Verso una convergenza dei giudici europei nello status da riconoscersi al diritto UE e alla CEDU e nella loro applicazione a livello nazionale?

Tentare di mettere ordine nel complesso intreccio degli ordinamenti nazional-europei scegliendo come angolo prospettico quello dei giudici non è operazione facile, specie nell’assetto post-Lisbona: l’ultimo libro di Giuseppe Martinico e di Oreste Pollicino (The Interaction between Europe’s Legal Systems Judicial Dialogue and the Creation of Supranational Laws, Edward Elgar, 2012) affronta in modo efficace questo nodo così dibattuto del costituzionalismo contemporaneo.
L’opera, in lingua inglese e frutto del lavoro congiunto dei due autori, per quanto le parti di rispettiva competenza siano facilmente identificabili (la prima, a cura di Giuseppe Martinico; la seconda, di Oreste Pollicino), ha il pregio di sistematizzare in un unico volume i modelli di interazione tra i giudici europei afferenti ai diversi livelli di governo: innanzitutto, i giudici comuni e poi quelli costituzionali in relazione alla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea; quindi, i giudici comuni e quelli costituzionali al cospetto dell’ordinamento della CEDU e della giurisprudenza Corte europea dei diritti dell’uomo; infine, l’interazione tra la giurisprudenza della Corte di Lussemburgo e quella della Corte di Strasburgo e le loro reazioni all’allargamento ad est delle rispettive organizzazioni.
Il libro presenta elementi decisamente innovativi rispetto alla letteratura esistente. Da un lato, infatti, come rileva Giuseppe Martinico, si propone un esame critico non solo delle previsioni costituzionali nazionali di apertura del diritto internazionale-sovranazionale – di cui già vi era traccia in alcuni scritti degli anni Ottanta e Novanta (cfr., ad esempio, Andrew Z. Drzemczewski, European Human Rights Convention in Domestic Law: A Comparative Study, OUP, 1998), ma anche una comparazione per ciascuno degli Stati membri dell’Unione europea (che naturalmente sono membri anche del Consiglio d’Europa) della giurisprudenza dei giudici comuni e di quelli costituzionali sull’interpretazione dei Trattati europei e della CEDU e sul valore riconosciuto alla giurisprudenza delle due Corti europee: si realizza così una comparazione “multidimensionale”, che riesce a dar conto al contempo del dato di diritto positivo, dell’interpretazione che di questo è fornita dai diversi attori che a vario titolo compongono la “comunità dei giudici europea”, e dell’interazione tra questi ultimi.
Dall’altro lato, rispetto ad eccellenti contributi editi negli ultimi anni (cfr., ad esempio, il volume curato da H. Keller e A. Stone Sweet (eds), A Europe of Rights: The Impact of the ECHR on National Legal Systems (Oxford University Press 2008)), l’opera in commento, pur avendo sullo sfondo una tesi ben evidente – quella della convergenza tra le giurisprudenze degli Stati membri, da una parte, e delle giurisprudenze delle Corti europee, dall’altra, almeno nel modo di concepire gli effetti dei rispettivi Trattati e delle loro decisioni nei sistemi nazionali –, riesce a conciliare i due versanti, nazionale e sovra/inter-nazionale, dell’applicazione e interpretazione dei “diritti europei” (UE e CEDU), mettendoli anche a confronto. Tanto è vero che alla comparazione è dedicata un’articolata premessa metodologica.
Come già alcune monografie pubblicate negli ultimi due anni (v., ad esempio, M. Di Ciommo, Dignità umana e Stato costituzionale, Passigli, 2010 e G. Repetto, Argomenti comparativi e diritti fondamentali in Europa. Teorie dell’interpretazione e giurisprudenza sovranazionale, Jovene, 2011), il libro di Giuseppe Martinico e di Oreste Pollicino si cimenta con successo nella comparazione tra le giurisprudenze della Corte di giustizia e di quella europea dei diritti dell’uomo, ma spaziando a trecentosessanta gradi, dalla garanzia dei diritti (ad es. la parità di trattamento, la dignità umana, i diritti sociali) alle tecniche interpretative e agli argomenti forniti dai due giudici a supporto delle loro decisioni. Il tutto corredato da una straordinaria mole di dati e di casi citati, a testimonianza della solidità delle tesi esposte, che su queste evidenze empiriche si fondano.
Il quadro che ne risulta, estremamente ricco e complesso e che, per ammissione degli stessi Autori, costituisce lo step successivo rispetto al loro precedente volume su The National Judicial Treatment of the ECHR and EU Laws. A Comparative Constitutional Perspective (Europa Law Publishing 2010) – rivolto invece “soltanto” alla comparazione dell’impatto nazionale del diritto dell’Unione europea e della CEDU attraverso la giurisprudenza dei giudici dei Paesi membri – è analizzato in modo estremamente lineare: alla ricchezza dei contenuti, quindi, si abbina la capacità di accompagnare il lettore su argomenti non certo agevoli, elaborando categorizzazioni e facendo leva su uno stile argomentativo chiaro, che procede per teorie e confutazioni.
Il punto di partenza degli Autori è rappresentato dall’assunto per cui “EU law, national law and the ECHR are conceived as the three sources of European constitutional pluralism (p. 7)” e, alla luce di questo, da due research questions principali: 1) se i giudici nazionali stanno estendendo i principi fondamentali del diritto dell’Unione europea – il principio del primato e dell’effetto diretto – anche all’applicazione della CEDU; 2) se vi è stata una convergenza nella giurisprudenza delle due Corti europee e, eventualmente, qual è stata la sua causa scatenante.
Le risposte, a parere degli Autori, sono affermative in entrambi i casi e giungono a confutare la nota tesi per cui esiste una netta distinzione tra il diritto dell’Unione europea e il diritto originante dalla CEDU (v. ad esempio Lord Hoffmann, The Universality of Human Rights, Judicial Studies Board Annual Lecture, 19 March 2009).
Ad ogni modo, ai profili interessati dalla prima research question sono dedicati in particolare i capitoli 2 e 3. Nel capitolo 2, dopo aver fornito un’interessante ricostruzione delle possibili categorizzazioni dello status del diritto UE (a seconda che si tratti di un ordinamento monista, che costituzionalizza dei limiti al processo di integrazione europea, che non prevede affatto una clausola costituzionale europea o che riafferma la supremazia della Costituzione sul diritto europeo) e di quello CEDU (ossia avente rango costituzionale, sovralegislativo ma subcostituzionale, o legislativo) negli Stati membri, si procede alla comparazione tra le Costituzioni nazionali e le loro clausole internazionali e europee, Paese per Paese. In questo caso, forse, un diverso ordine di trattazione dei casi nazionali, per “categorie” anziché in ordine alfabetico, avrebbe consentito di ascrivere ancor più chiaramente la disciplina costituzionale di ciascuno Stato ai diversi modelli prefigurati.
La parte più innovativa e articolata della risposta alla prima research question, come si accennava, risiede però nell’esame approfondito della “law in action”. Infatti, si afferma che tanto nell’applicazione delle norme dell’Unione europea quanto della CEDU un ruolo decisivo è svolto da giudici nazionali, i “real ‘natural judges’ of European laws” (p. 127). E i giudici nazionali sembrano convergere nell’estendere l’impiego di prassi giurisprudenziali invalse in caso di contrasto tra norme interne e norme di diritto UE anche ai conflitti tra le prime e le norme dell’ordinamento CEDU: in altri termini, è possibile enucleare dalle giurisprudenze nazionali l’esistenza di un obbligo di interpretazione conforme alla CEDU e alle decisioni della Corte di Strasburgo; di un obbligo di disapplicazione delle norme nazionali in contrasto con la CEDU; di una dottrina dei contro-limiti riferibile anche all’applicazione della CEDU. Naturalmente il riferimento di tali prassi anche alla sfera di azione della CEDU non avviene in tutti gli Stati membri e soprattutto non ha luogo con le stesse modalità e con la stessa intensità. In qualche caso, l’orientamento giurisprudenziale non si forma in modo del tutto autonomo, ma ha anche un fondamento costituzionale o legislativo (come nel Regno Unito); in altri, come in Italia, la trasposizione di questi principi del diritto dell’Unione – in particolare, del principio del primato e dell’obbligo di disapplicazione – al sistema della CEDU ha determinato la costituzione di due “fazioni”, quella di alcuni giudici comuni e amministrativi favorevoli a tale estensione e quella della Corte costituzionale, che ha imposto un freno a tale pratica (v. sentt. nn. 348 e 349 del 2007), invero non sempre rispettato; in altri casi ancora, infine, i contro-limiti opposti al diritto CEDU non sono i medesimi enucleati per il diritto UE (v. Tribunale costituzione tedesco, caso Görgülü, 2 BvR 1481/04).
Tutta la seconda parte del libro, invece, si confronta con la seconda research question, sulla “convergenza esterna” tra le due Corti europee: a tal proposito, “the two European Courts seem to have involuntarily started to converge in terms of their ‘idea’ of the domestic effects of EU law and the ECHR in the legal orders of the Member States of the two supranational organizations (p. 161)” e la causa del riavvicinamento è identificata nell’aumento del numero delle Parti contraenti dei rispettivi trattati e della differenziazione tra identità costituzionali. Di un riavvicinamento si tratta infatti, secondo Oreste Pollicino, dal momento che le due Corti almeno alle origini avevano radici comuni, essendo state istituite come corti internazionali. Il “distacco” sarebbe avvenuto successivamente, invece, tra gli anni Sessanta e Settanta, a causa della centralità assunta dalla Corte di giustizia anzitutto grazie allo sviluppo (e al successo) della sua giurisprudenza sul principio dell’effetto diretto e del primato del diritto europeo e sull’apertura alla protezione dei diritti fondamentali. La Corte europea dei diritti dell’uomo, al contrario, – potenzialmente deputata a svolgere un ruolo ben più incisivo quanto alla tutela dei diritti e all’interferenza nelle giurisdizioni nazionali – principalmente per le resistenze degli Stati membri era stata in grado di giudicare solo tre casi in otto anni, tanto è vero che allora si discuteva persino della sua abolizione. Solo dagli anni Novanta e con l’entrata in vigore del Protocollo n. 11 alla CEDU, la Corte ha cominciato a “pesare”, mentre, di converso, “l’epoca d’oro” della Corte di giustizia terminava, nell’Europa post-Maastricht: le sempre più consistenti limitazioni della sovranità statale che il processo di integrazione europea richiedeva, imponevano un riadattamento della fino ad allora “espansiva” giurisprudenza della Corte di giustizia, che scelse la strada del self-restraint.
Ad una più attenta ponderazione da parte della Corte di giustizia del rispetto delle identità costituzionali nazionali quando giudica di presunte violazioni del diritto UE (v., ad esempio il caso Omega), tanto più che se ne è operata una codificazione con l’art. 4, par. 2 TUE (v. caso Sayn-Wittgenstein), fa da contraltare oggi una maggiore “volontà accentratrice” della Corte europea dei diritti dell’uomo e la sempre più frequente presa di distanze dalla dottrina del margine di apprezzamento, che tradizionalmente ha costituito il baluardo della deferenza della Corte verso le giurisdizioni nazionali. Con quale risultato? Per effetto, da una parte, dell’allontanamento della Corte di Lussemburgo da una concezione assoluta e totalizzante del principio del primato e, dall’altra parte, del riconoscimento da parte della Corte di Strasburgo di una “(relative) primacy” della sua giurisprudenza (nonché di effetti indiretti ed erga omnes di queste sentenze) e della CEDU sul diritto nazionale, non vi sarebbe poi grande differenza – sempre stando alle Corti europee – nello status effettivo dei due diritti europei negli Stati membri.
La causa è da ravvisarsi nella differente e per più versi opposta reazione delle Corti europee all’allargamento ad est dell’Unione europea e del Consiglio d’Europa. Se la Corte di giustizia ha assunto una posizione più “compromissoria” che in passato, superando il mero richiamo alle generiche tradizioni costituzionali comuni per convincere ad obbedire alle sue decisioni Stati membri alquanto recalcitranti ad accettare nuove limitazioni alla loro sovranità piena, appena riconquistata (p. 188); la Corte europea dei diritti dell’uomo, al contrario, sapeva che le resistenze ad accettare la sua giurisdizione da parte dei nuovi Stati sarebbero state minori, essendo ormai chiaro che la CEDU non è un trattato internazionale sui diritti umani come tutti gli altri e che vi era bisogno di un supporto “dall’alto” per rendere effettivo un sistema di tutela dei diritti fondamentali piuttosto debole sul piano interno (p. 247).
Proprio l’importante risultato a cui il lavoro di ricerca dei due Autori ha condotto, ossia quello di asserire che vi è una convergenza tra le due Corti europee imputabile principalmente – e un po’ paradossalmente – ad una divergenza delle loro reazioni verso un fenomeno rilevante quale l’allargamento ad est dell’Europa, induce a qualche riflessione ulteriore. In primo luogo, come gli Autori prontamente precisano, la convergenza è un processo e in quanto tale ha subito non poche battute di arresto negli ultimi anni. Ad esempio, la Corte di giustizia, anche andando incontro a numerose critiche, non è stata sempre così accomodante verso le identità costituzionali degli Stati membri e nella “saga” sul mandato di arresto europeo, si è erta nuovamente a paladina di una visione “assolutistica” del principio del primato, facendo aumentare nuovamente le distanze rispetto alla posizione della Corte di Strasburgo.
In secondo luogo, incuriosisce il perché della scelta precisamente dell’allargamento come variabile indipendente. Da un certo punto di vista, infatti, non è facilissimo determinare l’influenza sulla convergenza delle esternalità prodotte dall’allargamento ad est rispetto a quelle prodotte da una circostanza ugualmente significativa come l’entrata in vigore del Protocollo n. 11 alla CEDU nel 1998 e la trasformazione della Corte nella “giurisdizione sussidiaria delle libertà (D. Tega)”. Anche perché i due fenomeni avvengono quasi in contemporanea. Indubbiamente, le migliaia di ricorsi individuali e diretti alla Corte – specie rispetto a quei Paesi che non conoscono l’accesso in via principale al giudice costituzionale da parte dei cittadini – hanno influito sulla percezione che la Corte ha del suo operato in senso legittimante, consentendole forse di spingersi a condannare laddove prima si era mostrata più accondiscendente. Allo stesso modo, non è facile stabilire quanto abbiano pesato sulla tendenza al self-restraint della Corte di giustizia, rispetto all’allargamento ad est, la sospensione degli effetti, fino al Trattato di Lisbona, della Carta dei diritti fondamentali e gli opting out, lo shock del rifiuto del Trattato costituzionale da parte degli elettori in alcuni Stati membri e il confronto con un quadro giuridico incerto, a causa dell’avvio dal 1992 di un “processo semi-permanente di revisione dei Trattati (B. De Witte)”. A maggior ragione che il cambiamento di approccio della Corte di giustizia si fa discendere dal Trattato di Maastricht, quindi ben dodici anni prima del “grande allargamento” (p. 151 ss.).
Aldilà della forza relativa dei fattori che lo hanno determinato, un processo di convergenza nelle giurisprudenze dei giudici europei, nazionali e delle Corti di Strasburgo e Lussemburgo, quanto agli effetti ormai quasi assimilabili da riconoscersi al diritto UE e alla CEDU è in atto. E’ questa la prova più evidente dell’“existence of a multilevel constitutional legal order and of a constitution that is perceived as the outcome of the steady process of comparison and dialectic between interdependent levels of governance (Member States and the EU) (p. 7)”.