Nuovo governo in Germania: l’ultima chance del grande centro?

1. Alla fine, la rimonta di Scholz non c’è stata. Come da tutti i pronostici, il candidato cancelliere della CDU e della bavarese CSU, Merz, ha vinto le elezioni con il 28,5% (più 4,4%). Per la prima volta nella storia repubblicana, l’AfD si è piazzata al secondo posto (primo partito nella ex DDR), finora sempre occupato o dall’SPD o dalla CDU/CSU. Escono dal Bundestag, per la seconda volta dopo il 2013, i liberali dell’FDP. Ha mancato lo sbarramento del 5% per 9.000 voti anche il BSW, cioè gli scissionisti della Linke capeggiati da Wagenknecht. Rientra, invece, facilmente nel Bundestag il suo “partito madre”, la Linke, già dato per morto. Con il BSW in parlamento, CDU/CSU e SPD avrebbero mancato la maggioranza parlamentare e avrebbero dovuto formare un altro governo a tre, aggregando i Verdi. Così, invece, sarà possibile dare vita a un’altra Grosse Koalition (secondo la terminologia tradizionale perché, in voti assoluti, non raggiunge nemmeno il 50%).
Dopo soli tre anni, finisce, dunque, l’esperienza del centrosinistra al governo con un crollo cumulativo del 19,5%. Sorprende, più che altro, che l’opposizione conservatrice ne abbia attratto nemmeno un quarto dei voti in uscita. L’alternanza tradizionale si è arenata. Molti hanno cercato l’alternativa al di fuori dell’arco tradizionale. Alla luce del risultato elettorale occorre fare alcune considerazioni sulla leadership del cancelliere Scholz nel governo uscente, la parabola dei liberali e la sorte dei Verdi, l’exploit dell’AfD e lo spazio che si è aperto a sinistra, per finire sulle prospettive del nuovo governo che sarà guidato dall’ultima grande democrazia cristiana in Europa.

2. L’allora vicecancelliere Scholz aveva vinto le elezioni nel 2021 posizionandosi come vero erede della Merkel in punto di seriosità ed esperienza. Solo che contro Scholz, più che contro la Merkel, si è manifestata una certa stanchezza, aggravata dalla mancata ripresa economica dopo il Covid e dalla questione migratoria. Così i semi dell’antipolitica seminati durante il lungo cancellierato Merkel sono infine germogliati durante il breve cancellierato Scholz. Troppo tardi ci si è accorti, infatti, che il “metodo Merkel” del navigare a vista e del compromesso a oltranza era arrivato al capolinea.
Eppure, il governo Scholz non era destinato al fallimento a prescindere. Il suo momento probabilmente più forte è stato il suo discorso al Bundestag sulla Zeitenwende, pochi giorni dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia nel febbraio 2022, impostando una svolta nella politica di sicurezza tedesca, tra cui l’invio di armi in zone belliche attive, finora escluso. Solo che il seguito del discorso è rimasto incompiuto, tra tentennamenti e mancate coperture finanziarie. Il termine Zeitenwende compare per la prima volta nel libro di Scholz Hoffnungsland del 2017, ossia paese per speranze. Nel libro, ancora da sindaco di Amburgo, Scholz delinea una politica più centrista di quanto poi avrebbe messo in atto. Seppur poco letto, il libro venne consigliato sui corridoi della cancelleria come chiave di lettura sul pensiero di Scholz. Il cancelliere uscente, tra l’altro, è un lettore assiduo, con un libro sempre nella borsa. Fu ironia della sorte il rifiuto del vicepresidente Vance di un colloquio bilaterale ai margini della conferenza sulla sicurezza a Monaco al probabile unico leader-lettore della sua Hillbilly Elegy. Un altro intervento di Scholz, poco conosciuto al di fuori della bubble di Bruxelles, ma punto di riferimento della sua politica europea, è stato il discorso di Praga del 2022 sul futuro dell’Unione europea, nel quale sosteneva che i processi di allargamento e di riforme interne all’Unione europea dovessero andare di pari passo per rafforzarne la capacità d’azione.
L’inizio della fine del governo Scholz, col senno del poi, fu probabilmente l’incapacità di fare fronte alla situazione di pressione causata dal combinato disposto della pressione economica in seguito all’aggressione russa e della sentenza del Tribunale federale costituzionale sul freno al debito del novembre 2023. Già il “contratto di coalizione”, infatti, poggiava sul presupposto che la transizione ecologica – e tante altre cose care ai tre partner di governo – fosse finanziata in parte da un fondo speciale nel quale sarebbero confluiti i residui miliardi dei fondi Covid. A ciò si è aggiunta la crisi del gas russo e gli aiuti all’Ucraina. Sembrava la soluzione perfetta: spalmare la spesa per gli anni a venire ma bilanciarla una tantum negli anni Covid, quando il freno era già stato sospeso in via emergenziale. Solo che Karlsruhe l’ha infranto invocando il principio di annualità del bilancio.
Ora le strade erano due: convincere l’opposizione democristiana a riformare il freno al debito in costituzione, con la maggioranza dei due terzi. Ma il leader dell’opposizione Merz è stato categorico nel suo rifiuto, vedendone già le crepe che avrebbero, nel tempo, fatto esplodere la coalizione. E su questo torneremo. L’altra strada, magari, sarebbe stata quella di ricalibrare fino in fondo il suo governo, allargando il proprio spazio di manovra – e così magari la propria leadership. All’indomani della sentenza di Karlsruhe, invece, Scholz si è fatto applaudire al suo congresso di partito, blindando la spesa sociale. Ma se i socialdemocratici non potevano sacrificare “butter for guns“, lo stesso valeva per il rispettivo tema centrale degli altri due. E dalla tensione tra spesa sociale (SPD), transizione ecologica (Verdi) e pareggio di bilancio (FDP) non si sarebbe più usciti. A ciò si è aggiunta l’opposta visione tra la politica industriale attiva del ministro dell’economia verde Habeck e l’Ordnungspolitik del ministro delle finanze liberale Lindner. Il triumvirato Scholz-Habeck-Lindner non è riuscito, in modo collettivo, a pensare oltre – soprattutto oltre al proprio partito e al proprio elettorato. E tutti e tre ne hanno, nel frattempo, tirato le conseguenze, dichiarando che si sarebbero ritirati dalla politica attiva.

3. In termini assoluti, il perdente è l’SPD. Ma i veri perdenti sono i Verdi e i liberali. I primi, perché dopo soli tre anni già devono lasciano il governo; i secondi, perché stavolta rischiano di scomparire per davvero. Eppure, in entrambi i casi, la differenza fra polvere e altari sembrava sottile. Se l’FDP avesse superato lo sbarramento, democristiani e socialdemocratici sarebbero stati costretti ad associare i liberali nella Deutschlandkoalition (per via dei colori della bandiera). Se fosse entrato il BSW, l’aritmetica avrebbe imposto di associare i Verdi nella coalizione Kenia (sempre per via dei colori della bandiera).
Basta un flashback al 2021 per domandarsi sulla sorte dell’apparente “egemonia culturale” dei Verdi: in Europa il “green deal” andava a gonfie vele; nei Länder, che pesano a livello federale attraverso la camera federale del Bundesrat, erano 12 i governi regionali a partecipazione verde su 16 (ora sono a 7). Paradossalmente, i 16 lunghi anni di traversata del deserto dal 2005 al 2021 marcarono anche la crescente influenza “culturale” sull’ultimo periodo sempre più liberal della Merkel (anche se, prima ironia della sorte, fallirono i due tentativi della Merkel di formare un governo coi Verdi: nel 2013 fu il verde Trittin, capo della corrente a sinistra, a far saltare il tavolo; nel 2017 il liberale Lindner. Seconda ironia della sorte: quando Merkel presentò nel Natale 2024 la sua autobiografia, non solo dava le pre-stampe alla Zeit, settimanale di riferimento della borghesia verde; anche le recensioni più amichevoli le raccolse tra le penne più progressiste). I Verdi entrarono nel governo, forti della galassia verde extraparlamentare tra ONG e think tank, incubatori di progetti ed idee da mettere finalmente in atto. Poco è valso ai Verdi l’aver previsto il pericolo russo prima degli altri né la trasformazione da partito pacifista a più convinto sostenitore delle libertà ucraine (trasformazione riuscita solo in parte all’SPD). Visto il clima internazionale e le maggioranze nell’Europarlamento, mancherà all’agenda internazionale verde il peso del governo federale – dalla COP al Consiglio UE. La mossa di Merz sul debito ha aperto uno spiraglio inaspettato, e i Verdi sono stati molto capaci a imporsi nell’informale coalizione costituzionale Kenia, garantendo una fetta consistente del nuovo debito alla transizione verde. Ma d’ora in poi saranno costretti ad affidarsi alle clausole costituzionali, fatte inserire nelle trattative dai Verdi stessi, nonché alle simpatie verdi dell’ultima esponente merkeliana di alto profilo, cioè la presidente della Commissione europea.
Per i liberali, l’uscita dal Bundestag significa rivivere l’incubo del 2013, quando accadde per la prima volta. I liberali hanno una lunga tradizione e parteciparono a tutti i governi federali del dopoguerra fino al governo rosso-verde di Schröder nel 1998 (con la breve parentesi della prima grande coalizione 1966-69). In un sistema a tre partiti, scelsero di fatto il cancelliere. Ma nel tempo, si sono moltiplicati i partiti, e da molto i liberali stentano a crearsi un solido elettorato di riferimento che non si esaurisca nel raccogliere i malcontenti della CDU. Quando Lindner prese in mano il partito nel 2013, la prospettiva era una coalizione Giamaica con democristiani e Verdi – ma del dopo-Merkel, come si sarebbe capito solo nel 2017 con il fallimento delle trattative Giamaica. Lindner non voleva essere associato alla fase finale dell’era Merkel, ma posizionarsi per un cancelliere democristiano nuovo e che magari fosse anche atmosfericamente più attento all’agenda liberale. Uno come Merz insomma. Solo che Merz nel 2021 ancora non c’era (ma sarebbe andato bene anche Laschet, con il quale Lindner aveva formato una coalizione nel Nord Reno-Vestfalia nel 2013) e che a vincere le elezioni non fu Laschet, ma, con sorpresa di tutti, Scholz. Dopo il rifiuto del 2017, Lindner non avrebbe potuto rifiutare la partecipazione al governo una seconda volta. Per i liberali, la formula del semaforo era più rischiosa di quella Giamaica, con due partner non solo più grandi, ma entrambi di sinistra. Esaurito l’entusiasmo iniziale, i liberali si sono scoperti troppo deboli per imporre riforme liberali ai rosso-verdi e si sono limitati a impedire che i partner virassero troppo a sinistra. Da qui l’aggrapparsi al freno al debito come argine naturale ai progetti di spesa rosso-verdi. Così, tuttavia, governare diventa impossibile, e la caduta del governo sulla legge di bilancio ne divenne il finale naturale.

4. Il risultato dell’AfD è stato in linea coi sondaggi. Il partito fu fondato da economisti liberisti contrari agli aiuti alla Grecia nel 2013 (lo stesso nome, alternativa per la Germania, deriva dal fatto che la Merkel spesso definiva le proprie politiche, tra cui quelle a difesa dell’euro, come “alternativlos”, cioè senza alternative). La crisi migratoria a partite dal 2015 trasformò l’AfD in un partito populista a tutti gli effetti e negli ultimi anni si è sempre più spostato a destra (forse ne è corresponsabile la legge sui partiti che dà molto risalto agli iscritti che sono, in un partito poco raccomandabile come l’AfD, più radicali di chi magari lo vota soltanto in segno di protesta). Inoltre, molti membri coltivano una certa ambiguità con il passato nazista della Germania, il che rende l’AfD un estraneo addirittura tra le destre all’Europarlamento.
Nella ex DDR, l’AfD è risultata primo partito (con il 32,3%, CDU al 18,4%, SPD all’11,6%). Il minor radicamento dei partiti tradizionali (trapiantati dall’Ovest) ha da sempre creato uno spazio per il voto antisistema, un tempo raccolto dalla Linke, successore del partito comunista di stato. Per certi versi, l’ascesa dell’AfD è andata pari passo con il declino della Linke. Da qui la scissione della Wagenknecht che ne ha tirato la conclusione che una sinistra a difesa dello stato sociale “nazionale” fosse incompatibile con politiche considerate “globaliste” e pro-migrazioni. I primi successi della Wagenknecht alle elezioni nei Länder orientali nel 2024, con la partecipazione ai governi nel Brandeburgo ed in Turingia, sembravano darle ragione e molti già ne vedevano la capacità di sostituirsi alla Linke. Invece, la Linke è risorta. Pur facendo proprio l’appello alla pace e alla diplomazia, la Linke l’ha intonato in senso meno filo-putiniano di AfD e Wagenknecht. Ci ha messo del suo Merz, quando ha votato, insieme all’AfD, una risoluzione anti-migrazione, alla quale si è associata la Wagenknecht. Ciò è stato considerato da SPD e Verdi come un attentato alla Brandmauer (ovvero, muro spartifuoco: con tanto di analogie storiche dei conservatori di Weimar che permisero l’ascesa dei nazisti) e ha aizzato l’anima antifascista della Linke, anche come segno distintivo dalla Wagenknecht. Si è aggiunta, poi, una fetta di elettorato dai Verdi, malcontenti verso il profilo considerato troppo pro-Israele e pro-armi per l’Ucraina. Non a caso la Linke è stata votata in massa dall’elettorato con background migratorio e in ambito universitario. A Berlino è diventata primo partito. Un effetto non secondario della mobilitazione a destra e a sinistra è stata la partecipazione più alta da 38 anni con l’82,5% (2021: 76,4%).

5. Ora tocca a Merz. La tenacia non gli si può negare. Nei primi anni 2000 era l’avversario più pericoloso della Merkel, con Merkel a capo del partito e Merz a capo del gruppo parlamentare. Divenne la vittima di un patto tra Merkel e l’allora primo ministro bavarese Stoiber, al quale la Merkel lasciò la candidatura a cancelliere nel 2002 ma che questi perse contro Schröder. In compenso, la Merkel si prese anche la presidenza del gruppo, oltre alla presidenza del partito. Ed il resto è nella storia. Invece di accontentarsi di diventare ministro in un governo Merkel, Merz lasciò la politica per lavorare nel settore privato – e tornò solo quando la Merkel lasciò la presidenza del partito nel 2018. Il fautore del comeback di Merz fu Schäuble. Merkel, invece, cercò a ostacolarlo come successore in tutti i modi. Così Merz perse prima contro Kramp-Karrenbauer, poi contro Laschet. Solo al terzo tentativo, dopo la fallimentare campagna di Laschet del 2021, Merz riuscì nella scalata del partito, e poi del gruppo.
Il dilemma di Merz era chiaro prima delle elezioni. Per riprendersi i voti persi a destra, ha fatto campagna elettorale con una promessa di svolta (Wende). Solo che una vera svolta presuppone un sistema di alternanza – o perché vige un sistema maggioritario o perché il sistema, seppur proporzionale, consiste in due grandi partiti che si alternano, come era il caso in Germania fino all’avvento delle grandi coalizioni della Merkel (quando Kohl divenne cancelliere nel 1982 parlò di svolta nello spirito e nella morale). Invece, si è passati a un poli-partitismo (ne è il segno la moltiplicazione dei candidati cancellieri, in passato nominati soltanto da CDU/CSU e SPD) e a una restrizione numerica del grande centro, inteso come CDU/CSU, SPD, Verdi e liberali, con gli estremi AfD e Linke ai margini delle formule governative. Con la Brandmauer (muro spartifuoco) verso l’AfD e i liberali troppo deboli, era sempre chiaro che Merz avrebbe dovuto governare o con socialdemocratici o con i Verdi – o con entrambi, incubo democristiano evitato per 9.000 voti mancati al BSW.
ll superamento dei blocchi tra CDU/CSU con liberali da una parte, e SPD con Verdi dall’altra, ha ampliato il ventaglio delle possibili combinazioni trasversali (come lo era anche il governo uscente) – ma al prezzo dell’alternanza. Il rifiuto di integrare i due estremi è forse una peculiarità nel panorama europeo contemporaneo e mette pressione sulla stabilità che non a caso era al massimo nel lungo periodo in cui i due grandi partiti riuscirono loro stessi a chiudere il panorama politico (la Linke nasce dopo l’unificazione come erede del partito unitario della ex DDR, l’AfD nel 2013). Ma al di là della questione sulla “pericolosità democratica” di AfD e – in minor misura – della Linke, il vero solco che divide il grande centro dai due estremi è l’ancoraggio euro-atlantico della Germania e la responsabilità che ne deriva verso l’Unione europea e la NATO, visto il peso della Germania. Da qui l’esclusione di AfD e Linke, scettici perlomeno per quanto riguarda la NATO.
In termini di spesa pubblica, il compromesso costa caro. L’avanzo pubblico ha permesso di coprire molte divergenze durante i governi Merkel. L’assenza di crescita negli ultimi anni ha posto fine a tale metodo e non a caso il governo uscente è caduto sul bilancio. Per riguadagnarsi uno spazio di manovra, il cancelliere in pectore Merz ha voluto tagliare la testa al toro e ha proposto una riforma della Schuldenbremse. L’inversione a “u”, avendo Merz fatto campagna elettorale a difesa della Schuldenbremse, è stata accelerata dal fatto che AfD e Linke disporranno di una minoranza di blocco sulle riforme costituzionali nel nuovo Bundestag (si racconta che Schäuble, fautore del comeback di Merz dopo l’era Merkel, gli avrebbe già consigliato una riforma dopo la sentenza di Karlsruhe sulla Schuldenbremse del 2023 per gettare le fondamenta di un suo futuro governo). La riforma condivisa tra CDU/CSU, SPD e Verdi prevede un’esenzione dalla Schuldenbremse della spesa in difesa eccedente l’1% del Pil e un fondo speciale di 500 miliardi EUR in infrastrutture e transizione ecologica nell’arco dei prossimi 12 anni.
Il nuovo governo dovrà affrontare le sfide poste dalla stagnazione economica e da una almeno in parte percepita perdita di controllo sul tema migratorio in termini di flussi e di integrazione. Il Koalitionsvertrag contiene molti obiettivi ma è più scarno sulle priorità di spesa. Allo stesso tempo, i socialdemocratici hanno attenuato alcuni aspetti della promessa svolta. Per la prima volta dal 1966 cancelleria ed esteri saranno occupati dallo stesso partito (quando Brandt si impose come vicecancelliere e ministro degli esteri nella prima grande coalizione, per poi insediarsi come cancelliere del 1969 in una coalizione SPD-FDP, lasciando gli esteri al partner più piccolo, come poi sarebbe sempre stato), mentre i socialdemocratici si prendono le finanze e la difesa. Inoltre, si darà vita a un nuovo consiglio di sicurezza nazionale. Una volta insediato ai primi di maggio, bisognerà vedere nei fatti quanto il nuovo governo sarà capace di trovare un denominatore comune che permetterà di accompagnare il nuovo spazio di manovra grazie all’allentamento della Schuldenbremse con riforme strutturali e quanto il nuovo assetto inciderà sul ruolo della Germania nella politica europea ed internazionale. In sostanza, il nuovo governo dovrà dimostrare che le grandi sfide della Germania – e dell’Europa – possano ancora essere affrontate dal grande centro. Con buone politiche, magari, l’elettorato potrà di nuovo confluire verso il grande centro, permettendo lì l’alternanza che ha fatto, per decenni, della Germania l’ancora di stabilità. Altrimenti, temono in tanti, c’è poco che impedirà all’AfD di vincere le prossime elezioni, cioè a quelli che si autodefiniscono l’alternativa al sistema politico esistente. Siamo forse all’ultima chance del grande centro.

(Il contributo riflette l’opinione personale dell’autore e non dell’istituzione di appartenenza)