Oltre il razionalismo occidentale? La sociologia culturale comparata di Max Weber

L’ispirazione per questo post nasce da alcune riflessioni in me suscitate dalla partecipazione al convegno internazionale “Max Weber’s comparative cultural sociology of law”, svoltosi a Bonn lo scorso ottobre presso il Centro di Studi Avanzati Käte Hamburger Kolleg ‘Recht als Kultur’. Nelle intenzioni dei suoi promotori, il convegno ha inteso ripensare la Rechtssoziologie di Max Weber in chiave comparata nel tentativo di cercare risposte alle sfide di un crescente pluralismo culturale.
Perché Max Weber e perché, all’interno della sua vastissima produzione scientifica, la Rechtssoziologie? La ragione è indubbiamente da ricercarsi nel ruolo cruciale che il grande giurista e sociologo tedesco – attraverso uno dei saggi più discussi e studiati di Wirtschaft und Gesellschaft, il lavoro che meglio rappresenta l’inestimabilità del suo contributo alla cultura giuridica europea e non solo – ha giocato nell’individuazione dei tratti peculiari della civiltà occidentale moderna, quali paradigmaticamente rappresentati da quel processo di razionalizzazione e di secolarizzazione che ne avrebbe fatto un unicum inimitabile nel quadro delle esperienze culturali da lui investigate. L’affermarsi, infatti, proprio lì e non altrove, di un diritto formale (formales Recht) – in particolare il progressivo emergere di una razionalità “legale” – avrebbe spinto Weber nella direzione dell’analisi comparativa delle società, al fine di comprendere le cause di questa specificità della modernità europeo-occidentale. Interessato, altresì, in una prospettiva sociologica, a conoscere i complessi meccanismi che determinano la validità empirica degli ordinamenti giuridici, certamente non circoscrivibile alla sola “contrainte juridique”, Weber costituisce, per tali motivi, un punto di riferimento obbligato per tutti coloro che intendano quest’oggi avere una piena cognizione dei fenomeni giuridici nei termini di una necessaria pluralità: pluralità di ordinamenti, pluralità di fonti di produzione di norme, pluralità di culture e di visioni del mondo.

Non è, tuttavia, impresa semplice muoversi all’interno di un testo come la Rechtssoziologie, secondo quanto emerso fin dalle prime relazioni del convegno, dedicate alla genesi del lavoro, e ciò non solo per la complessità del suo linguaggio. Difatti, quello che noi conosciamo sotto il nome di Wirtschaft und Gesellschaft (di cui, appunto, quella è parte) è il risultato, postumo, di un travagliato lavoro di ricostruzione di appunti manoscritti intrapreso da diversi curatori: la moglie Marianne Weber prima, quindi Johannes Wincklemann e, da ultimo, Werner Gephart e Siegfried Hermes. È ad essi che si deve, dunque, la suddivisione della Max Weber Gesamtausgabe in cinque tomi distinti per unità tematiche (comunità, comunità religiose, diritto, dominio e città). Di là dalle critiche che sono state mosse a questa operazione di “collage” degli scritti weberiani, è indubbio che la lettura della Rechtssoziologie sia resa particolarmente ardua proprio dal fatto che non possa essere disgiunta dal resto dei lavori dell’Autore e, in particolare, dalla sua indagine sociologica comparata delle religioni, elemento, quest’ultimo, centrale della sua più ampia “riflessione sulla cultura, sulle ‘configurazioni di ordine’, sulle attitudini sociali e sulle organizzazioni” (cf. Alessia Zaretti, nel suo volume Religione e modernità in Max Weber: per un’analisi comparata dei sistemi sociali, Roma, 2003, p. 19). E non avrebbe potuto essere diversamente, d’altronde, per uno studioso la cui formazione era stata fortemente segnata da un contesto di tradizioni famigliari ispirate a quei valori protestanti che tanta parte avrebbero avuto nella concettualizzazione da lui offerta del moderno razionalismo occidentale, articolatosi secondo direttrici affatto originali rispetto ad altri tipi di razionalismi (celebre la distinzione tra razionalismo confuciano e razionalismo puritano da lui tratteggiata nel Cap. VII, Konfuzianismus und Puritanismus, della Religionssoziologie).

Emerge da questo breve quadro introduttivo non solo la complessità dell’opera weberiana ma, in particolare, quello che sarebbe stato l’approdo decisivo della sua Rechtssoziologie: il
diritto non è una mera statuizione di norme, quanto, in realtà, l’ordine normativo proprio di una Einverständnisgemeinschaft, in ciò profondamente condizionato da convinzioni e pratiche culturalmente informate. L’assunto per cui l’uomo è essenzialmente un essere culturale, dotato “della capacità e della volontà di assumere consapevolmente posizione nei confronti del mondo e di attribuirgli un senso” (così Max Weber, L’‘oggettività’ conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale, in Id., Il metodo delle scienze storico-sociali, tr.it. di Pietro Rossi, Torino, 1958,
pp. 96-97), apre necessariamente la strada all’indagine comparativa e, dunque, alla consapevolezza dell’esistenza di ordinamenti diversi e di molteplici concezioni del senso degli stessi. Ed è così che Weber, superando Rudolf Stammler, si trova ad affrontare il nodo cruciale delle “chances” di validità di un ordinamento giuridico. L’aver vincolato, infatti, quest’ultima appunto alla “chance” – nel suo duplice, ambiguo significato di “opportunity” e “probability” – che si determini un orientamento convergente a quanto positivamente statuito dall’ordinamento, conduce inevitabilmente ad una rivalutazione della dimensione individualistica, nella misura in cui “it is according to the individual choice to consider an order as an order that it becomes legitimate”. In tal senso, poichè il termine inglese “order”, nella sociologia del diritto weberiana, non va inteso nel senso di “command”, quanto piuttosto di “established system of social relationship”, si è fatto notare che quella coercitiva sia solo una (e non certo quella decisiva) delle accezioni attribuibili all’idea weberiana di “ordine”.
Quest’ultimo non è, infatti, taxis, ordine costruito, ma cosmos, ordine formatosi spontaneamente e, perciò stesso, plurale.

Se, dunque, l’esito ultimo di quel fenomeno di “disincantamento” che Weber andava riscontrando nell’esperienza occidentale sembrava, prima facie, condurre ineluttabilmente al tramonto di qualunque forma di legittimazione degli ordinamenti giuridici che non fosse mero appiattimento nella pura legalità, egli rimaneva, ciò nonostante, strenuo difensore di quello slancio fideistico che proprio l’avvento di una società disomogenea e del politeismo dei valori – di cui la crisi dello Stato tedesco negli anni convulsi della sua trasformazione in repubblica era emblematica dimostrazione – veniva a porre urgentemente al centro della riflessione sociologico-giuridica. Affiora, qui, la forte sottolineatura, presente nell’intera produzione weberiana, delle conseguenze inattese di quel processo di razionalizzazione che – realizzatosi anzitutto sul piano delle credenze religiose, passando attraverso la razionalità giuridica della Chiesa cattolica – avrebbe poi investito il diritto secolare dell’Occidente: questo si sarebbe in tal senso sviluppato “in strettissima connessione con il moderno sviluppo capitalistico” e con gli interessi di una macchina burocratica, il cui funzionamento non sarebbe stato, del resto, possibile lì dove non fosse stato incardinato in un sistema “razionalmente calcolato in base a precise norme generali” (cf. Max Weber, Parlamento e governo nel nuovo ordinamento della Germania e altri scritti politici, a cura di Luigi Marino, Torino, 1982, p. 82).

Diverse le reazioni dei relatori del convegno alla concezione weberiana della razionalizzazione del diritto in senso formale. Attuatasi, quella, in area occidentale grazie alla progressiva scissione tra fas (“precetto sacro”) e ius (“diritto statuito applicabile per la composizione dei conflitti di interessi religiosamente indifferenti”: cf. Max Weber, Economia e Società. Sociologia del Diritto, III, a cura di Pietro Rossi, Milano, 1961, p. 132) ad essa si contrappone, infatti, nella Rechtssoziologie l’immagine, a tratti impietosa, di un Oriente irrazionale, identificato di volta in volta con il diritto indiano, con quello cinese, con quello islamico. Qui, secondo Weber, la secolarizzazione del diritto e la differenziazione di un pensiero giuridico rigorosamente formale si arrestarono agli inizi, o furono addirittura avversate dai poteri teocratici o patriarcali-autoritari, non certo interessati ad una giustizia formale – e, dunque, alla stabilità e alla calcolabilità della procedura giuridica – quanto più ad una giustizia materiale, una “giustizia di cadì”. Una ricostruzione, questa, che esce, ciò nonostante, ridimensionata dagli interventi di alcuni giuristi ed antropologi,
che non hanno esitato a sottolineare – vuoi con riferimento al sistema giuridico cinese quale sviluppatosi nel corso della dinastia Quing (1644-1912), vuoi con riferimento al totemismo degli aborigeni australiani – come la dicotomia weberiana razionale/irrazionale sia tutta interna al punto di vista dell’osservatore e, in quanto tale, non utilizzabile quale parametro di giudizio di portata universale. È proprio a partire da queste considerazioni che nel corso del convegno ci si è chiesti se il Max Weber “intellettuale dell’impero” non abbia in realtà contribuito – di là dalle sue aperture al pluralismo culturale – alla costruzione di una “Western dominant culture”. Un’osservazione, questa, che riecheggia, in particolare, nell’ultima sessione del convegno su Universal history of law and the project of globalization. Se, infatti, l’impiego delle fondamentali categorie weberiane – ossia la distinzione tra diritto formalmente razionale e diritto materialmente razionale – appare tuttora determinante per la comprensione degli sviluppi giuridici odierni sul piano sia del diritto penale internazionale (con riguardo, nella specie, al grado di “formal rationality” riscontrabile nel modus operandi della Corte Penale Internazionale dell’Aia) sia della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in punto di libertà religiosa, quelle stesse categorie vengono in parte rimesse in discussione, nella misura in cui abbiano favorito una visione essenzialistica delle culture.

Al di là questi rilievi – che offrono senza dubbio nuove, alternative chiavi di lettura del grande edificio weberiano – resta certamente il fatto che riflettere su Max Weber significa riflettere su chi avrebbe posto all’attenzione della comunità scientifica la questione del pluralismo giuridico proprio nel momento in cui il primato del diritto di fonte legislativa statale sembrava indiscusso. A lui si deve, infatti, una prima, decisiva presa di coscienza di ciò con cui ancor oggi ci misuriamo e che allora sembrava quasi impensabile: “the recognition of the plurality of social orders”. In tal senso la sua sociologia del diritto è sì – come osservato dal sociologo parigino François Chazel – una sociologia degli ordini, ma non si dà ordine senza un riferimento a quella dimensione culturale che sola può spiegare l’origine e, spesso, l’insormontabilità dei conflitti che attraversano le nostre società multiculturali.