Marco Dani, Il diritto pubblico europeo nella prospettiva dei conflitti (CEDAM, Padova) 2013

Il dibattito sulla natura costituzionale o meno (o più o meno costituzionale) dell’Unione europea e del suo diritto, dopo due decenni circa di splendore, ha conosciuto recentemente una fase di stanca.
Fiorita dopo il Maastricht-Urteil del Tribunale costituzionale tedesco del 1993 una ricca serie di teorizzazioni sull’autorità e sulla legittimazione del diritto europeo, che hanno accompagnato e ispirato i noti tentativi e i fallimenti costituzionali del decennio scorso, e si sono poi interrogate sulle risultanti discrasie del post-Lisbona, la dottrina giuspubblicistica negli ultimi anni è parsa più dedita ad annotare le gravi tensioni derivanti dalla crisi economica e politica in atto nel continente, le cui dimensioni e le cui prospettive sono ancora di là da essere compiutamente definite.
Il bel libro di Marco Dani, edito lo scorso anno, rompe questa tendenza riallacciando le fila dei dibattiti del passato e delle criticità del frangente attuale.

L’obbiettivo del volume, ambizioso, è quello di un’indagine storica sull’evoluzione del «diritto pubblico europeo», locuzione attraverso la quale l’Autore allude alla «combinazione di diritto pubblico statale e sovranazionale» (p. 2), come accade del resto nelle teoriche del costituzionalismo multilivello di origine tedesca; ma, a differenza di tali ultime visioni, Dani caratterizza la propria analisi in senso ben più polemico rispetto all’irenismo di Ingolf Pernice e dei suoi adepti, assume la questione sociale e la intermediazione dei relativi conflitti come centrale strumento euristico della propria ricerca, e indaga in tale specifico senso la peculiare «combinazione», sovrapposizione europea di due strati di normazione giuspubblicistica.
Il capitolo I del libro si apre, in un’ottica di sincretismo dottrinario, con un’esperta carrellata sui più accreditati «paradigmi cognitivi» sino ad oggi propalati sulla natura del diritto pubblico europeo, tanto con riguardo a quelli «che ammettono la natura costituzionale dell’Unione europea» (p. 39 e ss.: monismo costituzionale, costituzionalismo federale, pluralismo costituzionale), quanto a quelli che la vorrebbero confutata (p. 52 e ss.: costituzionalismo difensivo, teoriche dello «stato regolatore» e/o della delega amministrativa, pluralismo sistemico).
Dani (pp. 64/65) intende valorizzare la «prospettiva dei conflitti» anche per dimostrare come simili paradigmi cognitivi, per quanto carichi di conseguenze specifiche per la comprensione del reale, possano essere tenuti insieme in un rapporto di complementarietà; ciò nonostante, già nel capitolo II, con un interessante excursus storico sulla «parabola dei conflitti del diritto pubblico europeo» e sul ruolo in quest’ottica assunto dal costituzionalismo democratico novecentesco, chiarisce come, a suo dire, allo stato attuale sia solo quest’ultimo quello dotato di reali credenziali per l’istituzionalizzazione pacifica di conflitti e cooperazioni nell’organizzazione sociale.
Il diritto pubblico sovranazionale sarebbe per sua natura diretto, infatti, all’istituzionalizzazione di conflitti e cooperazioni tutt’affatto diversi, di natura meramente intestatale (p. 84), e connessi con altre problematiche politiche, quelle relative alla mobilità dei fattori di produzione: la sua ispirazione e la sua strategia distributiva sono pertanto non quelle della redistribuzione, ma dell’efficienza allocativa (p. 86), specie in ottica deregolamentativa, e sebbene siano capaci di correggere alcuni difetti dei processi democratici statuali (p. 89) potrebbero di per se stesse entrare in frizione con tradizionali misure concepite all’interno delle strutture nazionali per la intermediazione sociale.
Detta analisi porta l’Autore alla formulazione diretta e subitanea della sua tesi (p. 92): il risultato complessivo del processo di combinazione/sovrapposizione tra diritto pubblico sovranazionale e costituzioni democratiche nazionali sarebbe quello di un’«affermazione egemonica» del primo nei confronti delle seconde.
Tale affermazione egemonica – che il lettore intenderebbe carica di un portato volontaristico, risultante di un progetto perseguito nei decenni – si sostanzierebbe negli effetti del passaggio da un equilibrio originario fatto di «divergenza e separazione» tra le sfere di competenza nazionali e sovranazionali, ognuna libera di dispiegare, fino agli anni ’70, le proprie diverse strategie distributive (capitolo III), ad una fase di convergenza e sovrapposizione materiale conclamatasi con l’Atto unico europeo del 1987 (capitolo IV), che ha sì posto le basi per un’Unione europea dagli obiettivi aperti, attiva anche in sede di politiche sociali e industriali, in materia di cittadinanza e di tutela dei diritti fondamentali,  ma che avrebbe ibridato con il proprio ethos mercatista il linguaggio stesso dei diritti costituzionali (p. 200).
I noti contenziosi Schmidberger e Viking dello scorso decennio sono i casi di studio di conflitti interordinamentali presentati dall’Autore a suffragio delle proprie tesi: in essi la Corte di Giustizia di Lussemburgo sì allarga «le maglie dei principi di regolamentazione del mercato per far posto ai diritti fondamentali» (p. 205), ma al tempo stesso procedimentalizza i contorni dell’esercizio di questi fino ad includerli – in modo per l’Autore inaccettabile – in esercizi di bilanciamento e proporzionalità con le libertà fondamentali di altri attori economici.
La penetrazione di una diffusa cultura del mercato nella giurisprudenza costituzionale nazionale, ad es. in Italia in tema di mercato radiotelevisivo (p. 206), e la centralizzazione del ruolo degli esecutivi nazionali (p. 228) nelle costituzioni democratiche sarebbero altri frutti avvelenati di un’integrazione sovranazionale eccessiva, fattasi smodata convergenza.
E che in questa convergenza non vi sia equilibrio è evidenziato (capitolo V) dall’impatto che effetto diretto e primato del diritto dell’Unione («nucleo prescrittivo dell’egemonia»: p. 240) avrebbero per via dell’invasività del meccanismo procedurale giudiziario del rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE in ambiti di classica operatività di misure sociali nazionali (p. 254); dall’atrofia del parlamentarismo tanto nazionale quanto sovranazionale (p. 257); dalle criticità di legittimazione del cd. circuito della regolamentazione fatto di comitologia, agenzie specializzate, deleghe normative a soggetti privati (p. 270), strumenti tutti di «post-politica» in senso mouffiano (p. 286) più che di realizzazione di obbiettivi e valori classici del costituzionalismo, inclusa la giustizia sociale (p. 290), del cui lessico pur tuttavia il diritto europeo si ammanta (p. 326).
Un excursus sulle recenti criticità della «crisi economico-finanziaria» in atto (capitolo VI) fonda per Dani l’apprezzamento per la «fine degli equivoci» costituzionalistici, giacché il relativo lessico sarebbe finalmente, e non per caso, del tutto espunto dalla politica sovranazionale (p. 360); e l’occasione per avanzare alcune interessanti proposte operative per la «resistenza» alle vecchie e nuove tendenze egemoniche del diritto UE (capitolo VII).
In tal senso, la strada maestra sarebbe la valorizzazione del principio del rispetto dell’identità costituzionale degli stati membri di cui all’art. 4(2) TUE: principio che andrebbe operativizzato, sia con un robusto coinvolgimento dei parlamenti nazionali, in funzione oppositiva, nel metodo comunitario, sia attraverso la deflagrazione di conflitti di autorità attraverso il meccanismo giudiziale di rinvio pregiudiziale, ove le corti costituzionali possano riappropriarsi di un ruolo centrale in effetti perso, che schermi l’applicazione indistinta del primato del diritto UE.

Il libro si caratterizza insomma tanto per l’audacia delle tesi quanto per l’ampiezza degli argomenti coinvolti.
La ricostruzione offerta, da uno studioso che dimostra grande dimestichezza tanto col diritto costituzionale che con quello europeo, è preziosa per il lettore anche a fini ricognitivi, tanto con riguardo alla letteratura stratificatasi sulla vasta congerie di temi trattati quanto all’evoluzione storica prodottasi.
L’attitudine chiara, e tempistica, è quella di una critica politica del dispiegarsi dei rapporti istituzionali nel diritto pubblico multilivello.
L’analisi è interessante e a tratti convincente, e si fonda su un bello studio dell’evoluzione del costituzionalismo che parte dai primordi per arrivare alle più recenti tensioni. Tuttavia, sembra talvolta fare perno su alcuni snodi rilevanti, come certi conflitti interpretativi a livello di giurisdizioni superiori, senza però dedicare analoga profonda analisi ai più ampi indirizzi politici negli stati membri e al loro (supposto) mutare: non solo ci sarebbe stato in tal senso il potenziale per un’ancora più avvincente ricerca a livello comparato, ma forse un simile argomentare avrebbe meglio corroborato la pesante tesi di una velleità egemonica del diritto UE, che, in senso gramsciano, non può non essere letta che come controllo della ideologia e dell’autocoscienza del dominato, che in questo caso è il costituzionalismo democratico statale.
E’ il costituzionalismo democratico statale così cambiato nella sua essenza profonda, o così a rischio di snaturamento, per l’esposizione ai principi sovranazionali, alle libertà fondamentali di circolazione, al loro ethos mercatista?
Può darsi, ma in tal senso un più fitto dialogo con chi ha argomentato in tema di sovrapposizione (e non contrapposizione) tra conflitti sociali e territoriali a livello europeo, o con chi ha illustrato come il diritto (costituzionale) europeo possa nutrirsi di tali conflitti per evolvere, sarebbe stato opportuno.
Le stesse conclusioni, pur raffinatamente argomentate, sono meno deflagranti delle premesse, giacché sostanzialmente in linea con le aspirazioni di teorici di ricostruzioni costituzionali del diritto UE, quando non anche con ciò che il Trattato di Lisbona già di per sé aspirerebbe a introdurre: sono infatti purtroppo spesso le pratiche capacità o le pragmatiche priorità degli attori nazionali, giudici o parlamenti, a frustrare una desiderata e più compiuta osmosi tra livelli normativi, e gli esempi più evidenti si rinvengono proprio nelle strumentali, strampalate invocazioni in giudizio della clausola di identità costituzionale, o nello svilimento del vaglio di sussidiarietà parlamentare per le più terragne velleità di contestazione politica.
Anche in questo, ovviamente, soccorre l’idea che l’integrazione è un processo, intrinsecamente perfettibile.
Peraltro proprio in tal senso la crisi economico-finanziaria, che è anche crisi politica tanto per l’Unione quanto per gli stati membri – sebbene non (sempre) declinata nel lessico costituzionalistico – è qui e ora a interrogare le categorie dello studioso: potrà senz’altro avere una portata distruttiva su tante delle convinzioni del passato, ma può anche prefigurare all’orizzonte una nuova opportunità, un nuovo momento costituzionale, anche nel senso di maggiore integrazione e dinamiche re-distributive, ove di nuovo i piani dei conflitti interstatali e sociali si vengano a sovrapporre.
In definitiva, Marco Dani ha scritto un libro ricco e coraggioso, utile su più piani, che va ben oltre le dispute terminologiche o di principio, e che va letto per orientarsi nelle sfide attuali fronteggiate dal diritto pubblico e/o costituzionale. Le varie criticità del cd. «diritto pubblico europeo» – o comunque si voglia chiamare l’assetto attuale dei poteri pubblici continentali – sono infatti ben distinte, evidenziate e discusse.
Come per tutti i libri che hanno, nell’evidente connotazione critica, una tesi esplicita che l’Autore cerca di suffragare (ma quale la distinzione tra velleità egemoniche del progetto europeo, il suo noto «democratic deficit», il temuto odierno «democratic default»?), starà al lettore decidere se aderirvi, o sperare in questo caso che Dani sia presto forzato ad una seconda edizione del volume, dopo la fine della tempesta attuale.