A proposito della CEDU e del suo fondamento costituzionale (brevi considerazioni a margine del volume di A. Randazzo, La tutela dei diritti fondamentali tra CEDU e Costituzione, Giuffrè, 2017)

È ormai sotto gli occhi di tutti la oggettiva centralità, e può ben dirsi imprescindibilità, nell’ambito del diritto costituzionale contemporaneo (come pure, invero, di altre discipline) delle complesse problematiche connesse agli impetuosi sviluppi avutisi negli ultimi due decenni nel (vastissimo, e denso di ricadute) campo della tutela dei diritti e principi fondamentali. Centralità che si apprezza almeno su due livelli: da un lato, quello “costituzionale interno”, essenzialmente in virtù della revisione dell’art. 117 c. 1 Cost. nel 2001 e dell’incessante evoluzione giurisprudenziale che, a partire dal 2007, ne è seguita; dall’altro, quello europeo (ma, anche in questo caso, con inevitabili ripercussioni sull’ordinamento nazionale). E ciò tanto sul “fronte” del cosiddetto sistema CEDU – il cui ruolo è vertiginosamente cresciuto per effetto anzitutto di modifiche normative, soprattutto a partire dal protocollo n. 11 nel 1998, ma anche per effetto di altre importantissime innovazioni riconducibili alla prassi della Corte di Strasburgo e del Comitato dei Ministri – quanto sul fronte comunitario (oggi eurounitario), principalmente in connessione alla proclamazione, nel 2000, e ancor più all’entrata in vigore, nel 2009, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione.
Questa sempre più diffusa consapevolezza, insieme forse a un certo fascino che innegabilmente circonda le tematiche in questione, ha indotto di recente un gran numero di studiosi a soffermarsi su di esse. Come osservato dall’A. del volume su cui si vuol qui brevemente richiamare l’attenzione, «fiumi di inchiostro sono stati versati in tale campo di indagine, divenuto quindi assai arato; potrebbe dirsi che “tutto e il contrario di tutto” sia stato detto».
In effetti, sono innumerevoli gli Autori che, specie negli ultimissimi anni, si sono cimentati su questo terreno, in modo sistematico o anche occasionale (non di rado mediante delle note a sentenza in occasione di pronunce particolarmente importanti), con maggiore o minore competenza e con diversa profondità di analisi; talora anche – non si può fare a meno di osservare sommessamente (e affrontando con serenità e piena disponibilità all’autocritica il rischio che il rimprovero torni ai mittenti, o almeno a qualcuna delle loro pagine) – in modo un po’ frettoloso e superficiale, per non dire improvvisato.
Ebbene, la prima osservazione che può farsi a proposito del volume di A. Randazzo, La tutela dei diritti fondamentali tra CEDU e Costituzione (Giuffrè, 2017) è che esso non appartiene di sicuro al novero degli interventi frettolosi, superficiali o improvvisati che si soffermano in modo estemporaneo e, per così dire, decontestualizzato sull’uno o sull’altro aspetto dell’ampia tematica, scelto di volta in volta per ragioni contingenti (magari appunto al mero scopo di “dire la propria” in occasione di qualche decisione di particolare richiamo).
Al contrario, l’Opera è frutto del lavoro di un Autore che da anni – come testimoniato anche da una serie di scritti preparatori del volume di cui qui si discorre – segue attentamente l’evoluzione della giurisprudenza della Corte costituzionale relativa al ruolo ed al rango da riconoscersi alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. L’Autore è anche ben consapevole del “fronte” europeo della questione, così come di quello, spesso sfuggente, dei giudici comuni,  e questo gli permette di fare emergere con chiarezza di contorni e profondità di analisi le traiettorie, spesso non esattamente coincidenti o sovrapponibili, della giurisprudenza (o, meglio, delle giurisprudenze) di rilievo.
Il volume si caratterizza, lungo tutto l’ampio arco delle tematiche affrontate, come un serio, documentato e approfondito tentativo di raccogliere e di rielaborare in chiave organica e spesso originale una corposa mole di riflessioni sviluppate nel tempo dai più autorevoli o comunque attenti studiosi delle questioni oggetto di trattazione, “coprendo” in modo pressoché esauriente (per quanto si possa essere esaurienti in un’unica opera, vertente oltretutto su un tema generale così esteso e così dibattuto nelle sue moltissime sfaccettature) l’intera dottrina italiana.
Sotto questo profilo, l’adesione, esplicitata con onestà intellettuale, fin dalle prime pagine, a una (almeno nelle sue grandi linee) determinata visione di fondo – che potremmo chiamare, come è stato detto, “integrazionista” – e ad una (sempre almeno a grandi linee) determinata prospettiva metodologica – definibile, per intendersi, “sostanzialista” – giustifica il diverso spazio e il diverso “peso” che in alcune parti del libro vengono ad avere, in modo diretto o indiretto, le diverse voci dottrinali.
Il volume non sembra cioè ambire ad offrire una risposta definitiva, unanimemente condivisa e inattaccabile a tutte le questioni sul tappeto, e nemmeno a quelle affrontate (peraltro numerose e tra le più importanti, e tali da comporre un quadro ordinato e tendente ad una completezza almeno “strutturale” del lavoro).
Piuttosto, come si diceva, esso sembra soprattutto guidato dall’intento (al contempo ambizioso e umile, ma sicuramente più ragionevole rispetto a quello di una trattazione realmente esaustiva) di riprendere, incrociare, sistematizzare e non di rado sviluppare una serie di argomenti circolanti in dottrina con riguardo a tali questioni, allo scopo di offrire una visione critica ampia, strutturata e manifestamente “orientata” delle varie problematiche, in un quadro certamente non onnicomprensivo ma, nondimeno, molto comprensivo (di certo più della stragrande maggioranza dei moltissimi contributi pubblicati in quest’ambito, i quali sono oltretutto caratterizzati, normalmente, dall’avere un oggetto specifico molto più ristretto rispetto a quello, per così dire generale, del volume in discorso).
In questo senso, sembrano allora potersi riprendere e riproporre con riferimento alla stessa opera di Randazzo le considerazioni che questi svolge all’inizio del libro a proposito del complessivo processo evolutivo, tuttora in atto, posto al centro della sua indagine (e cioè quello relativo al «rapporto sia tra le Carte che tra le Corti, con specifico riguardo al rilievo […] assunto [dal]la Convenzione europea dei diritti umani nel nostro ordinamento»), precisamente laddove afferma che «le parole che sono state dette e le pagine che sono state scritte al riguardo, per quanto numerose, non possono […] considerarsi esaustive nel definire il fenomeno».
Ciò sembra valere anzitutto – per citare due questioni tra le più importanti e controverse dell’intera tematica – con riguardo all’annoso “problema” della “ricerca della tutela più intensa dei diritti” (ovvero della “massima tutela possibile ai diritti fondamentali” o, per riprende le parole usate dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 317 del 2009, della “massima espansione delle garanzie”), centrale nell’impostazione dell’A. e toccato in diverse parti del libro (in modo più diretto e ampio nelle pagine 222 ss.); nonché con riguardo al parimenti annoso problema del ruolo dei giudici comuni nell’applicazione “diretta” (nei vari sensi e modi che sono stati individuati e prospettati) dei diritti fondamentali di matrice sovranazionale o internazionale, tale problema dovendo oggi (in realtà già da almeno un decennio) essere affrontato, oltre che con riferimento alla CEDU (come, per evidenti motivi, avviene nel volume di Randazzo, specialmente nelle pagine 210 ss.), anche con riferimento alla Carta dei diritti fondamentali, sulle cui modalità di “utilizzo” nelle diverse sedi è stata più volte richiamata l’attenzione dalla Corte costituzionale negli ultimi due anni: dapprima con la “storica”, fortemente innovativa sentenza n. 269 del 2017; e poi, nel 2019, con diverse altre sentenze – in particolare, allo stato attuale, la n. 20, la n. 63 e la n. 117 – che hanno precisato e/o ritoccato il portato della sentenza n. 269.
Ma anche altre importanti questioni affrontate dall’Autore sembrano ancora “aperte” o… meritevoli di essere riaperte.
Ciò è quanto ad esempio parrebbe opportuno con riguardo al problema, in effetti basilare (per ragioni teoriche e per le varie implicazioni pratiche che se ne possono trarre), della corretta individuazione del “fondamento costituzionale della CEDU”: sotto questo profilo, sembrano numerose e forti le “ragioni che militano a favore della copertura dell‘art. 11 Cost.”, e di tali ragioni (che pure si è avuto modo di riprendere e sviluppare in un recente volume sul ruolo della CEDU tra Corte costituzionale, giudici comuni e Corte europea) Randazzo offre una sintesi efficace (nelle pagine 138 ss., ma la questione è incidentalmente affrontata anche in altre parti del libro; l’A. non manca poi di soffermarsi diffusamente sul possibile ruolo di un’altra norma costituzionale, quella di cui all’articolo 10, e, più in generale, sui rapporti tra quest’ultimo articolo, l’art. 11 e l’articolo 117 primo comma; nonché, ancora, sul potenziale ruolo dell’art. 2).
In questa prospettiva sembrano di particolare rilievo le riflessioni dell’Autore con riguardo, per così dire, alla ostinazione con cui la Corte costituzionale continua a tener fuori dai parametri rilevanti ai fini della “copertura costituzionale” della CEDU l’articolo 11 della Costituzione.
In effetti, le ragioni (essenzialmente “pratiche”) che hanno portato ad escludere categoricamente, nelle decisioni nn. 348 e 349 del 2007, la riconducibilità della CEDU all’art. 11 sembrano evidenti e anche piuttosto fragili, oggi ancor più di allora.
Se il fine – s’intende dire – era quello di sconfessare la prassi di quei giudici comuni che avevano sostanzialmente equiparato il regime operativo del “diritto CEDU” a quello tipico del diritto comunitario (utilizzando anche il primo come motivo di disapplicazione di norme legislative interne con esso contrastanti), pare comprensibile e per così dire “logica”, naturale (anche se non proprio inevitabile), col senno di allora, la “scelta” di differenziare seccamente i parametri costituzionali rilevanti per il primo e, rispettivamente, per il secondo.
Ma ci si potrebbe chiedere: oggi, dopo che, come sappiamo, quella prassi “sovversiva” è stata, ormai da anni, sostanzialmente arginata, e la marginalizzazione della Corte costituzionale nel circuito multilivello di protezione dei diritti fondamentali in Europa sventata, perché non dare alla CEDU la copertura costituzionale che merita (con le positive conseguenze che sono state da più parti – e anche nel volume di cui si stata parlando – messe in luce), differenziandola dalla generalità degli altri accordi internazionali proprio in forza dei suoi contenuti e soprattutto di quella particolarità del meccanismo istituzionale convenzionale (si allude ovviamente alla possibilità di ricorso individuale e, più in generale, al ruolo peculiare della Corte EDU) che la stessa Corte costituzionale, a partire dalle  decisioni nn. 348 e 349, ha più volte ammesso?
Il riconoscimento di una copertura della CEDU da parte dell’art. 11 Cost., in effetti (e il punto pare decisivo), non rimetterebbe in alcun modo in discussione – come sembra emergere chiaramente, seppure implicitamente, dalle acute riflessioni dell’Autore a riguardo – il giudizio accentrato della  Corte costituzionale, una volta che siano considerate, com’è stato fatto, proprie del solo ordinamento comunitario, ed insuscettibili di essere estese alla CEDU, le ragioni che hanno portato i giudici costituzionali ad ammettere un potere “diffuso” di disapplicazione (o non applicazione, secondo la terminologia preferita dalla Corte) del diritto nazionale, al precipuo scopo di non mettere a repentaglio l’effet utile del diritto comunitario/eurounitario. D’altronde, ciò era quello che richiedeva con forza la Corte di giustizia e che non ha, almeno per il momento (ma non sembrano esservi motivi per ritenere che le cose siano destinate a cambiare in futuro), richiesto con altrettanta chiarezza e decisione la Corte di Strasburgo (la quale anzi sembrerebbe, comprensibilmente, aver escluso, in modo più o meno aperto, una simile esigenza, quantomeno in linea di massima).
Sventato, dunque, il rischio in questione, perché – è in sostanza la legittima domanda che sembra farsi l’Autore – ostinarsi a sostenere, come fa la Corte costituzionale a partire dalle sentenze gemelle del 2007, citando testualmente un precedente del 1980 (sent. n. 188), che, in riferimento alla Convenzione, non sarebbe «individuabile, con riferimento alle  specifiche norme pattizie in esame, alcuna limitazione della sovranità nazionale»?
A parte la scontata considerazione che già a quel tempo (nel 1980) il meccanismo giurisdizionale proprio della Convenzione era più intrusivo di quanto non lo fosse mai stato il sistema delle Nazioni Unite, cui i Padri costituenti avevano inteso riferire (peraltro non in via esclusiva, come si tornerà a dire poco oltre) le limitazioni di sovranità previste dall’ art. 11 Cost., si può oggi ragionevolmente ritenere – è questo lo specifico e importante quesito che emerge in filigrana dalle stringenti riflessioni dell’Autore sul punto – che,  alla luce delle trasformazioni degli ultimi venti anni tanto nel sistema normativo convenzionale (in primis per effetto dei protocolli 11, 14 e 16) quanto nella concreta percezione (e autopercezione) del ruolo della Corte EDU, lo Stato italiano non abbia ancora ceduto alcuna porzione di sovranità o comunque accettato limitazioni della propria sovranità a favore degli organi di Strasburgo?
Ma la riflessione dell’Autore, a questo riguardo, è forse ancora più sottile, perché si sofferma su una questione rimasta piuttosto in ombra nella dottrina, andando sostanzialmente a domandarsi e a indagare se la volontà dei Padri costituenti fosse davvero (solo) quella, come spesso si tramanda, di introdurre nell’art. 11 una base o una copertura costituzionale per l’ordinamento delle Nazioni Unite o ci fosse invece, almeno in nuce, (anche) l’idea, per certi versi visionaria, ma non estranea all’orizzonte culturale e all’approccio metodologico lungimirante che ha permeato i lavori dell’Assemblea costituente, di un riferimento – sia pure implicito – ad una qualche (o meglio, a più di una, per non dire a qualsiasi) forma di organizzazione e integrazione a livello europeo (e in questo senso non sembra del tutto irrilevante la circostanza, rimessa in luce in anni recenti, che “un legame tra i dibattiti alla Costituente e il milieu politico-culturale del Manifesto di Ventotene sia riscontrabile” in un certo numero di interventi, sebbene, come è noto, nel complesso “il progetto politico ventoteniano abbia esercitato una debole influenza sui costituenti”, per una serie di ragioni in larga parte contingenti, senza che peraltro ciò abbia inficiato un più generico e generalizzato favor per gli ideali europeisti e/o universalisti: cfr. A. Di Martino, Ventotene. Un progetto politico per l’unità federale europea, in A. Buratti, M. Fioravanti (cur.), Costituenti ombra. Altri luoghi e altre figure della cultura politica italiana (1943-48), Roma, 2010, p. 68 ss., nonché P. Faraguna, Costituzione senza confini? Principi e fonti costituzionali tra sistema sovranazionale e diritto internazionale, in F. Cortese, C. Caruso , S. Rossi (cur.), Immaginare la Repubblica. Mito e attualità dell’Assemblea Costituente, Milano, Franco Angeli, 2018, p. 63 ss., il quale pure nota come «l’analisi dei dibattiti che sul punto si svolsero in Costituente traccia un quadro assai più articolato rispetto alla semplice irrilevanza del discorso europeo nella fase costituente»).
Ed effettivamente, utilizzando con consapevolezza il metodo ermeneutico dell’original intent (p. 3 ss.), Randazzo giunge alla significativa conclusione secondo cui non è «possibile dubitare che, attraverso la formulazione dell’art. 11, il Costituente volesse affermare un principio di carattere generale, valevole per consentire una qualsiasi limitazione di sovranità […] proveniente da una qualsiasi organizzazione internazionale, volta ad assicurare la pace e la giustizia fra le nazioni» (p. 13). Conclusione che, del resto, appare pienamente coerente con quanto già da tempo acclarato dalla più autorevole dottrina: e cioè, per un verso, che se in un paio di occasioni, in Costituente, “furono respinti o ritirati emendamenti miranti ad inserire un riferimento esplicito ad organizzazioni europee, ciò fu solo perché tale riferimento venne da più parti considerato già implicito nella locuzione «organizzazioni internazionali»”; e, per l’altro (e questo dato è forse ancor più rilevante ai nostri fini), che “l’espressione «limitazioni di sovranità» non venne usata in senso tecnico […], bensì in un senso generico e atecnico, ossia nel senso di ampi e penetranti vincoli internazionali” (entrambe le citazioni sono tratte da A. Cassese, Commento all’Art. 11, in Commentario della Costituzione - Principi Fondamentali, a cura di G. Branca, Bologna-Roma, 1975, spec. pp. 578-579).
Tutto ciò risulta ancor più significativo se posto in relazione a un altro elemento su cui si sofferma Randazzo nel quadro della ricostruzione dell’original intent dei Costituenti, e cioè il «certo […] intento manifestato dai Padri di riservare ai diritti una speciale protezione, facendone il perno attorno al quale fare ruotare l’intera costruzione ordinamentale» (del forte legame tra questa visione di fondo e i numerosi “precetti internazionalisti” della Costituzione – può ricordarsi incidentalmente – vi è una traccia evidente e molto significativa, in genere meno valorizzata di quanto probabilmente meriterebbe, anche nell’art. 35, comma 3, oltre che in vari commi dell’art. 10, nello stesso articolo 11 e nell’art. 26).
L’A. ci aiuta così a comprendere – ed è questo uno degli importanti apporti del suo lavoro – che la riconduzione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (così come, a suo tempo, quella del sistema comunitario: ma il discorso per la CEDU sembrerebbe addirittura valere “a maggior ragione”) nell’ambito di operatività dell’art. 11 Cost. non rappresenterebbe (e, quanto al sistema comunitario, non ha rappresentato) affatto, come spesso si tende a ritenere o si afferma, una forzatura dogmatica (che nel caso delle Comunità parrebbe quasi essere giustificabile solo per le pressanti esigenze pratiche che ben si conoscono), ma piuttosto un esito pienamente in linea con la lettera e con lo spirito originario di tale articolo (per “spirito” qui intendendosi, in sostanza, la temperie delle finalità e delle prospettive più largamente condivise che nella disposizione in discorso, e attraverso di essa, si sono volute riversare e propiziare da parte della generalità dei membri della Costituente).

 


...Nuove frontiere per la proprietà? (Recensione a Roberto Conti, Diritto di proprietà e CEDU. Itinerari giurisprudenziali europei. Viaggio fra Carte e Corti alla ricerca di un nuovo statuto proprietario, Aracne editrice, Roma, 2012).

Non per generiche finalità informative, ma in ragione del fatto che ciò sembra realmente utile per contestualizzare e comprendere meglio il volume qui presentato (la sua impostazione sistematica, il suo approccio metodologico, la tensione ideale che lo attraversa), vale la pena ricordare che il libro “Diritto di proprietà e CEDU. Itinerari giurisprudenziali europei.  Viaggio fra Carte e Corti alla ricerca di un nuovo statuto proprietario” è opera di un magistrato – in servizio per circa vent’anni nel settore civile e nel settore penale presso il Tribunale di Palermo, e dal marzo 2012 Consigliere di Cassazione – che, con dedizione e passione davvero di prim’ordine, ha affiancato o intrecciato alla sua attività istituzionale una non meno impegnativa e proficua attività di studio, di approfondimento, di divulgazione, di assiduo impulso intellettuale e organizzativo (anche nel suo ruolo di componente del Comitato Scientifico del CSM) in vista della più diffusa conoscenza e riflessione critica sulle tematiche, sulle problematiche e sulle innumerevoli, concrete questioni (anzitutto) giuridiche connesse all’integrazione europea, sul duplice fronte dell’Unione e della CEDU.

Il tutto in strettissimo e assiduo – più che quotidiano! (grazie agli strumenti informatici, quali le mailing list) – e molto collaborativo rapporto con gli ambienti, sia giudiziari sia accademici, maggiormente sensibili e aperti, o comunque attenti, agli impetuosi sviluppi che, soprattutto a partire dalla fine degli anni novanta, hanno segnato ed “ingigantito”, in sede teorica come in sede pratica, le accennate tematiche, problematiche e questioni.

Già questi pochi elementi sull’Autore, insieme ovviamente ai contenuti e al taglio del libro, sembrano corroborare la decisione di pubblicare l’opera nell’ambito, e anzi quale volume inaugurale, di una nuova collana intitolata “Studi di diritto europeo”.

Nella relativa presentazione, a firma del Direttore della collana Mario Serio, si legge che l’espressione “diritto europeo”, «più che frutto di una scelta culturale, appare il prodotto di una necessità scientifica, quella di designare studi e scritti che aspirano a descrivere, interpretare, modellare le sempre più vaste aree di pensiero giuridico che si vanno assestando attorno all’Europa […] prendendo atto della necessità di raccogliere riflessioni e saggi di impianto monografico che si concentrino non soltanto su temi riconducibili al perimetro del diritto europeo, ma [spazino] in tutti i possibili luoghi di esplicazione del diritto europeo, comunitario e non», e che siano «rivolti all’inveramento dell’istanza europeistica nei diritti nazionali e al coordinamento del livello sovrastatuale con quello statuale».

Parole e prospettive, scientifiche ed ideali, che sembrano in effetti trovare nel Lavoro (tutto; non solo quest’ultimo “frutto”) di Roberto Conti una coerente ed energica concretizzazione.

A tal proposito (ma anche, propriamente, per riavvicinarci all’opera qui presentata), è anzi da dire che la sua precedente, ampia monografia “La Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il ruolo del giudice”, edita nel 2011, per un verso testimonia, in generale (e insieme a molti altri contributi, interventi e attività che sarebbe impossibile ricordare con completezza in questa sede), l’appassionato e produttivo impegno cui si è fatto riferimento; per l’altro, e iniziando a entrare nel merito, rappresenta – proprio nel senso etimologico – lo sfondo, o meglio il quadro generale, entro cui possono utilmente collocarsi gli “itinerari” giurisprudenziali ricostruiti e analizzati nel volume attuale: tutto incentrato (non tanto forse, almeno in prima battuta, su quello che nel sottotitolo viene definito, con taglio apparentemente teorico, un possibile “nuovo statuto proprietario” di matrice europea; quanto, più analiticamente e pragmaticamente) su una serie di vicende e questioni, affrontate a livello europeo e a livello nazionale, che concretamente (ma non certo senza importanti ricadute di principio: ed è in questa chiave che sembra allora doversi leggersi, probabilmente, anche la citata espressione del sottotitolo) hanno inciso e incidono – per via normativa o, più spesso, per via giurisprudenziale – sull’effettiva “dimensione” del diritto di proprietà, dei suoi limiti, delle sue forme di tutela.

In questo senso, il volume attuale sembra in effetti porsi su una linea di continuità e di coerente sviluppo rispetto all’opera del 2011, con riguardo alla quale l’Autore stesso aveva affermato (in una sua “autorecensione”) che «[l]a prospettiva seguita muove dalla convinzione che il modo migliore per conoscere la CEDU è quello di accostarsi alle sentenze nazionali che con essa si sono fin qui misurate per trarne talune linee guida», e che «[c]apire e conoscere la CEDU significa comprendere la portata e le tecniche che ne consentono concretamente l’applicazione ed attuazione nelle singole vicende processuali».

Affermazioni, ci sembra, che possono riferirsi con la medesima pertinenza anche all’opera qui presentata, mostrando  un primo elemento che – soprattutto alla luce del tempo e delle vicende intercorse – tende a distinguere, o comunque a caratterizzare in modo più accentuato, il volume di Roberto Conti rispetto a precedenti scritti (alcuni dei quali, in ogni caso, tuttora imprescindibili) che trattavano, almeno in parte, le medesime tematiche (quali ad esempio diversi lavori, anche monografici, di Maria Luisa Padelletti, Nicola Colacino, Marco Comporti, Luigi Condorelli, Luigi Daniele, Antonio Gambaro, Andrea Guazzarotti, Massimo Luciani, Salvatore Salvago, Cesare Salvi).

La stretta “aderenza” della trattazione – anzitutto a livello di impostazione sistematica (non sempre, ovviamente, nei giudizi e nelle prese di posizione dell’A.) – a concrete vicende normative e giurisdizionali vale infatti a conferire al volume anzitutto (ma ovviamente non soltanto) una spiccata e preziosa funzione “informativa” (o forse meglio, e a scanso di equivoci, di alta divulgazione), giacché esso raccoglie ed illustra – per un verso,  in modo ordinato e organico (e sostanzialmente completo, quantomeno nel quadro dell’approccio metodologico di cui sopra); e, per altro verso, con costante tendenza all’approfondimento critico e/o propositivo (…ecco perché “non soltanto”) – tutti gli elementi normativi e giurisprudenziali di maggior rilievo con riguardo al tema di fondo.

Tema che – tentando di formularne una sorta di definizione appena un po’ più precisa (per quanto sgraziata; ma non si tratta qui, fortunatamente, di scrivere un titolo) – potrebbe forse indicarsi come quello dello sfaccettato, effettivo regime della proprietà (per inciso: scontando la pluralità di nozioni cui tale termine rimanda, ed i connessi problemi) quale ricostruibile rivolgendo l’attenzione alle diverse “sedi” (appunto normative e giurisdizionali) del complesso, ma al contempo sempre più integrato, circuito giuridico “multilivello” (e sia consentito, per mera comodità e senza alcuna implicazione, il ricorso all’amato/odiato aggettivo non accompagnato dal consueto corredo di riferimenti e precisazioni).

A quest’ultimo proposito, va precisato che, sebbene il titolo faccia riferimento al solo “fronte” della CEDU, non mancano affatto allargamenti di indagine, e istruttivi momenti di confronto, rivolti all’altro fronte – quello “eurounitario” (…se ancora occorrono le virgolette) – dell’integrazione europea.

Si veda anzitutto, in questa seconda (ma ovviamente collegata) prospettiva, il Capitolo IX, nel quale si rende conto, tra l’altro, del ruolo dell’art. 17 della Carta… di Nizza[1], in particolare con riguardo a diverse questioni relative alla “giusta indennità”: approfondimento assai istruttivo, laddove ad esempio mostra il rilievo che possono in concreto assumere aspetti apparentemente marginali e talora trascurati, come quelli relativi ai tempi del pagamento dell’indennizzo e alle ricadute, in termini di maggior danno, di eventuali ritardi.

Ma si veda anche, in alcune sue parti significative, il Capitolo X, non a caso intitolato “Conclusioni in progress” e proiettato – almeno con brevi cenni mirati – anche verso questioni più generali relative ad alcuni recenti, o imminenti, sviluppi nei rapporti tra diversi ordinamenti e sistemi, tra cui la controversa questione della “comunitarizzazione della CEDU per effetto dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona” (senza che la formula, pur utilizzata dall’Autore, implichi l’adesione ad alcune affrettate ricostruzioni affacciatesi nella giurisprudenza soprattutto amministrativa ma poi fermamente e puntualmente “smontate”, con stringenti argomenti, dalla Corte costituzionale, oltre che dalla dottrina).

Quanto ai restanti capitoli, nell’impossibilità di rendere conto – anche solo attraverso una sorta di (comunque poco utile) elencazione – di tutte le specifiche vicende e questioni toccate (la cui ampiezza e ricchezza rappresenta, come si diceva, un aspetto caratterizzante, e per molti versi il punto di forza, della trattazione), si vuol quantomeno richiamare l’attenzione – sorvolando sulle decine e decine di pagine dedicate, con dovizia di riferimenti e riflessioni, all’occupazione acquisitiva, all’art. 43 t.u. espropriazione e alle connesse, evoluzioni (e involuzioni) normative e giurisprudenziali – su due capitoli forse di ancor più ampio respiro (e comunque di notevole interesse): il Capitolo III, nel quale – muovendosi chiaramente su un “campo minato”, ma con strumenti e approcci per più profili innovativi, collegati alla particolare prospettiva entro cui la riflessione si colloca –  si torna “coraggiosamente” ad affrontare la “vecchia” (ma tutt’altro che superata) questione della “funzione sociale” della proprietà; e il Capitolo VIII, nel quale – sempre prendendo le mosse da (e… andando poi a ricollegarsi a) concrete vicende giurisprudenziali (quali in particolare, per un verso, le sentenze della Corte di cassazione dell’11 novembre 2008, nn. 26972-75; e, per l’altro, la sentenza del Consiglio di Stato del 2 novembre 2011, n. 5844) e da puntuali previsioni normative (quali soprattutto quelle di cui all’art. 42-bis t.u. espropriazione), ma toccando anche delicate questioni teoriche di fondo riconducibili alla ricostruzione del diritto di proprietà come “diritto umano” – si sviluppa una riflessione sulla riconoscibilità di un danno non patrimoniale da perdita (o lesione) della proprietà.

Si tratta, come può intuirsi, di temi e problemi molto complessi, delicati e densi di ricadute più generali, di notevole interesse e rilievo anche e anzitutto sotto il profilo costituzionale.

Ciò che in proposito – ma anche a mo’ di conclusione di queste modeste osservazioni – sembra potersi ribadire, senza addentrarsi (almeno in questa sede) in puntuali questioni di merito, è che la trattazione, anche in tali “passaggi” più impegnativi, non smette di trarre al contempo sostegno e stimolo da vicende concrete, spesso di grande attualità, rappresentando già per questo (nei suoi passaggi ricostruttivi così come nelle riflessioni che a tali passaggi spesso si intrecciano, o che ad essi, in diversi punti, si affiancano con maggior agio) un prezioso strumento di conoscenza e approfondimento critico tanto del tema specifico (o dei temi specifici) oggetto di esame quanto dei più generali “sviluppi ordinamentali” in atto in questi anni (e che costituiscono, come si accennava, non soltanto lo “sfondo” del volume, ma, in qualche modo e misura, un suo “oggetto implicito”).

E ciò per le molte e importanti “domande” che la trattazione pone, o induce a porsi, non meno che per le “risposte” (magari “in progress”) che essa offre al lettore; oltre che, naturalmente, e prima ancora, per il ricco quadro giurisprudenziale ricostruito dall’Autore con l’attenzione, l’impegno e la passione che – come si è ricordato in apertura (e come, libro alla mano, si torna con piacere a constatare in chiusura) – gli sono proprie.

[1] Per ragioni ideali, storiche e giuridiche illustrate altrove (e troppo lunghe da riportare), chi scrive ritiene tutto sommato più corretto e opportuno continuare a chiamare, in breve, così la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, anziché, come nel libro preferisce fare l’Autore, “Carta di Nizza-Strasburgo”. Si tratta, ovviamente, di opzioni e preferenze del tutto personali.


Il controllo giurisdizionale sulle misure europee di contrasto alla proliferazione nucleare in Iran (II)

Così come la sentenza del Tribunale del 7 dicembre 2011, T‑562/10, HTTS Hanseatic Trade Trust & Shipping GmbH, sulla quale ci si è già soffermati, anche la sentenza della Corte di giustizia del 21 dicembre 2011, causa C‑72/11, Afrasiabi e a. si inserisce nel filone delle decisioni attraverso cui è garantito il sindacato giurisdizionale (in questo caso non ai fini del controllo di validità, ma a fini interpretativi, su rinvio pregiudiziale ad opera di un giudice tedesco) sulle misure restrittive adottate a livello europeo nell’ambito della politica estera e di sicurezza comune, in attuazione di risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
Se in precedenti vicende – in particolare nel celebre caso Kadi – i giudici comunitari erano intervenuti, con decisioni di grandissima importanza a livello generale, sulle misure adottate nell’ambito della lotta contro il terrorismo internazionale legato a Osama bin Laden, qui (come pure nel caso HTTS) sono invece prese in considerazione misure adottate allo scopo di esercitare pressioni sulla Repubblica islamica dell’Iran affinché quest’ultima ponga fine alle attività nucleari che presentino un rischio di proliferazione e alle attività di sviluppo di sistemi di lancio di armi nucleari.

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Il controllo giurisdizionale sulle misure europee di contrasto alla proliferazione nucleare in Iran (I)

Tanto la sentenza del Tribunale dell’Unione del 7 dicembre 2011, T‑562/10, HTTS Hanseatic Trade Trust & Shipping GmbH, quanto la sentenza della Corte di giustizia del 21 dicembre 2011, causa C‑72/11, Afrasiabi e a., si inseriscono in quell’ormai consolidato e nutrito “filone” di decisioni attraverso cui viene garantito il controllo giurisdizionale sulle misure restrittive adottate a livello europeo nell’ambito della politica estera e di sicurezza comune in attuazione di risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
In questo contributo, fatta qualche necessaria premessa più generale, si illustrerà brevemente la sentenza del 7 dicembre. Nell’altro “parallelo” e omonimo contributo – “Il controllo giurisdizionale sulle misure europee di contrasto alla proliferazione nucleare in Iran (II)” – ci si soffermerà su quella del 21 dicembre.
Nella sentenza HTTS del 7 dicembre, come nel celebre “leading case” Kadi (v. subito oltre per qualche cenno di riepilogo), l’intervento degli organi giurisdizionali europei avviene ai fini del controllo di validità delle misure controverse (non così nella decisione Afrasiabi del 21 dicembre, non per questo meno interessante): in questo caso, si trattava di misure adottate allo scopo di esercitare pressioni sulla Repubblica islamica dell’Iran affinché quest’ultima ponga fine alle attività nucleari che presentino un rischio di proliferazione e alle attività di sviluppo di sistemi di lancio di armi nucleari.

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La Corte costituzionale annulla, per contrasto con l’art. 117, c.1 (-> art. 7 CEDU -> giurisprudenza di Strasburgo), la previsione di applicazione retroattiva della confisca del veicolo per guida in stato di ebbrezza

Merita di essere segnalata la sentenza n. 196/010 della Corte costituzionale italiana (sentenza – è bene anticipare – di accoglimento parziale sul piano tecnico, formale; ma di accoglimento pieno nella sostanza, almeno rispetto alle censure formulate dal ricorrente).

Oggetto della questione era, essenzialmente, l’art. 186, c. 2, lett. c), del codice della strada nel testo novellato nel 2008 (art. 4 del d.l. 92/ 2008, convertito con modificazioni nella legge n. 125 del 2008). Il dubbio di legittimità costituzionale nasceva da ciò: per effetto delle modifiche introdotte nel 2008, si prevedeva (e si prevede tuttora) la confisca obbligatoria del veicolo (con cui è stato commesso il reato, e se non appartenente a terzi) in caso di condanna per guida in stato di ebbrezza determinato dall’uso di bevande alcoliche (quando il tasso alcolemico accertato risulti superiore a 1,5 grammi per litro di sangue), [lo stesso nell’ipotesi, che qui però non rilevava ed è quindi rimasta formalmente impregiudicata, di condanna per guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti (art. 187 del codice della strada)].
E fin qui nessun problema.

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