Un quadro sempre più nitido: la Corte costituzionale e l’omogenitorialità femminile

1. Se, finora, la giurisprudenza in materia di omogenitorialità aveva aggiunto tasselli isolati a un mosaico dai contorni incerti, la sentenza n. 68/2025 della Corte costituzionale interviene a delineare un’immagine che, per quanto ancora da completare, appare chiara e sempre più nitida. Grazie a questa sentenza, infatti, i bambini e le bambine nati in Italia in coppie di donne a seguito del ricorso – all’estero – a procreazione medicalmente assistita potranno essere riconosciuti da entrambe le madri, in virtù dell’articolo 8 della legge n. 40/2004. Una disposizione, quest’ultima, ritenuta sino ad oggi applicabile esclusivamente ai nati in coppie eterosessuali e di cui la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale – per violazione degli articoli 2, 3 e 30 – “nella parte in cui non prevede che pure il nato in Italia da donna che ha fatto ricorso all’estero, in osservanza delle norme ivi vigenti, a tecniche di procreazione medicalmente assistita ha lo stato di figlio riconosciuto anche della donna che, del pari, ha espresso il preventivo consenso al ricorso alle tecniche medesime e alla correlata assunzione di responsabilità genitoriale”.
La soluzione offerta sin qui dalla giurisprudenza, a queste/i minori, era la seguente: riconoscimento alla nascita da parte della sola madre partoriente e, successivamente, adozione in casi particolari da parte della madre d’intenzione. La sentenza della Corte, dunque, ha cambiato la vita di moltissime bambine e bambini, allineando la loro identità giuridica alla realtà familiare, affettiva e sociale delle loro vite. Non è banale partire da questo dato di esperienza, per avere presente l’impatto di una decisione per certi versi inattesa ma non per questo meno necessaria.
Gli effetti della sentenza riguarderanno i minori che abbiano già ottenuto la formazione di un atto di nascita recante l’indicazione di entrambe le madri – la cui legittimità non è più in discussione, oggi – e i minori cui la formazione di tale atto di nascita sia stata negata, potendo ora intervenire un riconoscimento successivo da parte della madre d’intenzione. Soprattutto, riguarderanno i casi – ancora sub iudice – di impugnazione dell’atto di nascita da parte di una Procura della Repubblica ma anche – a ben vedere – i casi in cui sia intervenuto un decreto giudiziale di annullamento. La recentissima Cass., sez. I civ., sent. n. 15075 del 5 giugno 2025 ha chiarito che il dispositivo di illegittimità costituzionale impone di applicare sin da subito l’articolo 8 della legge n. 40/2004 nelle “situazioni” e nei “rapporti” pendenti. Sul punto, occorre tuttavia precisare che, nella materia dello stato civile, non pare potersi discorrere di un vero e proprio “esaurimento” dei rapporti (fermo restando, ovviamente, il regime delle decadenze previsto per le azioni di stato).

2. Con la sentenza n. 32/2021 – e prima ancora con la sentenza n. 230/2020 – la Corte costituzionale aveva ravvisato l’esistenza di un vuoto di tutela per i minori nati in coppie di donne preannunciando “l’urgenza di una «diversa tutela del miglior interesse del minore, in direzione di più penetranti ed estesi contenuti giuridici del suo rapporto con la “madre intenzionale”, che ne attenui il divario tra realtà fattuale e realtà legale»” (par. 2.4.1.3 del Diritto); e, invocando l’intervento del legislatore, aveva infine avvertito che “non sarebbe [stato] più tollerabile il protrarsi dell’inerzia legislativa, tanto è grave il vuoto di tutela del preminente interesse del minore, riscontrato in questa pronuncia” (par. 2.4.1.4).
Nei quattro anni che separano le due pronunce – ferma l’inerzia legislativa – la giurisprudenza di legittimità (non così quella di merito) ha continuato ad escludere la possibilità di estendere in via interpretativa, ai nati in coppie di donne, l’applicazione dell’articolo 8; e, correlativamente, ha tentato di temperare alcuni aspetti dell’adozione in casi particolari – dalla pienezza degli effetti (assicurata dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 79/2022) alla possibilità per il giudice di superare il mancato assenso all’adozione da parte del genitore già riconosciuto, ove contrastante con l’interesse del minore (così a partire da Cass., SS.UU. sent. n. 38162/2022) – al fine di corroborarne l’immagine di plausibile strumento alternativo di tutela.
Da questo scenario la Corte prende le mosse e, pur avendo cura di enfatizzare la continuità rispetto alle affermazioni di principio contenute nelle decisioni precedenti (sebbene tutte di segno negativo), segna un innegabile punto di svolta.
Ciò è evidente, anzitutto, nel deciso superamento di ogni residua perplessità rispetto all’orientamento omosessuale della coppia genitoriale. La Corte ribadisce infatti che deve essere esclusa una “inidoneità genitoriale, in sé, della coppia omosessuale” e, nel prisma dell’interesse del minore, riconosce dignità familiare al nucleo in cui è inserito, discorrendo nuovamente – al par. 8.4 del Diritto – di “famiglia formata da una coppia omosessuale”: affermazioni non nuove, ma assai significative e che contribuiscono a ridisegnare il perimetro delle formazioni familiari meritevoli di tutela alla luce della Costituzione (e, in particolare, dei suoi articoli 2 e 3 che, così interpretati, gettano una luce nuova e diversa sullo stesso articolo 29).
In secondo luogo, gli argomenti che la Corte utilizza a proposito della sufficienza della tutela assicurata ai minori dall’adozione in casi particolari rivelano uno sguardo più acuto sulla concretezza delle esperienze: al par. 9.3 del Diritto, in un passaggio davvero decisivo, viene infatti strappato il velo che – finora – aveva consentito alla giurisprudenza di indugiare sull’interpretazione restrittiva dell’articolo 8 della legge n. 40/2004. La Corte – pur riconoscendo l’importante mutamento intervenuto, grazie alla giurisprudenza, nella concreta fisionomia dell’adozione in casi particolari – ne riconosce la “inidoneità di tipo strutturale” a dare tutela alle bambine e ai bambini nati in coppia di donne a seguito del ricorso all’estero a p.m.a. Un giudizio, si badi, che non investe l’adozione in casi particolari in sé considerata ma – correttamente – ne evidenzia la non adeguatezza alla specifica situazione di famiglie che sono tali sin dalla nascita del minore. La Corte sottolinea infatti che taluni aspetti della disciplina – dalla necessaria iniziativa dell’adottante ai costi in termini temporali, economici e istruttori – possono essere ritenuti coerenti con la logica dell’istituto adottivo, ma si palesano irragionevoli quando applicati a una famiglia già formata. Altro è, insomma, dare una famiglia a un minore che ne è privo o aggiungere un genitore a una costellazione familiare già esistente; altro è riconoscere una famiglia che è tale fin dalla nascita del minore. Se, nel primo caso, l’intervento di un giudice è necessario per verificare – mediante opportuna istruttoria – la corrispondenza dell’adozione al miglior interesse del minore, nel secondo caso tale necessità non sussiste e l’interesse del minore impone il riconoscimento sin dalla nascita della responsabilità genitoriale assunta da entrambe le madri attraverso il progetto genitoriale realizzato mediante p.m.a.
Una più raffinata sintonizzazione sulla condizione di vita delle bambine e dei bambini con due madri si coglie, inoltre, nella ricostruzione della ratio dell’articolo 8 e, in particolare, nella messa a fuoco del rilievo centrale dell’assunzione di responsabilità genitoriale mediante espressione del consenso alla p.m.a. Nel riaffermare la prospettiva paidocentrica già assunta nella sentenza n. 32/2021, la Corte concentra l’attenzione sui “doveri inerenti alla responsabilità genitoriale” che discendono – nei confronti del minore – dal “comune impegno volontariamente assunto” di metterlo al mondo; e, riprendendo suggestioni annidate tra le righe dei propri precedenti (peraltro non favorevoli alle famiglie omogenitoriali), riconosce infine che – anche nel loro caso, come già nel caso della p.m.a. in coppia eterosessuale (sent. n. 162/2014) – il “consenso comune al progetto di genitorialità” deve essere “ritenuto titolo idoneo a fondare lo status filiationis” (parr. 6 e 7 del Diritto).
La centralità del principio-responsabilità – che la Corte valorizza fino a chiarirne il legame costitutivo con lo status – è d’altra parte fortemente avvertita dalla bioetica contemporanea, che ha chiarito da tempo che “la responsabilità riproduttiva si lega molto di più al prendersi cura di chi nasce che al contributo offerto dalle componenti biologiche della nuova individualità” (E. Lecaldano, Identità personale, Roma, Carocci, 2021, p. 233); e, allo stesso modo, la responsabilità è al centro del dibattito – politico e giuridico – non solo sulla procreazione medicalmente assistita (come dimostrano l’enfatizzazione del consenso già contenuta nella sent. n. 161/2023 e in dottrina, tra le altre, i numerosi lavori di Stefania Stefanelli sul punto) ma anche sull’interruzione volontaria della gravidanza (fin dalla formulazione dell’articolo 1 della legge n. 194/1978).
La responsabilità si lega strettamente – infine – alla salvaguardia dell’interesse del minore, che rappresenta il “secondo concetto guida rilevante” della sentenza (par. 8 del Diritto): di nuovo, si tratta soltanto di tutelare i diritti del minore, esigendo responsabilità e doveri, ai quali i genitori non possono “ad libitum sottrarsi” (par. 8.1 del Diritto). L’interesse del minore non può che essere realizzato, in questa prospettiva, mediante lo strumento che, solo, assicura la piena e immediata esigibilità dei doveri connessi alla responsabilità genitoriale – il riconoscimento automatico indotto dall’assunzione di responsabilità procreativa – specie quando, come nel caso di specie, “non è ravvisabile alcun controinteresse di peso” (attinente, ad esempio, alle modalità della nascita, cfr. par. 12 e par. 15 del Diritto) tale da giustificare un’operazione di bilanciamento.

3. La dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’articolo 8 – in luogo, ad esempio, di una interpretativa di rigetto – assicura immediata tutela e rompe il nesso sistematico tra l’ambito di applicazione dell’articolo 8 e il carattere eterosessuale della coppia quale requisito per l’accesso alla p.m.a., più volte valorizzato dalla Corte di cassazione ma anche dalla stessa Consulta (ad esempio nelle sentenze n. 237/2019 e 230/2020). Viene così superato, ex post, il problema dell’applicabilità dell’articolo 8 ai nati in coppie di donne in virtù di interpretazione conforme o costituzionalmente orientata. Sul punto torna peraltro, in modo alquanto sorprendente, la richiamata Cass., sent. n. 15075/25 la quale – pur concludendo nel senso della doverosa applicabilità della sentenza in commento – contiene vigorose (ma non per questo condivisibili) affermazioni sui limiti dell’attività interpretativa del giudice: affermazioni che stonano, di fronte alla sentenza della Corte costituzionale, specie perché provenienti da un giudice che, in una corposa (e ormai quinquennale) serie di precedenti, ha ritenuto non solo di non poter applicare l’articolo 8, ma nemmeno di sollevare questione di legittimità costituzionale.
Tra i primi commenti alla sentenza, non è mancato chi ha lamentato il mancato rispetto della discrezionalità legislativa in una materia tanto delicata. Io sono convinto, piuttosto, che la Corte abbia faticosamente segnato un solido punto di equilibrio nei rapporti con il processo politico.
In questa prospettiva, i rapporti con la sentenza n. 32/2021 non si esauriscono nello schema classico del monito inascoltato che dà luogo a un dispositivo di accoglimento, ma riguardano – più in profondità – l’inquadramento della questione e la progressiva maturazione di una sempre più acuta sensibilità verso le concrete condizioni di vita dei nati in coppie di due madri.
In primo luogo, la Corte ha ritenuto – distinguendo puntualmente la questione all’esame da quella oggetto della sentenza n. 32/2021 – che, in questo caso, l’accoglimento non determinasse l’insorgere di disarmonie “interne” rispetto alla tutela di minori in diverse situazioni di vita (par. 2.2 del Diritto): se, infatti, nel 2021 si chiedeva alla Corte di intervenire sulla sola condizione dei figli di coppie di donne in conflitto, che non potessero per questo accedere all’adozione in casi particolari, in questo caso la richiesta riguarda la possibilità di applicare l’articolo 8 a tutti i nati in coppie di donne a seguito di p.m.a. effettuata all’estero.
Ancor più in profondità, il protrarsi dell’inerzia legislativa viene valutato – in prospettiva paidocentrica – nel prisma dell’interesse del minore e della concretezza delle situazioni, lasciando emergere le insufficienze del modello delineato dalla giurisprudenza e l’urgenza indifferibile di una tutela certa, in uno con la necessità di dare piena effettività agli articoli 2, 3 e 30 della Costituzione.
Non credo, quindi, che la Corte abbia ecceduto rispetto al limite di deferenza verso il legislatore. Mi pare piuttosto, specie leggendo assieme la sentenza n. 68 e la sentenza n. 69, la Corte abbia distinto tra questioni relative all’ampliamento di sfere di autodeterminazione “attraverso il superamento dei limiti fissati dal legislatore, cui primariamente spetta il compito di dettare le condizioni di accesso a forme di genitorialità diverse dalla procreazione naturale” (così la sentenza n. 33/2025, par. 8.2 del Diritto) e questioni relative alla ricerca – imposta dall’articolo 30 – della soluzione ottimale “in concreto” per l’interesse del minore (così la sentenza n. 11/1981). Nella faticosa delimitazione del confine tra politica dei diritti e loro tutela nell’esperienza, la Corte accompagna così l’ordinamento verso la piena realizzazione della pari dignità sociale di famiglie e minori, senza rinunciare a delineare il cammino, orientando le future – e ormai ineludibili – scelte del legislatore.