli argomenti utilizzati dalla Corte per sostenere la legittimità dell’obbligo di esposizione del Crocifisso come espressione del margine di apprezzamento dell’Italia nell’applicazione della CEDU, vale a dire quello legato all’assenza di intolleranza verso le altre religioni nell’ambiente scolastico (punto 74), come fattore di relativizzazione della portata della preferenza accordata alla confessione maggioritaria attraverso l’obbligo di esposizione del Crocifisso. L’insistenza sul profilo maggioritario e l’associata sottolineatura di atteggiamenti di non intolleranza verso le religioni minoritarie orienta infatti l’interpretazione del principio di laicità privilegiandone la dimensione istituzionale.

In altre parole, e semplificando, ciò che conta non sono i processi di autodeterminazione dei singoli, la loro libertà di coscienza – che era stata invece al centro della sentenza del 2009 – e la tutela di essa di fronte a ingerenze anche meramente simboliche o “passive” da parte dello Stato; l’attenzione è rivolta piuttosto ai gruppi confessionali, alla necessità di una loro rappresentazione in sede scolastica, ad una considerazione delle loro esigenze, secondo un atteggiamento non certo criticabile in linea di principio – la tutela del gruppo può riflettersi in un ampliamento di tutela del singolo anche se non sempre è così – ma esposto all’influenza del principio maggioritario (come evidente proprio nel caso che ci occupa) ed inevitabilmente parziale, nella misura in cui evita di includere nel ragionamento il profilo della protezione di percorsi di autodeterminazione, come espressione del principio di laicità.

Il problema resta infatti, almeno a mio parere, proprio quello dell’intreccio tra principio di laicità, autodeterminazione, contesto di riferimento (l’ambiente scolastico) e imposizione normativa dell’obbligo di esposizione del Crocifisso. Quest’ultimo, seppure non (più) oggetto di coercizione e addirittura desueto in moltissimi istituti scolastici, si pone infatti ancora – e proprio la giurisprudenza sul caso Lautsi ne è un segnale – quale ostacolo all’accoglimento di domande volte alla rimozione del simbolo, tanto in sede amministrativa (anzitutto in seno alla comunità scolastica di istituto), quanto in sede giurisdizionale, entrando in conflitto – oltre che con i diritti dei singoli – anche con l’autonomia scolastica disciplinata dalla legge e protetta dagli artt. 2, 33, e 34 della Costituzione. La cornice scolastica – la comunità di istituto, la comunità di aula – è luogo privilegiato di accompagnamento di processi di autodeterminazione, formazione sociale nella quale il singolo svolge la propria personalità ai sensi dell’art. 2 Cost. it. (ma vedi, in questo senso, anche l’opinione dissenziente del giudice Malinverni, specie per il richiamo alle osservazioni del Comitato ONU per la protezione dell’infanzia). La scuola pubblica, in modo particolare, rappresenta una cornice necessariamente neutra, che accoglie in sé la pluralità di esperienze di vita e cultura presenti sul territorio di riferimento, nel quadro di programmi di insegnamento orientati all’esposizione aperta, critica e pluralista delle diverse opzioni culturali e religiose. Neutralità non nel senso di indifferenza, ma nel senso di apertura alla molteplicità, alla coesistenza, alla cooperazione solidale tra diverse identità culturali, come è proprio di una democrazia costituzionale orientata al pluralismo dei valori. Simile contesto entra inevitabilmente in sinergia con l’autodeterminazione, intesa come espressione della dignità umana (Ridola, La dignità dell’uomo e il principio libertà nella cultura costituzionale europea, in Id., Diritto comparato e diritto costituzionale europeo, Giappichelli 2010, pp. 77 ss., 102 ss., 132 ss.), come libertà che fonda le scelte e definisce l’identità morale (De Monticelli, La questione morale, Raffaello Cortina, 2010, p. 154). Come tale, l’ambiente scolastico non può tollerare l’imposizione di obblighi che finiscano direttamente o indirettamente per qualificarlo, anche se proprio per questa sua vocazione primaria non rimane – non può rimanere – indifferente al contesto culturale, alle convinzioni personali e religiose e all’universo simbolico che ne è espressione. Il ruolo dell’ordinamento giuridico non può essere quello di imprimere una direzione ai processo di autodeterminazione che la cornice scolastica accompagna. Esso dovrebbe riscoprire piuttosto la propria funzione di “luogo di scoperta del giusto” (De Monticelli, op. cit., 156), una scoperta indipendente da predeterminazioni autoritative, frutto di una libertà non (più) guidata (ivi, 184) e che si realizza attraverso l’apertura di spazi di esperienza sempre più vasti e plurali. In quest’ottica, la soluzione di legittimare l’obbligo, giustificandolo sulla base dell’assenza di restrizioni nei confronti delle altre religioni o peggio sulla base di una neanche troppo velata applicazione del principio maggioritario presenta gli stessi svantaggi di un generale divieto di esposizione, che finirebbe per tradurre la neutralità in ostile indifferenza. Sarebbe preferibile piuttosto, in questa come in altre questioni che investono la libertà di coscienza, privilegiare – secondo l’insegnamento di L. Elia – soluzioni facoltizzanti (che potrebbero discendere, al limite, dalla mera eliminazione della previsione normativa dell’obbligo), lasciando la scelta all’autodeterminazione, in questo caso, della comunità scolastica e dei singoli attraverso di essa. Non si esclude, dunque, che la presenza del Crocifisso possa rappresentare un referente simbolico fondamentale, anche da un punto di vista critico, per arricchire l’ambiente scolastico come spazio di esperienza all’interno del quale si articolano processi di autodeterminazione. Bisogna domandarsi piuttosto – ma è argomento che esula, in parte, dal discorso – quanto l’obbligo di esposizione del Crocifisso possa distorcere la valenza del simbolo, declinandola in un senso polemico che non le è proprio, in definitiva esponendolo a contaminazioni lato sensu politiche che dovrebbe preoccupare chi di dovere, piuttosto che far parlare di “vittoria storica”. E’ l’imposizione dell’obbligo, infatti, e non il simbolo in sé, ad impedire di fare dell’ambiente scolastico uno spazio aperto ad ogni simbolo, ad ogni convinzione, privo di condizionamenti autoritativi, in cui lasciar “tornare a respirare” (De Monticelli) l’esperienza giuridica e la partecipazione civile, secondo percorsi di autodeterminazione consapevole, responsabile, solidale, ispirata al dialogo e al confronto.

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