La direttiva in materia di salari minimi adeguati nella Unione europea

Il tema della retribuzione è centrale nel dibattito nazionale ed europeo.
La Commissione Europea, nell’ottobre del 2020, ha avanzato una proposta di direttiva volta a garantire ai lavoratori dei Paesi dell’Unione un trattamento retributivo che sia equo e adeguato, in conformità alle numerose fonti internazionali ed europee tra cui l’art. 4 della Carta sociale europea, l’art. 31 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, la convenzione O.I.L. n. 131 del 1970, nonché a dare attuazione al principio 6 del Pilastro europeo dei diritti sociali e a quanto previsto nelle direttive 2006/54/CE e 2000/78/CE rispettivamente in materia di pari opportunità e parità di trattamento fra uomini e donne nell’occupazione e nell’impiego e di parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.
In merito è stato, inoltre, raggiunto un accordo politico provvisorio tra il Consiglio e il Parlamento europeo il 7 giugno 2022.
Il testo è stato recentemente approvato dal Parlamento Europeo il 14 settembre 2022, nonché dal Consiglio il 4 ottobre 2022. La direttiva entrerà in vigore trascorsi venti giorni dalla sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale e i Paesi membri avranno due anni per conformarsi.
La direttiva in esame rappresenta il primo intervento d’iniziativa legislativa in materia retributiva, essendovi state in precedenza solo raccomandazioni europee sul contenimento delle dinamiche salariali.
Tutto ciò poiché l’art. 153 par. 5 del TFUE esclude l’intervento diretto dell’Unione sul livello delle retribuzioni.
Sono però ammessi, secondo l’art. 153 par 1 lett. b) del TFUE, interventi di coordinamento tra le varie discipline nazionali in relazione alle condizioni di lavoro.
In passato la Corte di Giustizia ha già ricompreso i livelli retributivi in predetta categoria ricorrendo al principio di non discriminazione.
La previsione non è, infatti, volta all’istituzione di unico meccanismo di determinazione salariale ma lascia, invece, i diversi Stati membri liberi di scegliere le modalità di attuazione con cui garantire tale trattamento minimo adeguato quali la contrattazione collettiva e il salario minimo legale.
La finalità di un simile intervento è quella di contrastare il diffondersi dei bassi trattamenti retributivi e del dumping salariale in ambito europeo.
Tale fenomeno risulta essere maggiormente diffuso, secondo la relazione allegata alla proposta, nei Paesi in cui sono previsti salari minimi legali nazionali.
Infatti, nel testo si evidenzia come in molti Stati membri la retribuzione fissata per legge risulti essere «inferiore al 60% del salario lordo mediano e/o al 50% del salario loro medio», al contrario gli Stati membri caratterizzati da una copertura della contrattazione collettiva elevata hanno percentuali inferiori di lavoratori con basse retribuzioni e salari minimi più elevati.
Come anticipato, però, i diversi Paesi potranno conseguire gli obiettivi previsti sia con il ricorso alla determinazione legale del salario minimo che con la contrattazione collettiva.
La direttiva prevede che i Paesi in cui è presente un salario minimo legale debbano adottate misure necessarie atte a garantire criteri stabili e chiari per la determinazione e l’aggiornamento del trattamento retributivo minimo, anche con la partecipazione delle parti sociali.  Con l’accordo del 7 giugno 2022 il Consiglio e il Parlamento europeo hanno stabilito, inoltre, che i salari minimi legali dovranno essere aggiornati al massimo ogni due anni (quattro anni laddove i paesi utilizzino un meccanismo di indicizzazione automatica).
In merito alla contrattazione collettiva la proposta originariamente riteneva sufficiente una copertura della contrattazione collettiva pari ad almeno il 70% dei lavoratori, tale soglia, a seguito dell’accordo intervenuto il 7 giugno 2022, è stata alzata all’80%. È previsto, inoltre, che il mancato raggiungimento della soglia comporti la definizione di un piano d’azione pubblico volto alla sua promozione, sentite le parti sociali.
Le tutele ivi previste saranno rivolte a tutti coloro che rientrino nella definizione di lavoratore per il diritto nazionale e stante la giurisprudenza della CGUE in materia (C-256/01). Rimarrebbero, pertanto, esclusi i lavoratori autonomi.
Gli Stati membri, al fine di dare effettiva attuazione a quanto stabilito nella direttiva, dovranno adottare misure idonee a garantire l’accesso dei lavoratori alla tutela, anche attraverso meccanismi di ispezione e controllo così da perseguire eventuali inosservanze (art. 8 della proposta della proposta di direttiva), nonché garantire il diritto di ricorso del lavoratore in caso di violazioni (art. 11 della proposta di direttiva) e sanzioni effettive proporzionate e dissuasive (art. 12 della proposta di direttiva). Con l’accordo del 7 giugno 2022 il Consiglio ed il Parlamento europeo hanno concordato ulteriori misure volte a garantire l’accesso effettivo alla misura quali controlli da parte degli ispettorati del lavoro nazionali, informazioni riguardanti la tutela che siano facilmente accessibili e lo sviluppo delle capacità delle autorità responsabili dell’applicazione di perseguire i datori di lavoro non conformi.
Come anticipato, il dibattito circa l’adeguatezza dei salari ha interessato anche l’ordinamento interno. Nel corso degli ultimi anni sono numerosi i disegni di legge che si sono susseguiti in materia.
L’art. 36 Cost. sancisce il principio della giusta retribuzione secondo cui il lavoratore ha diritto ad essere retribuito proporzionalmente alla quantità e qualità del suo lavoro e sufficientemente in modo da garantire a lui e alla sua famiglia una vita libera e dignitosa. La norma non stabilisce, però, in quale modo questo debba principio essere perseguito.
Attualmente un ruolo centrale è svolto dalla contrattazione collettiva di diritto comune. Seppur con i limiti dovuti alla mancata applicazione della seconda parte dell’art. 39 Cost. e un livello di sindacalizzazione che si attesta circa al 33-35% il livello di copertura dei contratti collettivi è intorno all’80% (S. Leonardi, Salario minimo e ruolo del sindacato: il quadro europeo fra legge e contrattazione, in LD XXVIII n. 1, 2014, pag. 202), risultando, pertanto, coperto dalle tutele, non solo retributive, di detti accordi un numero considerevole di lavoratori. Tutto ciò è dovuto a numerosi interventi sia da parte della giurisprudenza che del legislatore in favore della contrattazione, come l’utilizzo quale parametro presuntivamente adeguato ex art. 36 Cost. dei minimi tabellari in questa presenti ovvero l’obbligo di assumere come base di calcolo dei contributi di previdenza e di assistenza sociale una retribuzione non inferiore all’importo delle retribuzioni dei contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale (art. 1, co. 1, d.l. 9.10.1989, n. 338, conv. con mod. dalla l. 7.12.1989, n. 389).
Tale sistema non è, però, privo di problemi, tra questi certamente vi è l’insufficienza degli interventi giurisprudenziali ex art. 2099 c.c. e il loro soggettivismo, nonché la diffusione di contratti collettivi stipulati da associazioni sindacali di dubbia rappresentatività che sfruttano il principio di libertà sindacale al fine di ridurre in modo significativo le tutele, economiche e non, presenti nella contrattazione portata avanti dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative.
Pertanto, ci si è interrogati circa la possibilità di introdurre in Italia un salario minimo legale ovvero dotare di un’efficacia generale i minimi tabellari presenti nei contratti collettivi.
Un qualsiasi intervento in tal senso, però, rischierebbe, se non accuratamente valutato, di violare il principio di libertà sindacale sancito dal co. 1 dell’art. 39 Cost.
Infatti, qualora si optasse per la determinazione legale della retribuzione da parte del legislatore questo non potrebbe non tener conto della mancanza di categorie predeterminate dalla legge, individuate ad ora dagli stessi contratti collettivi, né del rischio di privare la contrattazione collettiva di una sua fondamentale funzione.
Nel caso in cui, invece, si optasse per un’estensione di efficacia della retribuzione presente negli accordi stipulati dalle parti sociali ovvero una loro partecipazione nella determinazione del salario minimo legale si porrebbe il problema dell’identificazione delle associazioni sindacali e datoriali a ciò deputate.
Infine, in assenza di maggior controlli e sanzioni effettive non verrebbe in ogni caso risolto il problema relativo al c.d. lavoro nero.
Come è possibile evincere da questa breve analisi, l’adozione della direttiva non risolverebbe allo stato attuale il problema. Questa, infatti, tralascia di definire parametri volti a valutare quali contratti collettivi garantiscano una retribuzione adeguata, prevedendo una semplice presunzione di adeguatezza al superamento della soglia di copertura. In Italia, una simile lacuna, come evidenziato anche dal CNEL, comporterebbe l’applicazione di contratti collettivi stipulati da organizzazioni di scarsa rappresentatività i cui trattamenti salariali siano molti bassi.


La Corte costituzionale interviene ancora sulla «irragionevole» riforma dei licenziamenti: illegittima la «manifesta» insussistenza del fatto nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo

1. Lunghe e travagliate – seppur con tutta probabilità felici, almeno per quanto attiene alla legalità costituzionale così ripristinata – appaiono le vicende processuali che sono seguite al licenziamento di M. P., lavoratore di una industria chimica di Ravenna: a un anno preciso dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della sentenza n. 59 del 2021, la Corte costituzionale, su impulso dello stesso giudice a quo, è infatti tornata a dichiarare costituzionalmente illegittima parte della normativa sui licenziamenti introdotta dalla c.d. riforma “Fornero”.
Se infatti, circa un anno prima, i giudici della Consulta avevano rilevato l’illegittimità di quella discrezionalità che la riforma lasciava al giudice nel reintegrare o meno il lavoratore sottoposto a licenziamento per un giustificato motivo oggettivo rilevatosi manifestamente insussistente, evidenziando come essa si ponesse in contrasto con i principi costituzionali di eguaglianza e ragionevolezza (sul punto si consenta il rimando a tale intervento in questo stesso Blog), con la sentenza n. 125 del 19 maggio 2022, la Corte è intervenuta proprio sulla qualificazione dell’insussistenza come «manifesta».
I dubbi del giudice rimettente hanno infatti riguardato il requisito della «manifesta» insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento, interpretata come «assenza – evidente e facilmente verificabile – dei presupposti che legittimano il recesso e come elemento rivelatore del carattere pretestuoso del licenziamento intimato». Il Tribunale rimettente, fatto tesoro degli insegnamenti della Corte, ha proposto ai giudici costituzionali un’ordinanza (più) snella ma basata su quei parametri costituzionali e su quelle argomentazioni che avevano trovato una sponda feconda presso la Consulta: eguaglianza e (quindi) ragionevolezza delle norme impugnate.
Vari comunque restano secondo il giudice a quo i parametri possibilmente violati, rinvenibili dagli artt. 1, 3, 4, 24 e 35 della Costituzione: in primis, secondo il rimettente, vi sarebbe un contrasto con l’art. 3, co. 1, con riferimento alla disparità di trattamento tra il licenziamento intimato per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, dove l’insussistenza del fatto non è «manifesta», rispetto alla disciplina del licenziamento determinato da un giustificato motivo oggettivo (connesso a ragioni economiche, produttive e organizzative), in cui l’insussistenza del fatto doveva essere appunto tale. Altra disparità – a parere del rimettente – illegittima risiederebbe in termini simili tra licenziamenti economici individuali e collettivi. Inoltre, sarebbe contraria a Costituzione anche l’indeterminatezza dei criteri con cui stabilire la «manifesta» infondatezza, con evidenti ricadute sulla prevedibilità delle decisioni giudiziali, su poteri discrezionali abnormi affidati al giudice che rimane «privo di criteri applicativi oggettivi» e sugli oneri di prova negativa cui era sottoposto il lavoratore, con conseguente violazione del diritto al lavoro, dell’eguaglianza sostanziale e del diritto di difesa (rispettivamente, artt. 1, 4 e 35; art. 3 co. 2; art. 24 Cost.).

2. Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è, come evidenziato dalla stessa Corte, un «licenziamento individuale per motivo economico» (§ 1.2) in quanto fondato su «ragioni inerenti all’attività̀ produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa» (art. 3, l. n. 604/1966). La legge prevede espressamente, all’art. 5 l. n. 604/1966, che l’onere della prova sia a carico del datore di lavoro, il quale è quindi tenuto a dimostrare la sussistenza del fatto materiale giustificatore del recesso, dovendo dichiararne le ragioni, provarne il nesso di causalità nonché l’inevitabilità (c.d. obbligo di repêchage). Il controllo giudiziale, però, come affermato da autorevole dottrina (Santoro-Passarelli), non è mai stato agevole poiché il giudice è tenuto a valutare la sussistenza di dette ragioni senza poter entrare nel merito delle scelte imprenditoriali. Il quadro si è reso ancor più complesso a seguito della modifica intervenuta con la l. n. 92/2012, la quale ha distinto la tutela applicabile a seconda che il fatto sia manifestamente insussistente (tutela reintegratoria, obbligatoria a seguito della sentenza n. 59 del 2021), ovvero le altre ipotesi in cui tale giustificato motivo non ricorra (tutela risarcitoria). Tale differenziazione è, quindi, volta a circoscrivere la reintegrazione ai vizi più gravi, non fornendo però alcun criterio per la loro identificazione (§ 8).
La Consulta, nella pronuncia in esame, evidenzia, infatti, come tale elemento della fattispecie sia rimesso alla scelta discrezionale dei giudici in quanto richiede «un apprezzamento imprevedibile e mutevole, senza alcuna indicazione utile a orientarne gli esiti» (§ 9.1), rimettendo «la scelta tra due forme di tutela profondamente diverse [...] a una valutazione non ancorata a precisi punti di riferimento, tanto più necessari quando vi sono fondamentali esigenze di certezza, legate alle conseguenze che la scelta stessa determina» (§ 9.1). Inoltre, la dimostrazione del carattere manifesto dell’insussistenza spetterebbe al lavoratore, invertendo in questo modo, e irragionevolmente, a parere della Corte, l’onere della prova (§ 1.1; 1.6).
Secondo i giudici costituzionali, pertanto, «la sussistenza di un fatto non si presta a controvertibili graduazioni in chiave di evidenza fenomenica, ma evoca piuttosto una alternativa netta, che l’accertamento del giudice è chiamato a sciogliere in termini positivi o negativi» (§ 9.2), risultando diversamente irragionevole (§ 8; 10.2).
L’attuale disciplina, secondo le predette valutazioni, è stata considerata incostituzionale. A seguito della pronuncia in esame, quindi, risulta espunta dalla norma la qualificazione del fatto, poiché una valutazione di detto requisito da parte del giudice sarebbe «sfornita di ogni criterio direttivo e per di più priva di un plausibile fondamento empirico» (§ 9.2).
La sentenza, se da un lato certamente risolve il problema relativo alla discrezionale e libera valutazione del fatto giudicato insussistente, posto a fondamento del licenziamento, dall’altro lascia, però, aperte numerose questioni. Necessario è, infatti, domandarsi, a seguito di tale “pulizia” del testo se, e quale, differenziazione rimanga tra le due fattispecie previste dal comma 7 dell’art. 18, e conseguentemente, «cosa significhi fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo» (art. 18, comma 7, l. n. 300/1970). Tale questione, non affrontata dalla Corte, dovrà, quindi, essere risolta ricorrendo all’interpretazione del testo da parte della dottrina e della giurisprudenza.

3. I giudici della Corte, tra gli argomenti proposti, hanno ritenuto fondato e più liquido quello dell’irragionevolezza, assorbendo i restanti.
Innanzitutto la Corte evidenzia, con particolare enfasi, la propria «costante» giurisprudenza sulla fondazione del diritto del lavoratore di non essere ingiustamente licenziato «sui principi enunciati dagli artt. 4 e 35 Cost. e sulla speciale tutela riconosciuta al lavoro in tutte le sue forme e applicazioni, in quanto fondamento dell’ordinamento repubblicano». Illustra poi come l’attuazione di tali principi costituzionali sia sì demandata alla discrezionalità del legislatore, ma entro il «rispetto dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza».
Ed è proprio tali principi che la Corte rinviene violati, evidenziando come, in un sistema che già preclude il sindacato del giudice sulle scelte imprenditoriali (cfr. § 8 del considerato in diritto), la previsione del carattere manifesto di una insussistenza del fatto presenti «i profili di irragionevolezza intrinseca già posti in risalto nella sentenza n. 59 del 2021». Il carattere manifesto è, secondo la Corte, innanzitutto «indeterminato», con la conseguenza di prestarsi «a incertezze applicative» che mal si conciliano con la rigida binarietà fenomenica evidenziata e che conducono «a soluzioni difformi, con conseguenti ingiustificate disparità di trattamento»: il margine interpretativo, lungi dallo svolgere quel ruolo positivo di adattamento della fattispecie astratta al caso di specie, diventa motivo di illegittimità costituzionale.
Insomma, o il fatto sussiste o non sussiste, tertium non datur: l’evidenza dello stesso in giudizio non ha alcuna attinenza con il livello di disvalore del licenziamento intimato e con la dignità della persona del lavoratore ingiustamente licenziato che le norme costituzionali impongono di salvaguardare (§ 8, 10.1).
Aggiunge poi la Corte che tale indeterminatezza si riverbera anche sul processo complicandone taluni passaggi, «con un aggravio irragionevole e sproporzionato» poiché oltre «all’accertamento, non di rado complesso, della sussistenza o della insussistenza di un fatto, essa impegna le parti, e con esse il giudice, nell’ulteriore verifica della più o meno marcata graduazione dell’eventuale insussistenza», vanificando così l’obiettivo dichiarato dal legislatore di rapidità e prevedibilità dei contenziosi e provocando un’ulteriore irragionevolezza dovuta allo «squilibrio tra i fini enunciati e i mezzi in concreto prescelti» (§ 10.3).

4. Ulteriori interrogativi emergono anche dall’utilizzo, ormai “disinvolto”, della categoria della irragionevolezza nel giudizio costituzionale come ragione più liquida e non come ultima ratio. Sulla materia dei licenziamenti, come è noto, si è molto insistito in dottrina (cfr. Pessi, I licenziamenti per motivi economici, in Arg. Dir. Lav., 4-5, 2013, p. 754), ma anche nella giurisprudenza costituzionale (ex multis, sentt. n. 59 del 2021, n. 150 del 2020 e n. 194 del 2018), sul margine di discrezionalità lasciato al legislatore. La Corte sembra voler dire come nelle materie “discrezionali” la stessa sembra dover retrocedere a quel controllo sull’«abuso della funzione legislativa» piuttosto che sul vero e proprio utilizzo della «costituzione come parametro di validità» (Zagrebelsky). A tal proposito, occorre tuttavia evidenziare dei rischi: nei casi in cui la Carta presenti numerose e precise norme – come nel caso del diritto al lavoro – l’utilizzo prima e unica facie del parametro dell’irragionevolezza rischia, da un lato, di creare indeterminatezza, e dall’altro di ridurre la capacità di indirizzo del legislatore futuro, stante l’operatività che le sentenze della Corte hanno in quanto esplicitazione del dettato costituzionale.
Appare di rilievo, con riguardo al primo pericolo, che nella precedente e citata sentenza (n. 59/2021) il requisito della manifesta insussistenza fosse utilizzato come elemento, a fortiori, per la dichiarazione di incostituzionalità della mera facoltà di reintegrazione: «le peculiarità delle fattispecie di licenziamento […] non legittimano una diversificazione quanto alla obbligatorietà o facoltatività della reintegrazione, una volta che si reputi l’insussistenza del fatto meritevole del rimedio della reintegrazione e che, per il licenziamento economico, si richieda finanche il più pregnante presupposto dell’insussistenza manifesta». Se ne dovrebbe dedurre che, di fronte alla sentenza in commento, la norma precedentemente oggetto di censura diventi un po’ meno irragionevole?
Appare inoltre chiaro che una pronuncia di illegittimità costituzionale per irragionevolezza della normativa non presenti la stessa “forza orientatrice” rispetto a una decisione che sottoponga a scrutinio i diversi e più costituzionalmente radicati dubbi del giudice rimettente. Certamente, non si ignora che il tasso di esposizione politica della Corte possa essere diverso nei due casi: ma è sicuramente diverso anche il grado di garanzia e certezza dei diritti, soprattutto pro futuro, che in tal modo si garantisce.


L’efficacia diretta dell’art. 157 TFUE nei rapporti di lavoro tra privati: la parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e femminile

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con la sentenza del 3 giugno 2021 (C-624/2019), si è espressa in merito alla diretta applicabilità dell’art. 157 TFUE ai rapporti di lavoro tra privati. La questione in oggetto riguarda il diritto o meno dei lavoratori di sesso femminile a vedersi riconosciuto un trattamento economico pari a quello spettante ai lavoratori di sesso maschile impiegati da uno stesso datore di lavoro presso centro diversi.
La Corte già in precedenti pronunce ha affrontato questioni analoghe (in particolare Defrenne, EU:C:1976:56), distinguendo ipotesi in cui tali discriminazioni sono facilmente accertabili con criteri di identità del lavoro e parità di retribuzione ovvero ipotesi in cui è, invece, necessaria una disciplina attuativa Europea o nazionale poiché il giudice non è in grado di procurarsi tutti gli elementi di fatto necessari ad effettuare la valutazione di specie.
La sentenza in esame, pertanto, riconoscendo all’art. 157 TFUE, in tutte le sue parti, una diretta efficacia, amplia ulteriormente l’ambito di applicazione della norma. In particolare, le lavoratrici della Tesco Stores, con sede in Inghilterra, sostenevano che il lavoro dalle stesse svolto fosse di pari valore, nonché confrontabile, a quello dei lavoratori di sesso maschile di sedi diverse, risultando, quindi, applicabili condizioni di lavoro comuni e, conseguentemente, un diritto ad un uguale trattamento retributivo.
L’art. 157 TFUE, infatti, prevede che «1. Ciascuno Stato membro assicura l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore. 2. Per retribuzione si intende, a norma del presente articolo, il salario o trattamento normale di base o minimo e tutti gli altri vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell’impiego di quest’ultimo. La parità di retribuzione, senza discriminazione fondata sul sesso, implica: (...) b) che la retribuzione corrisposta per un lavoro pagato a tempo sia uguale per uno stesso posto di lavoro. (...)».
La parità di retribuzione, intesa come trattamento economico di base e relativa a tutti i vantaggi ulteriori percepiti, impone un divieto di discriminazione in base al sesso, per l’attività svolta, con pari lavoro e tempo, in favore di uno stesso datore di lavoro. Tale attuale definizione è stata ampliata dall’art. 2, co. 1°, lett. e) della Direttiva n. 2006/54/CE che ha ricompreso nel concetto di retribuzione «ogni erogazione, in denaro o in natura, attuale o futura, corrisposta direttamente o indirettamente dal datore di lavoro in ragione dell’impiego del lavoratore o della lavoratrice» (Lazzeroni L., Parità di trattamento e divario retributivo (di genere) in RGL n. 2 pt. 1, 2019). Depone nello stesso senso prospettato quanto previsto nell’ordinamento inglese all’art. 79 dell’Equality Act 2010, il quale disciplina, al paragrafo 4, la comparabilità in materia di trattamento retributivo: «[…] Se A è assunto come dipendente, B è un soggetto con cui può essere effettuato un raffronto qualora si applichino i paragrafi 3 o 4. […] a) B è assunto dal datore di lavoro di A o da un soggetto collegato al datore di lavoro di A, b) B lavora in una sede diversa da quella in cui lavora A, e c) nelle sedi si applicano condizioni di lavoro comuni (in generale o tra A e B)».
Ciò posto, le ricorrenti hanno citato in giudizio la Tesco Stores, davanti al Watford Employment Tribunal, sostenendo la violazione, da parte della società, sia della legge inglese del 2010, sia dell’art. 157 TFUE.
La società contestava da un lato l’applicabilità, al caso di specie, dell’art. 79 par. 4 dell’Equality Act, sostenendo la mancanza di condizioni di lavoro comuni, dall’altro la diretta efficacia dell’art. 157 TFUE nel caso di azioni fondate su un lavoro di pari valore, nonché la sua qualificazione come unica fonte. Il giudice di rinvio, rilevando un’incertezza in merito all’applicabilità diretta dell’art. 157 TFUE, ha sollevato la questione pregiudiziale davanti alla CGUE chiedendo a quest’ultima di accertare se, nel caso di specie, al fine di definire il concetto di lavoro di pari valore, fossero o meno necessarie disposizioni di attuazione più precise.
Occorre, quindi, analizzare la formulazione dell’art. 157 TFUE al fine di capire se l’applicazione diretta del principio di parità di retribuzione tra lavoratori di sesso diverso sia limitata ad ipotesi in cui il lavoro è il medesimo ovvero la normativa abbia carattere imperativo anche con riferimento al lavoro di pari valore.
La Corte, nella ricostruzione della disciplina operata nel caso di specie, non sembra evidenziare alcuna differenza nell’applicazione del principio della parità di trattamento tra le ipotesi in cui si tratti di stesso lavoro o di lavoro di pari valore, sorgendo in capo agli Stati membri, in entrambi i casi, «in modo chiaro e preciso, un obbligo di risultato». Pertanto, stante il riconoscimento di una diretta efficacia della disposizione, i singoli appaiono titolari di un diritto che i giudici nazionali sono chiamati a tutelare.
Nello specifico, per stesso lavoro si intende una prestazione lavorativa svolta presso la stessa azienda da lavoratori adibiti alle medesime mansioni; si configura, invece, un lavoro di pari valore nel caso di prestazioni analoghe. Secondo i giudici, pertanto, sia il concetto di “medesime mansioni” svolte che di “lavoro di pari valore”, ha, quindi, «carattere puramente qualitativo», rilevando solo la natura delle prestazioni in concreto svolte dai lavoratori. È, perciò, devoluta al giudice nazionale la valutazione in ordine all’integrazione di detto requisito, a fronte dell’accertamento delle mansioni effettivamente svolte dai prestatori. Eventuali distinzioni, in merito alla diretta efficacia dell’art. 157 TFUE, tra le due ipotesi, comprometterebbero il raggiungimento dell’obbiettivo perseguito dalla norma.
Ulteriore questione, è rappresentata dalla possibilità o meno di ricondurre ad un’unica fonte rapporti di lavoro in cui i lavoratori svolgano la propria attività presso stabilimenti diversi. Tale punto pare preliminare alla comparabilità o meno del trattamento retributivo tra i lavoratori di sesso diverso e all’eventuale configurarsi di una discriminazione nel caso in cui vi sia una differenza non obiettivamente giustificata.
La Corte ha ritenuto come ricompresa nell’ambito di applicazione dell’art. 157 TFUE l’ipotesi in cui i lavoratori svolgano la propria attività in favore di uno stesso datore, qualificabile, quindi, come unica fonte dei rapporti di lavoro, ancorché presso stabilimenti diversi. Non rileva, quindi, che la prestazione lavorativa venga svolta in negozi, centri o stabilimenti diversi, in quanto è sufficiente che il datore di lavoro sia il medesimo, potendo quest’ultimo liberamente disporre di più sedi nell’organizzazione della propria attività rimanendo però quale unico titolare. La Tesco Stores, pertanto, quale solo datore dei rapporti lavorativi in esame, risulta considerabile quale unica fonte e, perciò, potenzialmente responsabile di eventuali discriminazioni.
L’art. 157 TFUE deve, quindi, essere interpretato, secondo la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, come direttamente applicabile ai rapporti intercorrenti tra i privati anche nelle ipotesi in cui l’attività lavorativa svolta non sia la medesima ma sia considerabile di pari valore. Un privato, pertanto, potrà legittimamente far valere, davanti ad un giudice nazionale l’inosservanza del principio di parità di retribuzione tra lavoratori di sesso diverso, anche nel caso in cui si tratti di lavoro di pari valore svolto presso stabilimenti diversi. Sarà il giudice stesso a stabilire se tali attività possano o meno essere comparabili, alla luce della loro concreta attuazione.
Una diversa lettura della disciplina, come sottolineato dalla Corte stessa, comprometterebbe l’effettività del principio enunciato dalla norma, rischiando di vanificare l’obiettivo da questa perseguito e lasciando privi di tutela diretta tutti quei rapporti in cui l’attività, pur non formalmente identica, sia in concreto analoga.