Prima applicazione della procedura consultiva prevista dal Protocollo n. 16 CEDU: Dalla Corte EDU chiarimenti in chiaroscuro sull’obbligo di trascrizione dei figli nati da GPA

Il 12 ottobre scorso la Cassazione francese è stata la prima giurisdizione europea a richiedere un parere consultivo alla Corte europea dei diritti dell’uomo secondo la procedura prevista dal Protocollo n. 16. Tale procedura, improntata ad una logica di dialogo e collaborazione tra giudici nazionali ed europei, consente alle più alte giurisdizioni degli Stati parte della CEDU di richiedere alla Corte di Strasburgo, nell’ambito di una causa pendente dinanzi ad esse, un parere non vincolante sull’interpretazione o l’applicazione dei diritti e delle libertà definiti dalla Convenzione e dai suoi protocolli (art. 1 Protocollo n. 16).
La richiesta formulata dai giudici francesi verteva sull’interpretazione da dare all’art. 8 CEDU circa l’esistenza di un obbligo di trascrizione degli atti di nascita dei figli nati all’estero mediante gestazione per altri (si veda il commento in questo sito).
In passato, infatti, la Cassazione aveva confermato la legittimità del rifiuto di trascrizione dell’atto di nascita di due gemelle nate negli Stati Uniti a seguito di una GPA nell’ambito del progetto genitoriale di una coppia di cittadini francesi, rispettivamente padre biologico e madre intenzionale delle neonate. La vicenda era quindi giunta dinanzi alla Corte EDU, la quale aveva condannato la Francia per violazione dell’articolo 8 CEDU in relazione al rispetto della vita privata delle due figlie, che include il diritto all’identità, al riconoscimento del rapporto di filiazione e alla nazionalità. A seguito di tale pronuncia, i coniugi e le loro figlie avevano potuto adire, in Francia, la Corte del riesame delle decisioni civili, che aveva quindi rinviato la questione all’Assemblea plenaria della Cassazione. È nell’ambito di tale procedimento che la massima giurisdizione civile francese si è rivolta a Strasburgo.
La Corte di cassazione francese ha posto ai giudici europei diverse domande. Innanzitutto, ha richiesto se il rifiuto “di trascrivere sui registri dello stato civile l’atto di nascita di un figlio nato all’estero a seguito di una GPA nella parte in cui esso indica come madre legale la madre intenzionale, laddove la trascrizione è invece ammessa nella parte in cui indica quale padre il padre biologico” costituisse una violazione dell’art. 8 CEDU. Ha altresì richiesto se tale valutazione debba tener conto della circostanza che il figlio sia stato concepito o meno con dei gameti della madre intenzionale e, in caso di risposta affermativa alla prima domanda, se lo Stato possa rispettare gli obblighi imposti dall’art. 8 consentendo l’adozione da parte della madre intenzionale invece che la trascrizione integrale dell’atto di nascita.
Si noti che la questione verteva unicamente sul riconoscimento del rapporto di filiazione con la madre intenzionale, dal momento che, per conformarsi alla giurisprudenza europea in materia, l’ordinamento francese aveva già iniziato a consentire la trascrizione degli atti di nascita dei figli nati mediante GPA con l’indicazione del padre intenzionale, ove questi fosse altresì il padre biologico.
Il parere reso dalla Corte EDU il 10 aprile 2019, dopo circa 6 mesi dalla richiesta, si articola in due parti, che rispondono all’an e al quomodo della questione e che costituiscono rispettivamente la parte chiara e la parte oscura della pronuncia.
Quanto alla prima (par. 35-47), la Corte dà una risposta affermativa e priva di tentennamenti per quanto riguarda l’an della questione, ovvero l’esistenza di un obbligo di riconoscimento del legame di filiazione tra il figlio nato mediante GPA e la madre intenzionale. E lo fa malgrado l’assenza di un consenso europeo sul punto, in nome dell’interesse superiore del minore.
Riferendosi ai propri precedenti Mennesson e Labassee, la Corte osserva infatti che il mancato riconoscimento del legame di filiazione tra la madre intenzionale e il figlio pone quest’ultimo “in una forma di incertezza giuridica riguardo la sua identità nella società” che può arrecargli dei pregiudizi gravi. Il minore, in particolare, incorre nel rischio di non avere accesso alla nazionalità della madre e, di conseguenza, ad un titolo di permanenza nello Stato di residenza di quest’ultima; può vedere ridotti i propri diritti di successione e non tutelata la propria relazione con la madre in caso di separazione dei genitori o di morte del padre; non è tutelato, infine, nel caso in cui la madre intenzionale si rifiuti di contribuire al suo mantenimento e alle sue cure (par. 40). Pertanto “l’impossibilità generale e assoluta di ottenere il riconoscimento del legame di filiazione tra un figlio nato da una gestazione per altri all’estero e la madre intenzionale non è conciliabile con l’interesse superiore del minore” (par. 42).
Si noti peraltro che, in apertura del proprio ragionamento, la Corte ha ridefinito e circoscritto la questione posta dai giudici francesi, limitandola alla fattispecie oggetto del giudizio, che concerne il rapporto di filiazione tra la madre intenzionale e il figlio concepito grazie ai gameti del padre – biologico e intenzionale – e agli ovociti di una donatrice. Ha quindi lasciato da parte, almeno in un primo momento, la seconda domanda posta dai giudici francesi (che chiedevano se il fatto che il figlio fosse stato concepito o meno con dei gameti della madre intenzionale dovesse essere tenuto in conto), salvo poi rispondervi comunque in poche righe qualche paragrafo più in basso. Alla fine della motivazione sull’an della questione si legge, infatti, che l’esigenza di garantire il riconoscimento del legame tra il figlio e la madre intenzionale, sancita con riferimento al caso in questione, “vale a fortiori” nel caso in cui il figlio sia stato concepito con i gameti della madre intenzionale (par. 47).
Rispondendo ai primi due quesiti posti dai giudici francesi, la Corte chiarisce dunque che, in casi come quello in questione e a prescindere dalla provenienza degli ovuli fecondati, il diritto alla tutela della vita privata garantito dall’art. 8 impone agli Stati di consentire il riconoscimento del legame di filiazione tra il figlio nato mediante GPA e la madre intenzionale indicata nell’atto di nascita estero come madre legale.
Si esclude peraltro che gli Stati possano appellarsi al margine di apprezzamento per sfuggire a tale obbligo. Sebbene, infatti, la motivazione dia atto dell’assenza di un consenso europeo sul punto “malgrado una tendenza a consentire il riconoscimento giuridico del legame di filiazione tra i figli nati da GPA e i genitori intenzionali”, essa ricorda che “quando è in gioco un aspetto particolarmente importante dell’identità di una persona, quale […] la filiazione” il margine di apprezzamento statale è necessariamente ristretto (par. 43-44).
Lo stesso margine ristretto non si applica però al quomodo. È quanto sancisce la Corte nella seconda parte del parere (par. 48-59), che è quella caratterizzata da minore chiarezza.
Per quanto riguarda le modalità di adempimento dell’obbligo derivante dall’art. 8, la Corte afferma che gli Stati godono di un ampio margine di apprezzamento in ragione delle diverse soluzioni offerte dai vari ordinamenti, i quali optano gli uni per la trascrizione dell’atto di nascita con l’indicazione di entrambi i genitori intenzionali, gli altri per l’adozione del figlio da parte del genitore intenzionale non biologico (par. 51). Secondo la Corte, entrambe le modalità possono risultare idonee a tutelare l’interesse del minore, purché permettano che il legame tra il figlio e il genitore intenzionale “possa essere riconosciuto al più tardi nel momento in cui si è concretizzato” (par. 52 e 54).
Ed è qui che la motivazione della Corte si fa poco chiara. Essa afferma infatti che non si può direttamente dedurre, dall’obbligo di riconoscimento del legame tra madre intenzionale e figlio, un obbligo di trascrizione dell’atto di nascita con l’indicazione di entrambi i genitori (par. 50 e 53), dal momento che anche una procedura di adozione può rispondere all’esigenza di tutela dell’interesse del minore (par. 54). Precisa tuttavia che la durata dell’incertezza giuridica nella quale versa il figlio deve essere il più breve possibile (par. 49) e che spetta alle autorità nazionali il compito di valutare concretamente caso per caso che la soluzione offerta dall’ordinamento sia idonea a garantire il riconoscimento effettivo e tempestivo del legame di filiazione legalmente stabilito all’estero.
Ora, se è vero che “ciò che conta è che ci sia un meccanismo effettivo che permetta, secondo la valutazione delle circostanze del caso, il riconoscimento del legame tra figlio e madre intenzionale al più tardi dal momento in cui esso si è concretizzato” (par. 52), difficilmente si vede come una procedura d’adozione, che richiede perlomeno qualche mese, possa soddisfare tale esigenza. Ed infatti, per far salva – almeno in teoria – la possibilità di soddisfare le esigenze dell’art. 8 mediante l’adozione, la Corte sembra considerare tale termine come non perentorio, aggiungendo una condizione temporale ben più vaga quando afferma che “la procedura di adozione può rispondere a questa necessità ove […] le sue modalità di esecuzione permettano una decisione rapida, così da evitare che il minore sia mantenuto a lungo in una situazione di incertezza giuridica quanto al legame [di filiazione]” (par. 54).
Inoltre, con particolare riferimento all’ordinamento francese, la Corte osserva che, sebbene la quasi totalità delle domande di adozione da parte del coniuge del genitore biologico venga attualmente accettata, tale procedura è riservata alle coppie sposate ed è sottoposta ad alcune condizioni, come il consenso della portatrice, che non garantiscono in ogni caso il riconoscimento del legame di filiazione. La Corte demanda dunque ai giudici di valutare caso per caso se l’adozione possa essere sufficiente a garantire il rispetto dell’art. 8.
Sembra perciò evidente che, nelle ipotesi in cui l’adozione non sia consentita dall’ordinamento (con riferimento quindi alle coppie non sposate o, se pensiamo ad ordinamenti diversi dalla Francia, alle coppie unite da un istituto diverso dal matrimonio), i giudici dovranno imporre la trascrizione. Questa soluzione prospettata dalla Corte solleva peraltro un’altra questione cruciale, che non tratteremo in questa sede, che è quella della violazione del principio di uguaglianza tra figli che possano beneficiare della trascrizione integrale del proprio atto di nascita e figli che vedano riconosciuto il proprio rapporto col genitore non biologico unicamente tramite l’adozione, la quale non garantisce loro identiche garanzie.
La valutazione della conformità all’art. 8 CEDU si fa invece più complessa nell’ipotesi in cui l’adozione sia legalmente possibile, poiché i giudici dovranno allora valutare se l’interesse del minore è sufficientemente tutelato con riferimento alle modalità e ai tempi di attesa per la pronuncia definitiva della stessa. Ma quale termine può considerarsi ragionevolmente accettabile prima che un figlio possa legalmente considerare sua madre madre? Per quanto l’incertezza giuridica che lo porta a non avere una madre legale, a non poterne acquisire la nazionalità, a non vedere tutelato il suo rapporto di filiazione, può perdurare senza che l’interesse superiore del minore ne sia pregiudicato?  Il parere della Corte mantiene il riserbo sul punto. Ai giudici, caso per caso, l’ardua sentenza.
Senza voler prematuramente avanzare previsioni generali sui risvolti della nuova procedura introdotta dal Protocollo n. 16, questa prima applicazione consente di formulare alcune considerazioni sul suo utilizzo da parte dei diversi attori coinvolti.
Dalla prospettiva della giurisdizione richiedente, innanzitutto, questa prima richiesta di parere non sembra volta a sciogliere un reale dubbio interpretativo riguardante il caso di specie, ma piuttosto a ottenere un avallo al proprio orientamento giurisprudenziale, a sua volta ispirato alla giurisprudenza europea pregressa. La Cassazione francese, infatti, aveva già modificato la propria giurisprudenza a seguito della condanna pronunciata nei confronti della Francia nel caso Mennesson; essa pertanto, allo stato attuale della giurisprudenza e delle legislazioni europee – e considerato che il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa aveva ritenuto soddisfacenti le misure adottate dallo Stato francese e chiuso la procedura di controllo dell’esecuzione delle condanne nei suoi confronti -, avrebbe facilmente potuto ritenere che una soluzione conforme al proprio recente orientamento rispettasse gli obblighi convenzionali. Tuttavia la suprema corte francese mirava verosimilmente ad ottenere una dichiarazione di principio sul fatto che, in ogni caso, l’obbligo di trascrizione riguardasse unicamente il padre biologico.
Il rilievo del parere al di là del caso di specie e la portata oggettiva e generale della procedura sono d’altronde testimoniati dall’interesse manifestato da terze parti: sono infatti intervenuti nel procedimento, come consentito dall’art. 3 del Protocollo n. 16, i governi di tre Stati terzi nonché diversi centri di ricerca e organizzazioni non governative.
La motivazione della Corte EDU, dal canto suo, ha invece cercato di limitare, almeno formalmente, la portata oggettiva della propria pronuncia, rispondendo in maniera piuttosto vaga ai quesiti riguardanti la questione di principio evocata. Sebbene infatti la Corte sottolinei che “[l’]interesse [del parere consultivo] è altresì quello di fornire alle giurisdizioni nazionali delle indicazioni su delle questioni di principio […] applicabili in casi simili”, essa poi, come abbiamo sottolineato, costruisce la propria motivazione intorno al caso di specie. Alle “indicazioni su questioni di principio applicabili in casi simili”, invece, vengono dedicate soltanto tre righe (par. 47), che rispondono in maniera quantomeno insoddisfacente, poiché si limitano a chiarire che l’obbligo di riconoscimento del legame di filiazione sussiste a maggior ragione nei casi in cui il figlio sia stato concepito con ovociti della madre intenzionale, senza però chiarire se in tali casi le modalità di adempimento siano sottoposte allo stesso margine di apprezzamento o se invece l’esistenza di un legame biologico con entrambi i genitori intenzionali abbia per effetto una riduzione del margine e il conseguente obbligo di trascrizione integrale dell’atto di nascita.
In questa prima applicazione della procedura consultiva, dunque, la Corte sembra non volersi far imbrigliare dalla portata oggettiva, per quanto non vincolante, del proprio parere, in favore di un impiego maggiormente concreto che, conformemente agli obiettivi fissati dal Protocollo n. 16 e all’esigenza di celerità di una procedura pregiudiziale, la conduca a formulare risposte puntuali alle questioni circoscritte sollevate dai casi di specie e non a fornire chiarimenti generali sugli obblighi derivanti dalle clausole della convenzione. Soltanto una pratica più consolidata, tuttavia, potrà dirci quale sarà il reale apporto di questo strumento nell’architettura delle relazioni tra giudice europeo e ordinamenti nazionali.