La Corte costituzionale interviene ancora sulla «irragionevole» riforma dei licenziamenti: illegittima la «manifesta» insussistenza del fatto nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo

1. Lunghe e travagliate – seppur con tutta probabilità felici, almeno per quanto attiene alla legalità costituzionale così ripristinata – appaiono le vicende processuali che sono seguite al licenziamento di M. P., lavoratore di una industria chimica di Ravenna: a un anno preciso dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della sentenza n. 59 del 2021, la Corte costituzionale, su impulso dello stesso giudice a quo, è infatti tornata a dichiarare costituzionalmente illegittima parte della normativa sui licenziamenti introdotta dalla c.d. riforma “Fornero”.
Se infatti, circa un anno prima, i giudici della Consulta avevano rilevato l’illegittimità di quella discrezionalità che la riforma lasciava al giudice nel reintegrare o meno il lavoratore sottoposto a licenziamento per un giustificato motivo oggettivo rilevatosi manifestamente insussistente, evidenziando come essa si ponesse in contrasto con i principi costituzionali di eguaglianza e ragionevolezza (sul punto si consenta il rimando a tale intervento in questo stesso Blog), con la sentenza n. 125 del 19 maggio 2022, la Corte è intervenuta proprio sulla qualificazione dell’insussistenza come «manifesta».
I dubbi del giudice rimettente hanno infatti riguardato il requisito della «manifesta» insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento, interpretata come «assenza – evidente e facilmente verificabile – dei presupposti che legittimano il recesso e come elemento rivelatore del carattere pretestuoso del licenziamento intimato». Il Tribunale rimettente, fatto tesoro degli insegnamenti della Corte, ha proposto ai giudici costituzionali un’ordinanza (più) snella ma basata su quei parametri costituzionali e su quelle argomentazioni che avevano trovato una sponda feconda presso la Consulta: eguaglianza e (quindi) ragionevolezza delle norme impugnate.
Vari comunque restano secondo il giudice a quo i parametri possibilmente violati, rinvenibili dagli artt. 1, 3, 4, 24 e 35 della Costituzione: in primis, secondo il rimettente, vi sarebbe un contrasto con l’art. 3, co. 1, con riferimento alla disparità di trattamento tra il licenziamento intimato per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, dove l’insussistenza del fatto non è «manifesta», rispetto alla disciplina del licenziamento determinato da un giustificato motivo oggettivo (connesso a ragioni economiche, produttive e organizzative), in cui l’insussistenza del fatto doveva essere appunto tale. Altra disparità – a parere del rimettente – illegittima risiederebbe in termini simili tra licenziamenti economici individuali e collettivi. Inoltre, sarebbe contraria a Costituzione anche l’indeterminatezza dei criteri con cui stabilire la «manifesta» infondatezza, con evidenti ricadute sulla prevedibilità delle decisioni giudiziali, su poteri discrezionali abnormi affidati al giudice che rimane «privo di criteri applicativi oggettivi» e sugli oneri di prova negativa cui era sottoposto il lavoratore, con conseguente violazione del diritto al lavoro, dell’eguaglianza sostanziale e del diritto di difesa (rispettivamente, artt. 1, 4 e 35; art. 3 co. 2; art. 24 Cost.).

2. Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è, come evidenziato dalla stessa Corte, un «licenziamento individuale per motivo economico» (§ 1.2) in quanto fondato su «ragioni inerenti all’attività̀ produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa» (art. 3, l. n. 604/1966). La legge prevede espressamente, all’art. 5 l. n. 604/1966, che l’onere della prova sia a carico del datore di lavoro, il quale è quindi tenuto a dimostrare la sussistenza del fatto materiale giustificatore del recesso, dovendo dichiararne le ragioni, provarne il nesso di causalità nonché l’inevitabilità (c.d. obbligo di repêchage). Il controllo giudiziale, però, come affermato da autorevole dottrina (Santoro-Passarelli), non è mai stato agevole poiché il giudice è tenuto a valutare la sussistenza di dette ragioni senza poter entrare nel merito delle scelte imprenditoriali. Il quadro si è reso ancor più complesso a seguito della modifica intervenuta con la l. n. 92/2012, la quale ha distinto la tutela applicabile a seconda che il fatto sia manifestamente insussistente (tutela reintegratoria, obbligatoria a seguito della sentenza n. 59 del 2021), ovvero le altre ipotesi in cui tale giustificato motivo non ricorra (tutela risarcitoria). Tale differenziazione è, quindi, volta a circoscrivere la reintegrazione ai vizi più gravi, non fornendo però alcun criterio per la loro identificazione (§ 8).
La Consulta, nella pronuncia in esame, evidenzia, infatti, come tale elemento della fattispecie sia rimesso alla scelta discrezionale dei giudici in quanto richiede «un apprezzamento imprevedibile e mutevole, senza alcuna indicazione utile a orientarne gli esiti» (§ 9.1), rimettendo «la scelta tra due forme di tutela profondamente diverse […] a una valutazione non ancorata a precisi punti di riferimento, tanto più necessari quando vi sono fondamentali esigenze di certezza, legate alle conseguenze che la scelta stessa determina» (§ 9.1). Inoltre, la dimostrazione del carattere manifesto dell’insussistenza spetterebbe al lavoratore, invertendo in questo modo, e irragionevolmente, a parere della Corte, l’onere della prova (§ 1.1; 1.6).
Secondo i giudici costituzionali, pertanto, «la sussistenza di un fatto non si presta a controvertibili graduazioni in chiave di evidenza fenomenica, ma evoca piuttosto una alternativa netta, che l’accertamento del giudice è chiamato a sciogliere in termini positivi o negativi» (§ 9.2), risultando diversamente irragionevole (§ 8; 10.2).
L’attuale disciplina, secondo le predette valutazioni, è stata considerata incostituzionale. A seguito della pronuncia in esame, quindi, risulta espunta dalla norma la qualificazione del fatto, poiché una valutazione di detto requisito da parte del giudice sarebbe «sfornita di ogni criterio direttivo e per di più priva di un plausibile fondamento empirico» (§ 9.2).
La sentenza, se da un lato certamente risolve il problema relativo alla discrezionale e libera valutazione del fatto giudicato insussistente, posto a fondamento del licenziamento, dall’altro lascia, però, aperte numerose questioni. Necessario è, infatti, domandarsi, a seguito di tale “pulizia” del testo se, e quale, differenziazione rimanga tra le due fattispecie previste dal comma 7 dell’art. 18, e conseguentemente, «cosa significhi fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo» (art. 18, comma 7, l. n. 300/1970). Tale questione, non affrontata dalla Corte, dovrà, quindi, essere risolta ricorrendo all’interpretazione del testo da parte della dottrina e della giurisprudenza.

3. I giudici della Corte, tra gli argomenti proposti, hanno ritenuto fondato e più liquido quello dell’irragionevolezza, assorbendo i restanti.
Innanzitutto la Corte evidenzia, con particolare enfasi, la propria «costante» giurisprudenza sulla fondazione del diritto del lavoratore di non essere ingiustamente licenziato «sui principi enunciati dagli artt. 4 e 35 Cost. e sulla speciale tutela riconosciuta al lavoro in tutte le sue forme e applicazioni, in quanto fondamento dell’ordinamento repubblicano». Illustra poi come l’attuazione di tali principi costituzionali sia sì demandata alla discrezionalità del legislatore, ma entro il «rispetto dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza».
Ed è proprio tali principi che la Corte rinviene violati, evidenziando come, in un sistema che già preclude il sindacato del giudice sulle scelte imprenditoriali (cfr. § 8 del considerato in diritto), la previsione del carattere manifesto di una insussistenza del fatto presenti «i profili di irragionevolezza intrinseca già posti in risalto nella sentenza n. 59 del 2021». Il carattere manifesto è, secondo la Corte, innanzitutto «indeterminato», con la conseguenza di prestarsi «a incertezze applicative» che mal si conciliano con la rigida binarietà fenomenica evidenziata e che conducono «a soluzioni difformi, con conseguenti ingiustificate disparità di trattamento»: il margine interpretativo, lungi dallo svolgere quel ruolo positivo di adattamento della fattispecie astratta al caso di specie, diventa motivo di illegittimità costituzionale.
Insomma, o il fatto sussiste o non sussiste, tertium non datur: l’evidenza dello stesso in giudizio non ha alcuna attinenza con il livello di disvalore del licenziamento intimato e con la dignità della persona del lavoratore ingiustamente licenziato che le norme costituzionali impongono di salvaguardare (§ 8, 10.1).
Aggiunge poi la Corte che tale indeterminatezza si riverbera anche sul processo complicandone taluni passaggi, «con un aggravio irragionevole e sproporzionato» poiché oltre «all’accertamento, non di rado complesso, della sussistenza o della insussistenza di un fatto, essa impegna le parti, e con esse il giudice, nell’ulteriore verifica della più o meno marcata graduazione dell’eventuale insussistenza», vanificando così l’obiettivo dichiarato dal legislatore di rapidità e prevedibilità dei contenziosi e provocando un’ulteriore irragionevolezza dovuta allo «squilibrio tra i fini enunciati e i mezzi in concreto prescelti» (§ 10.3).

4. Ulteriori interrogativi emergono anche dall’utilizzo, ormai “disinvolto”, della categoria della irragionevolezza nel giudizio costituzionale come ragione più liquida e non come ultima ratio. Sulla materia dei licenziamenti, come è noto, si è molto insistito in dottrina (cfr. Pessi, I licenziamenti per motivi economici, in Arg. Dir. Lav., 4-5, 2013, p. 754), ma anche nella giurisprudenza costituzionale (ex multis, sentt. n. 59 del 2021, n. 150 del 2020 e n. 194 del 2018), sul margine di discrezionalità lasciato al legislatore. La Corte sembra voler dire come nelle materie “discrezionali” la stessa sembra dover retrocedere a quel controllo sull’«abuso della funzione legislativa» piuttosto che sul vero e proprio utilizzo della «costituzione come parametro di validità» (Zagrebelsky). A tal proposito, occorre tuttavia evidenziare dei rischi: nei casi in cui la Carta presenti numerose e precise norme – come nel caso del diritto al lavoro – l’utilizzo prima e unica facie del parametro dell’irragionevolezza rischia, da un lato, di creare indeterminatezza, e dall’altro di ridurre la capacità di indirizzo del legislatore futuro, stante l’operatività che le sentenze della Corte hanno in quanto esplicitazione del dettato costituzionale.
Appare di rilievo, con riguardo al primo pericolo, che nella precedente e citata sentenza (n. 59/2021) il requisito della manifesta insussistenza fosse utilizzato come elemento, a fortiori, per la dichiarazione di incostituzionalità della mera facoltà di reintegrazione: «le peculiarità delle fattispecie di licenziamento […] non legittimano una diversificazione quanto alla obbligatorietà o facoltatività della reintegrazione, una volta che si reputi l’insussistenza del fatto meritevole del rimedio della reintegrazione e che, per il licenziamento economico, si richieda finanche il più pregnante presupposto dell’insussistenza manifesta». Se ne dovrebbe dedurre che, di fronte alla sentenza in commento, la norma precedentemente oggetto di censura diventi un po’ meno irragionevole?
Appare inoltre chiaro che una pronuncia di illegittimità costituzionale per irragionevolezza della normativa non presenti la stessa “forza orientatrice” rispetto a una decisione che sottoponga a scrutinio i diversi e più costituzionalmente radicati dubbi del giudice rimettente. Certamente, non si ignora che il tasso di esposizione politica della Corte possa essere diverso nei due casi: ma è sicuramente diverso anche il grado di garanzia e certezza dei diritti, soprattutto pro futuro, che in tal modo si garantisce.