Profili d’incostituzionalità della nuova legge sulla cittadinanza: una fictio provvedimentale sull’identità degli oriundi
È da poco stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale la legge n. 74 del 23 maggio 2025, di conversione, con modifiche, del decreto legge n. 36/2025, intitolato “disposizioni urgenti in materia di cittadinanza”.
Com’è noto, questa iniziativa di riforma è stata accompagnata da un acceso dibattito soprattutto fuori dei confini nazionali, per opera di giuristi, discendenti di italiani emigrati all’estero, che ne hanno eccepito anche l’incostituzionalità su diversi fronti (R. Badaró, A morte anunciada do jus sanguinis; G. Bonato, Il decreto-legge n. 36 del 28 marzo 2025: la “Grande Perdita” della cittadinanza italiana).
Il testo definitivamente approvato non sembra gettare luce sulle ombre eccepite. Al contrario, tende a enfatizzarle, se solo si considera l’aggiunta, in sede di conversione, dell’art. 1-bis paradossalmente intitolato “Disposizioni per favorire il recupero delle radici italiane degli oriundi e il conseguente acquisto della cittadinanza italiana”.
L’interrogativo, infatti, coinvolge proprio le «radici italiane degli oriundi»: quali sono? Fino a ieri, prima della riforma, esse coincidevano con la mera discendenza iure sanguinis da cittadino emigrato italiano. Oggi non più: la condizione dell’oriundo iure sanguinis viene assimilata alla situazione dello straniero e disciplinata espressamente all’interno del Testo unico sull’immigrazione (d.lgs. n. 286/1998).
Siffatta translatio di identità si scontra con gli orientamenti della Corte costituzionale in tema di qualificazione degli oriundi italiani, da un lato, e di limiti del potere legislativo nel disporre dell’identità personale e della cittadinanza, dall’altro, infrangendo anche quel nesso costituzionale tra cittadinanza, lavoro ed emigrazione, consacrato dagli artt. 1, 4 e 35 Cost. ed espressivo, come spiegò magistralmente Costantino Mortati (Art. 1, in Commentario della Costituzione a cura di G. Branca, 1975, 10-11), di un unicum ordinamentale nel panorama comparato (nella condivisione anche della Corte cost., con la sent. n. 269/1986).
Tutto ruota intorno alla distinzione (e non confusione) fra “condizione” personale naturale e “situazione”, prodotta da una norma. Tale distinzione è totalmente sfuggita al legislatore della riforma.
I riferimenti giurisprudenziali per comprenderla sono diversi.
Il primo è offerto dalla risalente, ma ad oggi unica, sentenza della Corte costituzionale in tema di oriundi italiani: la n. 15/1960.
In quell’occasione, il Giudice delle leggi fornì quattro chiarimenti importanti, rappresentati da tre premesse e un’univoca conclusione.
Le premesse erano le seguenti:
– si definisce oriundo italiano la «persona nata in un determinato territorio o nata da famiglia residente in quel territorio»,
– il fatto della nascita avvenuta all’estero «costituisce una condizione personale che non può essere presa a base per una distinzione tra cittadini e cittadini»;
– «il fatto della nascita in un luogo piuttosto che in un altro o in una famiglia piuttosto che in un’altra costituisce una condizione personale e non una situazione personale».
In questo quadro definitorio, dalla Corte non contestato, si concluse che «l’apprezzamento discrezionale che il legislatore compie, per enucleare le situazioni che richiedono particolare disciplina e per determinare la sfera e le modalità della disciplina stessa, non può toccare l’ambito segnato dal primo comma dell’art. 3 della Costituzione e non può trascendere dai giusti limiti derivanti dal principio di uguaglianza».
Detto altrimenti, la Corte puntualizzò testualmente che, al cospetto degli oriundi, l’intervento legislativo sulle «situazioni» non poteva «toccare l’ambito segnato» dalle «condizioni personali», presidiate dall’art. 3, primo comma, della Costituzione. Più precisamente, la Corte, con questa sentenza, dedusse che la «condizione personale» dell’oriundo non potesse essere discrezionalmente trattata dal legislatore come «situazione», al fine di eludere il principio di uguaglianza «senza distinzione di … condizioni personali»; ma lo fece, incardinando la «condizione personale» su due elementi fattuali esclusivamente “naturali”, ossia privi di qualsiasi fictio giuridica, praticabile invece sulle «situazioni»: la “condizione” della nascita del soggetto, da una parte, e la “condizione” dello stare in territorio estero della sua famiglia, dall’altro.
Il legislatore della riforma fa esattamente l’opposto. Pur dichiarando espressamente l’esistenza fattuale della “condizione” degli oriundi, ne dispone a proprio piacimento, tramutandola in “situazione” di stranieri (che evidentemente oriundi non sono). In questo modo, cade nella fallacia logica dell’evidenza fattuale soppressa (per legge): una soluzione «intrinsecamente irragionevole», ha avvertito sempre la Corte in circostanze simili (sent. n 267/1998).
D’altronde, trasfigurare l’identità dell’oriundo in “immigrato” è un’inequivocabile fictio giuridica, nel declassamento del fatto naturale della discendenza in “situazione” inventata dalla norma.
Il che è ancor più difficilmente tollerabile, se si considera che la netta separazione, scandita dalla Corte del 1960 tra “condizione” naturale e fictio giuridica della “situazione”, oltre a risultare coerente con la legislazione plurisecolare sulla cittadinanza iure sanguinis del residente italiano all’estero, è stata consolidata dal pluridecennale diritto vivente della Corte di cassazione, culminato nelle recenti sentenze “gemelle” a Sezioni Unite del 24 agosto 2022 (nn. 25317 e 25318), caratterizzanti la discendenza di sangue appunto come dato di natura, non traducibile in fictio (tanto da essere qualificato imprescrittibile e «giustiziabile in ogni tempo in base alla semplice prova della fattispecie acquisitiva»), perché connesso esclusivamente alla nascita da discendenti italiani.
Ed è in stridente contrasto pure con altre pronunce della Consulta, radicate sull’ineluttabilità del dato naturale della nascita, quale “condizione” non convertibile in “situazione”. Si pensi alle sentenze nn. 13/1994 e 120/2001, riguardanti il rapporto tra nascita e identità personale. La prima, riconoscendo che il diritto all’identità personale rientra nella tutela prevista dall’art. 2 della Costituzione, contribuendo a formare il patrimonio inviolabile della persona umana, ha spiegato che l’identità del singolo «costituisce un bene in sé … indipendentemente dalla condizione personale e sociale, dai pregi e dai difetti del soggetto», tant’è, come aggiunto con la seconda decisione, che tale identità non può escludere la “condizione” della filiazione naturale e della sua qualificazione d’origine (in quel caso, si trattava del cognome del genitore naturale). Ma lo stesso può dirsi per la giurisprudenza sull’art. 22 Cost., con riguardo alle tre condizioni personali di esistenza (capacità, nome e cittadinanza), che sempre la Corte costituzionale, nella citata sent. n. 13/1994, ha qualificato beni del «patrimonio irretrattabile della persona umana», meritevoli di tutela comune (cfr. anche ord. n. 258/2992 e sent. n. 311/1996).
L’ancor più recente sentenza costituzionale n. 25/2025 conferma l’assunto.
Anche tale decisione precisa il criterio, proprio in materia di cittadinanza, della non sovrapposizione fra “condizione” personale naturale (nel caso di specie, quella della diversa abilità psico-linguistica), che non è fictio, e “situazioni” dettate dalle norme giuridiche, che fictiones possono creare, aggiungendo che la confusione fra “condizione” e “situazione”, oltre a confliggere col primo comma dell’art. 3 Cost. per il dato di non tener conto delle differenze, contrasta inesorabilmente col secondo comma, nella misura in cui, attraverso strumenti normativi che non tengano conto appunto delle “condizioni” personali naturali, si introducono ostacoli, invece che rimuoverli, all’accesso alla cittadinanza.
È per l’appunto questo il punctum dolens della riforma della cittadinanza: sono legittimi gli ostacoli introdotti (rectius, imposti) per l’accesso degli oriundi italiani al mero accertamento dello ius sanguinis? Oppure tali ostacoli pretendono di disporre dell’identità di queste persone attraverso fictiones giuridiche discriminatorie (cfr. G. Trivi, L’oriundo italiano e le sue quattro identità), per mezzo di una vera e propria revoca generalizzata ex lege della “condizione” originaria (e naturale) di oriundi e trasmutazione d’emblée in stranieri?
Come detto, la riforma ha preso avvio da un decreto legge, il cui requisito di necessità e urgenza è stato espressamente circoscritto, nella Relazione di presentazione alle Camere, a un problema di inefficienza burocratica, imputata proprio agli oriundi: «un eccezionale e incontrollato afflusso – si legge – di domande di riconoscimento della cittadinanza, tale da impedire l’ordinata funzionalità degli uffici consolari all’estero, dei comuni e degli uffici giudiziari» (in merito, si v. M. Cunha Verciano, Gli oriundi italiani tra interpretazione “politica” e “naturalistica” dello ius sanguinis).
L’atto normativo originario, dunque, ha assunto un contenuto esplicitamente provvedimentale di revoca ad personam, nel senso di attrarre alla sfera legislativa la disciplina di procedimenti paralleli tutti uguali fra loro (quelli di mero accertamento della continuità di discendenza iure sanguinis), già affidati all’autorità amministrativa o giudiziaria (su questa qualificazione delle leggi provvedimento, si v. Corte cost. sent. n. 186/2022 e ivi altri richiami), per eliminarli in toto e farne poi derivare, in sede di conversione, una riqualificazione definitiva dei loro originari istanti, con effetti volutamente retroattivi: nati, ieri, oriundi, titolati all’accertamento dello ius sanguinis, ciascuno di loro è diventato, oggi, straniero ope legis.
Un simile marchingegno di revoca anti-oriundi, da “cittadinanza eugenetica” è stato scritto (I. Bruno, La cittadinanza “eugenetica” della riforma Tajani), non può sfuggire a uno stretto controllo di “non arbitrarietà”, come richiede sempre la Consulta nella citata sentenza n. 186/2022.
In gioco, infatti, non è la «ragion sufficiente», come la denomina la Consulta, della scelta provvedimentale della legge (il sovraccarico di lavoro degli uffici). La partita è sul «minor sacrificio possibile di altri principi o valori costituzionalmente protetti» (così, sempre Corte cost. n. 186/2022).
E, in questa legge di riforma, il «minor sacrificio possibile» non appare proprio essere stato tenuto in conto, perché si è inciso sulla discendenza e, quindi, sulla storia delle persone.
Spetta forse alla legge revocare l’esistenza naturale della discendenza? E come si giustifica una revoca generalizzata di “condizione” personale alla luce, oltre che dell’art. 22 Cost. (cfr. G. Campeggio, Ius sanguinis e art. 22 della Costituzione), del riconoscimento costituzionale dell’emigrazione?
In conclusione, oltre che sul legittimo affidamento procedimentale degli istanti, sui diritti quesiti iure sanguinis (non costituenti appunto fictiones) e sulle legittime aspettative degli oriundi, la legge ha preteso di intervenire sulla loro comune esistenza, la cui “condizione” è stata artificialmente smantellata nella discriminazione per ragioni di nascita (disattendendo l’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea) e di provenienza del paese di origine (ignorando l’art. 14 CEDU), per arrivare ad eludere del tutto l’art. 35, quarto comma, Cost., che testualmente individua nell’emigrazione italiana una libertà cittadina, senza discriminazioni né privazioni di natura politica (come si evince dal combinato disposto con gli artt. 2, 3, 4, 16, primo comma, e 22 Cost.), nella netta distinzione, anch’essa testuale, dell’emigrazione dalla “situazione” dell’espatriato (art. 16, secondo comma, Cost.) e dello “straniero” (art. 10, secondo comma, Cost.).
Sulla negazione della “condizione” della discendenza da emigranti si sono consumate non poche ingiustizie nella storia costituzionale (dalle statunitensi “leggi Jim Crow” alla diaspora capoverdiana al “marco temporal” degli indigeni brasiliani: cfr. Encyclopedia of Race, Ethnicity, and Society).
Nella considerazione di questa “memoria migrante”, solo la Consulta potrà indicare la risposta più coerente e compatibile con quell’unicum ordinamentale di cittadinanza, lavoro ed emigrazione, scolpito appunto dall’art. 35 Cost. e impresso in dottrina dal lungimirante insegnamento di Mortati.