Riforma del Patto di Stabilità e nuova governance economica. Sulla recente proposta della Commissione europea

1. Il 9 novembre 2022 la Commissione europea ha pubblicato una proposta di riforma della governance economica europea (Comunicazione sugli orientamenti per una riforma del quadro di governance economica dell’UE, COM(2022) 583), a seguito di un percorso pluriennale di consultazioni di soggetti istituzionali, privati e accademici iniziato prima della crisi pandemica e proseguito a partire dal 2021, la cui continuazione è prevista almeno per l’anno in corso (sul tema recentemente Liscai).
Si tratta di un ulteriore tassello nella storia della governance economica europea, caratterizzata dall’alternarsi di crisi e riforme, accordi sulla necessità delle modifiche, disaccordi profondi sul quomodo delle stesse. Come è noto, la disciplina di bilancio attualmente vigente risale al Patto di stabilità e crescita (PSC) firmato nel 1997 e ai suoi regolamenti attuativi, nell’ambito dell’implementazione dell’unione economica e monetaria avviata a Maastricht nel 1992. Il percorso verso l’unione monetaria si basò sul generale compromesso politico per cui la stessa, accelerata sostanzialmente da posizioni italiane e francesi a seguito della riunificazione tedesca, fosse accettata dall’altra sponda del Reno a condizione di prevedere come elementi fondamentali quelli della dottrina economica dominante in Germania (in particolare di matrice ordoliberale, sul punto cfr. Kaupa e Guazzarotti) e sul necessario rispetto di una serie di parametri volti a ridurre le problematiche della “non ottimalità” dell’area valutaria comune (in particolare sugli squilibri macroeconomici commerciali verso l’esterno, su cui Cesaratto).
L’assetto che ne è derivato ha visto la creazione di una Banca centrale europea dotata di un tasso di CBI (Central Bank Independence) addirittura più marcato del modello originario della Bundesbank, predisposta all’obiettivo primario della stabilità dei prezzi (basso e stabile inflation target) e indipendente rispetto al decisore politico, tanto nazionale quanto europeo, rispetto alla determinazione dei tassi di interesse tanto delle operazioni finanziari quanto dei titoli di stato.
Le politiche fiscali, di competenza degli stati, sono state quindi sottoposte a una serie di regole fiscali (Balanced Budget Rules) volte mantenere il bilancio in sostanziale pareggio così da mantenere il debito pubblico al di sotto di una soglia “sostenibile” (priva di rischi di insolvenza, anche parziale, per capitale prestato e interessi). Il rispetto di tali regole è stato primariamente demandato alla “disciplina di mercato”, cioè al “giudizio” della finanza privata nella regolazione dei tassi di interesse dei titoli di stato e, quindi, della sostenibilità delle politiche pubbliche di spesa.
L’applicazione delle sanzioni sul piano istituzionale, invece, è stata fin da subito problematica: nei primi anni del Duemila si generò un rilevante conflitto – sfociato poi davanti alla Corte di giustizia – tra la Commissione, che aveva raccomandato di attivare la procedura per deficit eccessivi nei confronti di Francia e Germania, e il Consiglio, dove non si raggiunse la maggioranza richiesta per l’attivazione.
La disciplina è stata quindi dapprima modificata – in senso meno rigoroso – nel 2005 (regolamento n. 1056/2005) e poi rivista con una tendenza opposta (meno flessibilità) sia col Trattato di Lisbona (artt. 3, 119-144, 136, 219 e 282-284 TFUE, assieme ai Protocolli n. 12 e 13, rispettivamente in merito alla procedura per i disavanzi eccessivi e ai criteri di convergenza), sia soprattutto, in concomitanza con la crisi economico-finanziaria globale, con le riforme di diritto derivato del 2011 (c.d. “six pack”) e del 2013 (c.d. “two pack”).
La crisi dovuta alla pandemia da Covid-19 ha reso evidente l’inapplicabilità economica e sociale dei parametri quantitativi previsti dalle regole di bilancio, tanto che il Consiglio nel marzo del 2020 ha attivato, per la prima volta nella storia, su proposta della Commissione, la c.d. “clausola di salvaguardia generale”, sospendendone l’applicabilità.
Tanto il raggiungimento dell’obiettivo di medio termine (OMT), finalità della sorveglianza delle politiche di bilancio degli stati membri (c.d. “braccio preventivo”), quanto la correzione dei disavanzi eccessivi rispetto ai parametri del 3 e 60 per cento di deficit e indebitamento del settore pubblico sulla base del PIL (c.d. “braccio correttivo”) sono stati quindi sospesi almeno fino al 2024. Con ciò si sono aperte fondamentali questioni – politiche e dottrinali – tanto sull’opportunità quanto sulla stessa possibilità di un ritorno al passato, essendosi gli stati fortemente allontanati dai suddetti parametri (avendo finanziato la ripresa economica principalmente attraverso l’indebitamento).
A ciò si aggiungono le numerose critiche – come si è detto abbastanza unanimi nell’an, molto meno nel quomodo, anche escludendo le ipotesi di riforma più radicali – apportate nei confronti dell’attuale assetto: le regole sono infatti viste da più parti come «troppo oscure ed eccessivamente complesse» (in tal senso anche Draghi e Macron), errate nella stima dei parametri essenziali (Cottarelli et al.) e quindi sostanzialmente procicliche (ex multis Chessa), nonché di difficile sanzionabilità, soprattutto nei confronti di alcuni stati.

2. Ad ogni modo, per venire al merito della proposta di riforma avanzata dalla Commissione europea, appare utile apprezzare anzitutto i presupposti dai quali quest’ultima prende le mosse. Infatti, subito dopo aver rilevato la centralità del quadro di governance nell’ambito dei processi nazionali di formazione delle decisioni di finanza pubblica e affermato la sua importanza in quanto presupposto delle «condizioni per la stabilità economica, la crescita economica sostenibile e l’aumento dell’occupazione per i cittadini dell’UE» (par. 2.1), la Commissione ha pure dovuto ammettere che l’insieme di interventi normativi succedutisi nel tempo (v. in particolare quanto introdotto dai cc.dd. “six-pack” e “two-pack”) ha contribuito a determinare una complessità generale del quadro tale da rendere inservibili – o quanto meno superati – i meccanismi giuridici e istituzionali preposti a garantire l’effettiva applicazione delle regole di bilancio. Su questa base, la proposta procede nell’individuazione di alcuni obiettivi ritenuti fondamentali nell’ottica di un processo di riforma, vale a dire l’esigenza di assicurare l’agibilità di risposte anticicliche, in un’ottica di lungo periodo nella quale «[l]e transizioni verde e digitale e la necessità di garantire la sicurezza energetica e la resilienza economica e sociale e di costruire le capacità di difesa richiederanno livelli di investimento elevati e duraturi negli anni a venire», richiedendo pure un alto grado di coordinamento sia sul piano del rapporto fra politica economica e politica monetaria dell’Unione che su quello del rapporto fra queste ultime e le politiche di bilancio dei singoli Stati membri (par. 2.2).
Ciò considerato, la Commissione propone una riforma del quadro la quale – pur senza intervenire sul diritto primario dell’Unione, e perciò senza modificare i noti valori del 3 e 60 per cento, rispettivamente del deficit e del debito pubblico sul PIL – vedrebbe anzitutto superato l’obbligo di riduzione del debito di un ventesimo all’anno per i Paesi membri che eccedano il limite citato. Al posto di tale parametro, verrebbe in sostituzione un valore definito invece caso per caso e sulla base del rischio di esposizione di ciascun Paese, anche grazie all’utilizzo dei piani strutturali di bilancio a medio termine (combinazione degli attuali programmi di stabilità e convergenza con i programmi nazionali di riforma) nei quali andranno definite «le traiettorie di bilancio specifiche per paese, gli investimenti pubblici prioritari e gli impegni di riforma che, insieme, garantiscano una riduzione duratura e graduale del debito e una crescita sostenibile e inclusiva» (par. 3.2). Quale indicatore della sostenibilità del debito, poi, la Commissione individua questo nella spesa primaria netta finanziata a livello nazionale – «ossia la spesa al netto delle misure discrezionali sul lato delle entrate ed escludendo la spesa per interessi e la spesa ciclica derivante dalla disoccupazione» (par. 3.2) – ritenendolo strumento utile a semplificare il quadro di bilancio e la trasparenza dei processi decisionali. Questi ultimi, dal canto loro, sarebbero affidati ad un modello nel quale i piani strutturali di bilancio dovrebbero essere valutati dalla Commissione e approvati dal Consiglio; sempre Commissione e Consiglio sarebbero poi coinvolti nel controllo circa l’attuazione dei piani, con l’attivazione automatica della procedura per i disavanzi eccessivi «quando uno Stato membro con un debito superiore al 60 % del PIL si discosta dal percorso pluriennale di spesa primaria netta concordato» (par. 4.2).
Sul piano delle sanzioni, infine, la proposta intende valorizzare la dimensione reputazionale, giacché potrebbe esservi la possibilità che «i ministeri degli Stati membri oggetto di una PDE [siano] chiamati a presentare al Parlamento europeo le misure adottate al fine di ottemperare alle raccomandazioni della PDE» (par. 4.2), in addizione alle più classiche sanzioni finanziarie (che siano queste dirette oppure legate a meccanismi di condizionalità, come nel caso delle risorse del RRF), queste ridotte sul piano quantitativo in ordine all’esigenza di renderne più agevole l’applicazione.

3. Oltre ad una presa di coscienza di un necessario superamento del quadro attuale, quel che emerge da una prima analisi della proposta è il tentativo della Commissione di tenere insieme almeno due interessi differenti. Infatti, se da una parte si può osservare uno sforzo nel rimodellare le fiscal rules al fine di renderle ragionevoli ed efficaci rispetto alle esigenze di riduzione del debito e promozione degli investimenti, dall’altra emerge con particolare chiarezza la volontà di rendere trasparente la titolarità delle scelte in tema di allocazione delle risorse pubbliche. Quest’ultimo profilo appare di particolare importanza poiché aiuta a individuare una delle sfide centrali che la nuova governance economica europea dovrà affrontare, vale a dire la questione democratica. Difatti, focalizzando l’attenzione sulla trasparenza delle procedure in una dimensione che non è più quella di un eterno presentismo bensì più a lungo e medio termine, la proposta della Commissione sembra voler responsabilizzare le istituzioni nazionali nel loro ruolo di attori delle decisioni fondamentali di allocazione delle risorse. In altri termini, traspare una certa volontà di voler superare l’abuso della retorica del vincolo esterno, valorizzando ancora di più il ruolo del decisore politico nazionale; quest’ultimo, co-partecipe nella definizione del piano strutturale di bilancio, si troverebbe così nella posizione di dover avviare o proseguire un processo di riforma e risanamento non più subìto, ma sostanzialmente concordato.
Ad ogni modo, se il punto toccato dalla proposta in tema di democrazia e responsabilità politica a livello nazionale appare certamente una questione essenziale, riteniamo che tutto ciò non possa trovare una sua piena realizzazione se non in un’evoluzione del processo di integrazione che conservi quanto di buono si è potuto apprendere dalla risposta alla crisi pandemica (i.e. emissione del debito comune) e superi l’utilizzo del metodo intergovernativo rispetto alle scelte di bilancio dell’Unione, nella direzione di una ulteriore democratizzazione dei processi decisionali, almeno in materia fiscale ed economica (sul punto v. pure la posizione del Parlamento europeo).
Del fatto che la proposta della Commissione possa configurarsi come un passo determinante verso una effettiva unione fiscale ed economica – e non si mostri invece come un tentativo di aggiornamento più che superamento dei fondamenti economici e teorici di Maastricht – è tuttavia lecito dubitare. Non appaiono infatti messi in discussione – né sembra esserci la volontà politica di farlo – i nodi problematici di fondo del sistema di governance dell’economia europea. Il previsto rafforzamento del sistema sanzionatorio continua a basarsi anche sul ruolo “disciplinare” del mercato nei confronti degli stati (con l’introduzione delle sanzioni «reputazionali») e il tentativo di “ri-statalizzazione” della responsabilità politica delle scelte di bilancio tende a riconfermare – nonostante l’osservazione del fondamentale ruolo politico svolto dalle misure non convenzionali della Banca centrale europea – l’impalpabile separazione tra politica economica e politica monetaria, nonché ad rendere meno evidenti il ruolo delle istituzioni dell’Unione e dei vincoli del Patto nella determinazione della politica economica da parte degli stati.
Piuttosto che a una ri-politicizzazione democratica della decisione economica in Europa (sul punto cfr. Grimm) – eventualità possibile solamente con una riforma dei Trattati  – la proposta della Commissione appare riprodurre quella dinamica di governance che ha caratterizzato il Recovery Fund e che vede nella relazione Commissione-Governo nazionale il suo fulcro.
Come è stato correttamente evidenziato (Bini Smaghi), la proposta oltre a presentare problemi dal punto di vista della parità di trattamento tra stati (a causa della loro divisione in virtù dei parametri macroeconomici del debito) appare parimenti problematica per quanto riguarda i poteri della Commissione nella determinazione delle politiche dei paesi ad “alto debito”. Difatti, rispetto al sistema attuale, in cui si rinviene un certo margine di flessibilità per quanto riguarda il percorso di riduzione del debito – e quindi di contrattazione politica –, nella proposta della Commissione sarebbe essa stessa a proporre «agli Stati membri con un problema di debito pubblico sostanziale o moderato un percorso di aggiustamento pluriennale di riferimento in termini di spesa primaria netta della durata di almeno quattro anni […] ancorato alla sostenibilità del debito [… garantendo che esso] rimanga su un percorso di riduzione plausibile dopo il periodo di aggiustamento di bilancio e che il disavanzo sia mantenuto al di sotto della soglia del 3 % del PIL» (par. 4.1). Per compiere il percorso indicato dalla Commissione, gli stati sono tenuti a presentare un piano strutturale di bilancio a medio termine contenente «gli impegni in materia di riforme e investimenti» (par. 4.1) sottoposto alla valutazione della Commissione e all’approvazione del Consiglio (secondo lo stesso schema già utilizzato per i PNRR). In tal modo sembra determinarsi un incremento dei poteri della Commissione rispetto all’attuale quadro del Semestre europeo nonché un ulteriore rafforzamento della vincolatività delle raccomandazioni specifiche per paese (il piano deve rispondere «a tutte le raccomandazioni specifiche per paese o a un loro sottoinsieme significativo», par. 4.1), al pari di quanto successo con il Recovery Fund, nonché a un ulteriore potenziamento di quest’ultimo, stante il previsto legame tra piano di rientro e PNRR (par. 4.1).
Effetti potenziali i quali rischiano di dimostrarsi non pienamente coerenti con quel «miglioramento della titolarità nazionale delle politiche» e quella «parità di trattamento» che la Commissione si è posta – tra gli altri – come obiettivi della proposta di riforma.