Scelte sovrane e doveri nella sentenza Wightman

Nei giorni scorsi, la Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE) si è espressa nel già pluricommentato caso Wightman, confermando più o meno quanto “suggerito” dall’Avvocato Generale Campos Sánchez-Bordona.
Vi sono, però, alcune differenze significative e una di queste può essere (deve essere) fonte di critica, come si cercherà di sottolineare in questo breve commento.
Si tratta, in generale, di una sentenza molto “ispirata” e ricca di riferimenti alla giurisprudenza precedente della CGUE, quella, per intendersi, in cui la Corte usa apertamente la terminologia costituzionalistica, inaugurata con Les Verts e richiamata “a singhiozzo”. Non a caso, proprio Les Verts – insieme alla sentenza Kadi e al Parere 2/13 e Achmea (fra le altre), viene citata al par. 44, per ricordare la natura “costituzionale” dei Trattati e il carattere peculiare dell’ordinamento dell’Unione:

“In that respect, it must be borne in mind that the founding Treaties, which constitute the basic constitutional charter of the European Union (judgment of 23 April 1986, Les Verts v Parliament, 294/83, EU:C:1986:166, paragraph 23), established, unlike ordinary international treaties, a new legal order, possessing its own institutions, for the benefit of which the Member States thereof have limited their sovereign rights, in ever wider fields, and the subjects of which comprise not only those States but also their nationals (Opinion 2/13 (Accession of the European Union to the ECHR) of 18 December 2014, EU:C:2014:2454, paragraph 157 and the case-law cited).”

La Corte, come ha fatto anche in altre decisioni “storiche” (questa inevitabilmente lo è, trattandosi della prima interpretazione offerta dalla CGUE sull’art. 50 TUE), ha cercato di dare continuità e profondità alla sua pronuncia, leggendo la disposizione in questione e tutta la sentenza in contesto.
Si spiega in questo senso anche il riferimento all’impatto dell’eventuale uscita del Regno Unito sulla cittadinanza dell’UE al par. 64:

“It must also be noted that, since citizenship of the Union is intended to be the fundamental status of nationals of the Member States (see, to that effect, judgments of 20 September 2001, Grzelczyk, C‑184/99, EU:C:2001:458, paragraph 31; of 19 October 2004, Zhu and Chen, C‑200/02, EU:C:2004:639, paragraph 25; and of 2 March 2010, Rottmann, C‑135/08, EU:C:2010:104, paragraph 43), any withdrawal of a Member State from the European Union is liable to have a considerable impact on the rights of all Union citizens, including, inter alia, their right to free movement, as regards both nationals of the Member State concerned and nationals of other Member States.”

Si tratta di un riferimento dovuto, ma non di un approfondimento scontato. La Corte, come già scritto, cerca di offrire una lettura “contestualizzata” dell’art. 50 TUE, cercando, in altre parole, di interpretare tale disposizione alla luce dei valori che caratterizzano il processo integrativo.
Questo, però, porta la CGUE a privilegiare una conclusione opposta a quella sposata dalla High Court di Inghilterra e Galles e dalla Corte Suprema del Regno Unito nella saga Miller.
In quell’occasione, entrambe le corti britanniche sottolinearono il necessario coinvolgimento del Parlamento nella decisione relativa alla notifica dell’intenzione di recedere. La non revocabilità della notifica fu una delle premesse fondamentali del ragionamento dei giudici, una premessa esterna rispetto all’ordinamento nazionale stricto sensu inteso e di non univoca interpretazione, come la dottrina aveva in precedenza sottolineato.
In questo senso la vicenda britannica è emblematica della natura “complessa” del sistema europeo, frutto dell’intreccio normativo fra ordinamenti nazionali e diritto dei Trattati. Ci si riferisce all’inestricabilità ordinamentale che lega diritto interno e sovranazionale e che viene ribadita dalla CGUE al par. 45 in cui si scrive di “a structured network of principles, rules and mutually interdependent legal relations binding the European Union and its Member States reciprocally as well as binding its Member States to each other”.
Tuttavia, proprio per l’impatto che la questione della revocabilità o meno della notifica ha avuto sul margine di manovra del Parlamento, si può sottolineare l’eccessiva sbrigatività di alcuni rilevanti passaggi nelle due pronunce, come attenta dottrina immediatamente ha segnalato, criticando la scelta di non sollevare una questione pregiudiziale ex art. 267 TFUE.
La CGUE è, invece, giunta ad altra conclusione, puntando su una lettura sistematica dell’art. 50 TUE (par. 61- 67), in cui la CGUE prima (par. 61-62) ricorda le finalità del processo integrativo e, in particolare, l’importanza giocata dai valori della libertà e della democrazia (in questo passaggio viene anche richiamata la sentenza Kadi):

“As regards the context of Article 50 TEU, reference must be made to the 13th recital in the preamble to the TEU, the first recital in the preamble to the TFEU and Article 1 TEU, which indicate that those treaties have as their purpose the creation of an ever closer union among the peoples of Europe, and to the second recital in the preamble to the TFEU, from which it follows that the European Union aims to eliminate the barriers which divide Europe.
It is also appropriate to underline the importance of the values of liberty and democracy, referred to in the second and fourth recitals of the preamble to the TEU, which are among the common values referred to in Article 2 of that Treaty and in the preamble to the Charter of Fundamental Rights of the European Union, and which thus form part of the very foundations of the European Union legal order (see, to that effect, judgment of 3 September 2008, Kadi and Al Barakaat International Foundation v Council and Commission, C‑402/05 P and C‑415/05 P, EU:C:2008:461, paragraphs 303 and 304).

Inoltre, dopo aver scartato il parallelismo con la decisione di chiedere un’estensione dei negoziati ex art. 50.3 TUE (par. 60), la CGUE si sofferma sull’art. 49 TUE per ribadire come la decisione di aderire all’UE si fondi su un impegno libero e volontario (par. 63):

“As is apparent from Article 49 TEU, which provides the possibility for any European State to apply to become a member of the European Union and to which Article 50 TEU, on the right of withdrawal, is the counterpart, the European Union is composed of States which have freely and voluntarily committed themselves to those values, and EU law is thus based on the fundamental premiss that each Member State shares with all the other Member States, and recognises that those Member States share with it, those same values (see, to that effect, judgment of 25 July 2018, Minister for Justice and Equality (Deficiencies in the system of justice), C‑216/18 PPU, EU:C:2018:586, paragraph 35)”

Infine, sempre giocando sul parallelismo art. 49 TUE e art. 50 TUE, la CGUE conclude per la revocabilità della notifica (par. 65-67):

“In those circumstances, given that a State cannot be forced to accede to the European Union against its will, neither can it be forced to withdraw from the European Union against its will. However, if the notification of the intention to withdraw were to lead inevitably to the withdrawal of the Member State concerned from the European Union at the end of the period laid down in Article 50(3) TEU, that Member State could be forced to leave the European Union despite its wish — as expressed through its democratic process in accordance with its constitutional requirements — to reverse its decision to withdraw and, accordingly, to remain a Member of the European Union. Such a result would be inconsistent with the aims and values referred to in paragraphs 61 and 62 of the present judgment. In particular, it would be inconsistent with the Treaties’ purpose of creating an ever closer union among the peoples of Europe to force the withdrawal of a Member State which, having notified its intention to withdraw from the European Union in accordance with its constitutional requirements and following a democratic process, decides to revoke the notification of that intention through a democratic process”.

Non si trattava, a mio avviso di un esito scontato. La dottrina aveva spiegato le ragioni che ispiravano prudenza: la disposizione dell’art. 50 TUE – come molte clausole sulla secessione – è uno “strumento di gestione del rischio politico”. Cerca di proceduralizzare, il rischio dell’uscita affidando al diritto un fenomeno che rischierebbe altrimenti di esprimersi in forme potenzialmente, ma non necessariamente, violente.
Come tale, deve essere letto in maniera restrittiva, anche per evitare il rischio di un abuso. L’abuso in questione potrebbe essere dato da un’utilizzazione strategica della minaccia dell’uscita per rinegoziare condizioni più favorevoli. In parte era stato così: se non ci fosse stato il voto del 23 giugno 2016 sarebbe entrato in vigore la problematica “Nuova intesa per il Regno Unito nell’Unione europea”, come sottolineato dai primi commentatori.
In questo senso, come è stato detto in varie sedi, si può sostenere che l’UE stia vivendo una crisi necessaria e inevitabile: anche la vittoria del Bremain non avrebbe evitato un necessario ripensamento del processo integrativo e una stagione di conflitti.
Questo mi porta al secondo punto: dovremmo privilegiare una lettura sostenibile dell’art. 50 TUE, proprio per evitare che il processo integrativo in quanto tale rimanga ostaggio di possibili usi strumentali di questa disposizione.
Sia ben chiaro, anche ordinamenti dove l’uscita non viene contemplata non sono estranei a tali dinamiche, la crisi spagnola è emblematica da questo punto di vista.
Eppure, c’è qualcosa che non convince in questa sentenza: innanzitutto il continuo richiamo al concetto di sovranità, mentre sparisce, invece, il riferimento al concetto di identità nazionale ex art. 4 TUE richiamato dall’Avvocato Generale ai par. 110 e 130-137. L’aggettivo “sovereign” viene ripetuto sette volte nel testo della sentenza e rappresenta, indubbiamente, una delle premesse della Corte.
Si tratterebbe di una scelta ragionevole, se non fosse che così facendo si rischia di esporre le dinamiche dell’art. 50 TUE a pericolose letture unilaterali. Ovviamente la CGUE sapeva di doversi esprimere su una questione sensibilissima e sapeva anche che fra lettori della sua pronuncia ci sarebbero stati (anche) populisti e sovranisti. In questo senso, l’insistenza sul concetto di sovranità potrebbe essere vista come una scelta strategica più che obbligata. Del resto, è la stessa lettera dell’art. 50 TUE che rinvia agli ordinamenti interni al par. 1.
Molti autorevoli colleghi, del resto, hanno insistito sulla differenza esistente fra il concetto di recesso (“withdraw” è il verbo utilizzato nel testo inglese) ex art. 50 TUE e quello di secessione. Per alcuni, in particolare, una differenza chiave risulterebbe dalla natura unilaterale del recesso e nel carattere necessariamente negoziato della secessione.
Credo che questa distinzione possa essere criticata e, del resto, uno dei padri della c.d. Compact Theory, John Calhoun, nella sua lettera a Hamilton chiariva che “secession is a withdrawal from the Union”. Inoltre, anche la Corte Suprema canadese, nella sua celebre Reference re Secession of Quebec di 20 anni fa, utilizzava il verbo “withdraw” (par. 83, per esempio) per ragionare sull’ammissibilità o meno di una secessione unilaterale del Québec.
Tutto questo per dire che vi sono rischi nella lettura che scorge nella disposizione dell’art. 50 il quadro procedurale di un’uscita unilaterale.
Un altro passaggio interessante della sentenza è quello in cui – cosa rara nella giurisprudenza sovranazionale – la CGUE guarda ai lavori preparatori della seconda Convenzione (quella relativa al Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa) per trovare un argomento a supporto della propria decisione. In particolare, si ricorda come fossero stati rigettati tutti gli emendamenti relativi alla possibilità di espellere uno Stato membro al fine di evitare il rischio di abusi durante la procedura di recesso (par. 68- 70):

“The origins of Article 50 TEU also support an interpretation of that provision as meaning that a Member State is entitled to revoke unilaterally the notification of its intention to withdraw from the European Union. That article largely adopts the wording of a withdrawal clause first set out in the draft Treaty establishing a Constitution for Europe. Although, during the drafting of that clause, amendments had been proposed to allow the expulsion of a Member State, to avoid the risk of abuse during the withdrawal procedure or to make the withdrawal decision more difficult, those amendments were all rejected on the ground, expressly set out in the comments on the draft, that the voluntary and unilateral nature of the withdrawal decision should be ensured.
It follows from the foregoing that the notification by a Member State of its intention to withdraw does not lead inevitably to the withdrawal of that Member State from the European Union. On the contrary, a Member State that has reversed its decision to withdraw from the European Union is entitled to revoke that notification for as long as a withdrawal agreement concluded between that Member State and the European Union has not entered into force or, if no such agreement has been concluded, for as long as the two-year period laid down in Article 50(3) TEU, possibly extended in accordance with that provision, has not expired.
That conclusion is corroborated by the provisions of the Vienna Convention on the Law of Treaties, which was taken into account in the preparatory work for the Treaty establishing a Constitution for Europe”.

Si tratta di una curiosa “riesumazione” dei lavori preparatori di un testo mai entrato in vigore.
Allo stesso tempo, la CGUE, consapevole del rischio di una lettura eccessivamente unilaterale di questa disposizione, cerca di limitare l’ambito temporale in cui una tale decisione possa essere presa, quando dice (ripetutamente, quasi a volersi rassicurare) che:

“The Member State concerned has a right to revoke the notification of its intention to withdraw from the European Union, for as long as a withdrawal agreement concluded between the European Union and that Member State has not entered into force or, if no such agreement has been concluded, for as long as the two-year period laid down in Article 50(3) TEU, possibly extended in accordance with that provision, has not expired” (per esempio, al par. 57).

In questo modo la Corte sembra circoscrivere al periodo di due anni (salvo quanto stabilito dall’art. 50.3 TUE) i rischi connessi all’unilateralità della revocabilità dell’intenzione di uscire, ma si tratta di un periodo di incertezza non da poco, che può generare confusione nelle istituzioni e nei mercati.
A questo accorgimento segue una precisazione procedurale quando si aggiunge che:

“In the absence of an express provision governing revocation of the notification of the intention to withdraw, that revocation is subject to the rules laid down in Article 50(1) TEU for the withdrawal itself, with the result that it may be decided upon unilaterally, in accordance with the constitutional requirements of the Member State concerned.” (par. 58).

Abbiamo già visto come il mancato riferimento al concetto di identità nazionale rappresenti una delle differenze fra le Conclusioni dell’Avvocato Generale e la sentenza della CGUE. Ve ne è un’altra, però, che conviene sottolineare. Mentre l’Avvocato Generale aveva cercato di trovare un limite a questa scelta sovrana del Paese interessato nei princìpi di buona fede e di leale cooperazione (sempre richiamati dall’art. 4 TUE), tale riferimento sparisce nel testo della sentenza.
Questa assenza mi pare difficilmente giustificabile e mi fa guardare con preoccupazione agli esiti di una decisione che in molti stanno già celebrando come illuminata.
Indubbiamente gran parte della sentenza è condivisibile e, come scritto in apertura, “ispirata”, ma il rischio dell’uso strategico dell’art. 50 TUE non viene, a mio avviso, del tutto scongiurato, anche se in altri passaggi la stessa Corte si affretta a definire tale (possibile) revoca come “unequivocal and unconditional” (par. 74- 75). In questo senso, la natura incondizionata di tale revoca è da intendersi nel senso che “the purpose of that revocation is to confirm the EU membership of the Member State concerned under terms that are unchanged as regards its status as a Member State, and that revocation brings the withdrawal procedure to an end” (par. 74).
Sarà sufficiente per evitare rischi di abusi? Difficile da dire, di sicuro il Regno Unito è ancora – e a pieno titolo, nonostante le affrettate considerazioni fatte da molti all’indomani del voto del 23 giugno – uno Stato membro dell’UE e, a questo punto, tutto può accadere.