Parlamento Europeo v. Commissione sul caso Ungheria. Le prospettive di una tutela integrata dello stato di diritto attraverso la leva del bilancio UE

1. Lo scorso marzo il Parlamento europeo ha proposto un ricorso contro la decisione della Commissione di procedere allo sblocco di una parte dei fondi di coesione destinati all’Ungheria. Si tratta di 10,2 miliardi di euro che erano stati negati originariamente allo Stato membro per la carente tutela dello stato di diritto. Rispetto a tale decisione, lo scorso dicembre la Commissione ha ritenuto di poter procedere allo sblocco di una parte dei fondi in virtù dell’approvazione di una riforma tesa a rafforzare l’indipendenza giudiziaria e a diminuire le possibilità di interferenza politica nei tribunali, ritenuta conforme alle richieste dell’Unione allo Stato ungherese sulla materia. Ad avviso dei deputati, tali interventi normativi sarebbero ampiamente insufficienti e la decisione avrebbe configurato una forma velata di scambio, data la contestuale minaccia da parte del primo ministro Orbán di porre il veto sugli accordi chiave sull’Ucraina. La Presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola, ha proceduto nella direzione indicata dal Parlamento, presentando il ricorso entro il termine del 25 marzo, secondo la procedura dell’articolo 149 del Regolamento del Parlamento europeo.

2. L’azione riguarda lo sblocco di circa un terzo dei finanziamenti UE (provenienti dai canali dei fondi di coesione e da quelli attivati in risposta alla crisi pandemica) che erano stati originariamente congelati per la violazione da parte dell’Ungheria dello stato di diritto, con particolare riguardo all’indipendenza del giudiziario, al trattamento degli immigrati irregolari e alle norme discriminatorie legate all’orientamento sessuale e all’identità di genere. Nella prospettiva della presidente della Commissione europea lo sblocco parziale sarebbe stato giustificato dalle riforme parzialmente compiute, mentre l’erogazione dei restanti 20 miliardi risulterebbe subordinata alle riforme necessarie a risolvere i residui profili di violazione.
A partire dal 2021 il bilancio dell’Unione Europea ha una protezione nei confronti di violazione dello stato di diritto o di azioni che possano mettere a rischio l’interesse finanziario dell’Unione. Si tratta di un regolamento sulla condizionalità che consente all’Unione di adottare delle misure, quali la sospensione dei pagamenti o la rimodulazione finanziaria a protezione dei propri stanziamenti.
Il finanziamento complessivo congelato all’Ungheria si divide in tre macro-aree: 5,8 miliardi per l’implementazione nazionale del Recovery and Resilience Fund, 22,6 miliardi dei fondi di coesione e 223 milioni di euro degli Home Affairs Fund. La peculiarità della sospensione è che ognuno di questi canali prevede delle procedure diverse per la concessione o il blocco del finanziamento. Quanto ai primi, gli stessi sono stati sospesi sulla base delle 27 milestones individuate dalla Commissione Europea il 30 novembre 2022 da conseguire prima che possa essere concesso il finanziamento dell’Ungheria attraverso il RRF. Maggiormente complesso è il caso dei fondi di coesione. Difatti, tra questi è necessario operare ulteriori distinzioni. Una parte di questi (6,3 miliardi di euro) sono stati bloccati dal Consiglio nel dicembre del 2022 attraverso una decisione che ha applicato il rule of law conditionality mechanism introdotto da Regolamento appena menzionato. Con tale decisione sono stati bloccati la maggior parte (55%) dei finanziamenti attribuiti all’Ungheria all’interno di tre programmi dell’Unione, “Environmental and Energy Efficiency Plus”, “Integrated Transport Plus” e “Territorial and Settlement Development Plus”. Come nei precedenti relativi all’RFF, anche questi stanziamenti sono tutt’ora bloccati. Delle restanti assegnazioni relative alle politiche di coesione, 3,4 miliardi sono bloccati per violazioni di tre condizioni abilitanti sollevate in altrettante controversie tra la Commissione e l’Ungheria. Sono ipotesi di mancato rispetto di requisiti essenziali della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea relativamente alla protezione dei bambini (determinata dalle norme ungheresi anti-Lgbtq+), alla tutela dell’indipendenza universitaria e al trattamento riservato ai richiedenti asilo. L’assenza di ognuno di questi requisiti blocca una percentuale del finanziamento differente e potrebbe essere sanato solo attraverso interventi specifici destinati a risolvere le singole questioni. Infine, uno stanziamento di 12,9 miliardi dei fondi era collegato esclusivamente all’implementazione di riforme del sistema giudiziario ed è quello su cui la Commissione è intervenuta maggiormente nella decisione di “sblocco” del dicembre 2023 (oltre ad una parte degli Home Affairs Funds di complessa individuazione).

3. I parlamentari europei hanno ritenuto che gli interventi sul sistema giudiziario ungherese siano da considerare ampiamente insufficienti al ripristino dello stato di diritto, derivandone l’illegittimità della decisione di sbloccare. Da un punto di vista della domanda giudiziaria, i ricorrenti perseguono l’obiettivo di ottenere una decisione da parte della Corte di revoca della decisione di dicembre di concedere i finanziamenti. Il ricorso dinanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea sembra, tuttavia, dare a tale organo un’opportunità di chiarire il legame tra i finanziamenti europei e la tutela del principio democratico.
La risoluzione approvata dal Parlamento europeo il 18 gennaio 2024, con cui è stato avviato l’iter della causa, considera come assodate le multiple violazioni da parte dell’Ungheria dei valori racchiusi nell’articolo 2 TUE. Questa è ritenuta sussistente in relazione a molteplici profili: la tutela legale di diversi gruppi di persone vulnerabili (donne, LGBTIQ+, Rom, immigrati, richiedenti asilo e rifugiati) è considerata come peggiorata negli ultimi anni, configurandosi una violazione di diritti fondamentali aggravata dall’assenza di istituzioni indipendenti capaci di garantirne la tutela. A tale profilo, la violazione dello stato di diritto è riscontrata anche nell’assenza di autonomia dei media (aggravata dalla riforma adottata nel Dicembre 2023), nella legislazione lavoristica e nell’adozione di norme che contribuirebbero al degrado ambientale del Paese. Rispetto al profilo dell’indipendenza giudiziaria, la riforma adottata nel maggio 2023 è considerata insufficiente, anzitutto perché non interviene nelle possibilità di designazione politica dei più alti livelli del sistema giudiziario del Paese. Un giudizio critico sul rispetto dei valori dell’UE che è stato ribadito nella risoluzione approvata lo scorso 24 aprile. Ad essere oggetto di tale ultima censura sono la recente legge sulla protezione della sovranità nazionale e, in particolare, l’istituzione di un Ufficio per la protezione della sovranità, dalla stessa disposto, cui sono attribuiti poteri ritenuti inconciliabili con il normale funzionamento dello stato di diritto nei contesti democratici.
A sostegno di tali considerazioni si rammentano alcune delle recenti decisioni della Commissione che nel dicembre 2023 è intervenuta a rivalutare, protraendo il blocco dei finanziamenti, sia la decisione di applicare il rule of law conditionality mechanism, sia i residui profili di insussistenza delle condizioni abilitanti, con l’eccezione di quello relativo all’indipendenza del giudiziario. A fronte di una crescente trasformazione dell’Ungheria in un “regime di autocrazia elettorale”, la decisione di concedere questo parziale finanziamento da parte della Commissione è ritenuta, nella prospettiva del Parlamento, contraddittoria. Questo, anzitutto, per la debolezza della riforma adottata nel garantire tutele del sistema giudiziario rispetto all’influenza politica, con particolare riguardo alla presenza di ostacoli alla presentazione di rinvii pregiudiziali e all’allocazione dei casi e alla nomina del Presidente della Kúria. Profili che, ad avviso del Parlamento, la Commissione avrebbe dovuto considerare attraverso una valutazione approfondita degli effetti della riforma del sistema giudiziario così come di fatto operante nel corso di un ragionevole tempo. Inoltre, la natura stessa del governo del Paese impedisce l’adozione di adeguati meccanismi di assegnazione e distribuzione dei finanziamenti europei, rendendo impossibile una gestione di fondi UE adeguata ai parametri richiesti dalle norme sul bilancio dell’Unione. I profili discriminatori e le legislazioni diffusamente censurate renderebbero impossibile la garanzia di un’equa distribuzione dei finanziamenti tra i potenziali beneficiari, così come l’assenza di organismi indipendenti e le limitazioni all’indipendenza dei media ostacolano forme credibili di controllo nella loro gestione.
Proprio in virtù di tale nesso, il Parlamento considera come necessario che le decisioni relative alla concessione di finanziamenti europei in rapporto alla tutela dello stato di diritto nel Paese beneficiario siano, nonostante la pluralità dei canali precedentemente sottolineata, trattate in maniera integrata. Difatti, l’assenza delle condizioni minime valide ad assicurare in uno Stato membro la tutela dello stato di diritto in una singola delle aree interessate risulta determinare una carenza complessiva del sistema, rendendo impossibile un adeguato superamento dei residui profili.

4. L’esito della procedura risulta essere di complessa prognosi per gli stessi ricorrenti. Questo, anzitutto, per la limitatezza della casistica relativa all’applicazione del rule of law conditionality mechanism, specie se collegata ad un ricorso tra istituzioni europee. L’unico precedente direttamente applicabile riguarda l’azione proposta nell’ottobre del 2021 dal Parlamento Europeo avverso la Commissione per la mancata applicazione del meccanismo nei confronti della Polonia e dell’Ungheria. In tale caso, tuttavia, la Commissione Europea, ancor prima delle pronunce della CGUE (C-156/21 e C-157/21) sulla regolarità del regolamento istitutivo, aveva adottato azioni volte a verificare il rispetto dello stato di diritto nei Paesi interessati ed il ricorso era stato, conseguentemente, superato.
Il meccanismo di condizionalità si fonda sullo stato di diritto come valore comune agli Stati Membri, così come concepito dall’art. 2 del TUE. Il contenuto di tale principio è derivabile, in assenza di una catalogazione esplicita dei parametri utili a comporlo nei Trattati, attraverso le sentenze sulla materia della Corte di Giustizia e della Corte EDU, oltre che attraverso la documentazione preparatoria del Consiglio d’Europa. Il collegamento con il bilancio dell’Unione era stato parzialmente introdotto già nel percorso di approvazione del Quadro Finanziario Pluriennale del 2018. Il Regolamento sulla condizionalità in seguito adottato, innova anche nel fornire una definizione della “rule of law” sulla base dei suoi contenuti essenziali (art. 2): “In esso rientrano i principi di legalità, in base alla quale il processo legislativo deve essere trasparente, responsabile, democratico e pluralistico; certezza del diritto; divieto di arbitrarietà del potere esecutivo; tutela giurisdizionale effettiva, compreso l’accesso alla giustizia, da parte di organi giurisdizionali indipendenti e imparziali, anche per quanto riguarda i diritti fondamentali; separazione dei poteri; non- discriminazione e uguaglianza di fronte alla legge”. Soprattutto, è esplicito nell’affermare come la valutazione circa il rispetto dello Stato di diritto debba necessariamente essere effettuata alla luce di una valutazione complessiva degli altri valori e principi dell’Unione contenuti nell’art. 2 TUE. Da tale definizione sono, quindi, derivate (art. 3) alcune situazioni e circostanze da considerarsi come “indicative” della sussistenza di una violazione, ipotesi che per stessa definizione sono da considerarsi non esaustive delle modalità di infrazione configurabili.
Lo strumento è complementare rispetto alle altre procedure già presenti nella gestione delle voci di bilancio dell’Unione. L’adozione delle misure restrittive deve avvenire secondo il principio di proporzionalità e la valutazione da parte della Commissione deve considerare la natura, durata, gravità ed ampiezza delle violazioni dello stato di diritto. Il Regolamento sulle disposizioni comuni che disciplina le modalità di gestione ordinaria dei fondi di coesione contiene delle ipotesi di intervento da parte dell’Unione sul finanziamento, ma non è specificamente destinato alle ipotesi di violazione dello stato di diritto. Tuttavia, un collegamento può essere ravvisato nella configurazione del rispetto della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea come condizione abilitante l’accesso ai finanziamenti, comprensiva del rispetto dei principi sovra esposti, così come degli strumenti di tutela del sistema giudiziario, esplicitati nell’articolo 47 della stessa.
L’azione proposta dal Parlamento Europeo richiama, inoltre, l’idea dello stato di diritto come struttura portante di ogni sistema democratico. La concezione della rule of law proposta si colloca in linea con il modo in cui la CGUE ha concepito la tutela del principio democratico nel contesto dell’Unione (si v. ad es. C-502/19, Junqueras Vies). Una posizione che trova un riferimento proprio nelle sentenze con cui la Corte ha asserito la validità del rule of law conditionality mechanism rispetto alle contestazioni mosse dall’Ungheria e dalla Polonia ((C-156/21 e C-157/21).
Data tale ricostruzione, le motivazioni introdotte dal Parlamento per ritenere non sufficiente l’adozione della riforma giudiziario dell’Ungheria ai fini dello sblocco del finanziamento sembrerebbero collocarsi in una linea di difesa dello stato di diritto che trova delle fondamenta solide nel sistema del diritto UE. A prescindere dalla valutazione sull’adeguatezza della riforma in sé, il ricorso sembra meritoriamente sottolineare come il rispetto dello stato di diritto in quanto fondamento del sistema democratico non possa essere frutto di una valutazione per comparti separati, elemento che è esplicito nel Regolamento sul meccanismo di condizionalità, ma che deriva anche dalla natura di condizione abilitante che assume nel sistema dei fondi di coesione. La riforma giudiziaria copre, quindi, solo una parte delle problematiche sollevate dalla stessa Unione riguardo il rispetto del principio democratico in Ungheria. Né d’altronde, le stesse tutele giudiziarie possono essere assicurate in un contesto in cui i poteri di nomina delle principali istituzioni e degli organismi di garanzia sono concentrati nelle mani dell’esecutivo, privando l’ordinamento delle forme di pesi e contrappesi necessarie a garantirne la democraticità.
In un quadro di complessità politica e di un tentativo di messa in discussione delle istituzioni democratiche dell’Unione, il ricorso avanzato dal Parlamento Europeo, al di là dell’incerto esito giudiziario, ha, quindi, l’indubbio merito di rafforzarne la funzione di garante della democrazia dell’Unione.


Recensione a S. Ragone (ed.), Managing the Euro Crisis. National EU Policy Coordination in the Debtor Countries, Routledge, 2018

Il volume si discosta dai precedenti in primo luogo per il taglio dato all'analisi: anche nei contributi che avevano rivolto primario interesse ai Paesi che avevano sottoscritto dei Piani di Assistenza, l'attenzione era stata, anzitutto, rivolta al modo in cui tali strumenti sovranazionali interagissero con l'ordinamento nazionale (con una particolare attenzione al ruolo delle corti, si v. ad es. A. Baraggia, Ordinamenti giuridici a confronto nell'era della crisi: la condizionalità economica in Europa e negli Stati nazionali, Giappichelli, 2017). La prospettiva di un'analisi comparata riguardante primariamente le modalità con cui ciascuno Stato si interfaccia con l'ordinamento europeo e gli effetti della crisi economica su tale assetto, risultava quindi un elemento carente o affrontato solo in maniera tangente in alcuni contributi (si v. ad es. S. Ragone, La incidencia de la crisis en la distribución interna del poder entre parlamentos y gobiernos nacionales, Revista de derecho constitucional europeo, 24, 2015). La comparazione operata tra casi similari consente, anche rispetto ai precedenti, di cogliere in una dimensione di lungo termine le modifiche nelle modalità di governance (termine congruo allo stile interdisciplinare adottato dal volume) delle politiche europee, consentendo di rilevare sia i tratti comuni emergenti dalle nuove modalità di integrazione, sia i segnali di evoluzione autonoma che risulta possibile cogliere all'interno di ciascun ordinamento.
Il volume si inserisce in maniera soltanto tangente nel dibattito sulle modifiche introdotte negli ordinamenti statali ed europeo a seguito della crisi economica. I volumi di maggiore interesse nella materia si sono, difatti, occupati in particolar modo della ridefinizione della governance economica europea (sia con approccio primariamente giuridico, si v. ad es. A. Hinarejos, The Euro Area Crisis in Constitutional Perspective, Oxford Un. Press, 2015, sia con approccio più interdisciplinare, K. Tuori – K. Tuori, The Eurozone Crisis. A Constitutional Analysis, Cambridge Un. Press, 2014) e della ricostruzione delle evoluzioni costituzionali degli Stati membri, per stimolo o adattamento all'evoluzione del sistema sovranazionale (si v. ad es. X. Contiades, Constitutions in the Global Financial Crisis. A Comparative Analysis, Ashgate Pub., 2013; F. Fabbrini - E. Hirsch Ballin – H. Somsen (a cura di), What Form of Government for the European Union and the Eurozone?, Hart Pub. 2015). Il libro qui recensito opta invece per un taglio diverso: anzitutto opera una scelta dei casi sulla base di un criterio di similarità, analizzando i Paesi che sono stati affetti dalla crisi economica. In secondo luogo, il taglio prescelto è quello di un'analisi delle modalità di coordinamento delle politiche europee all'interno dei singoli Stati, per testare se  e quali modifiche degli assetti esistenti siano riconducibili ai crescenti interventi in ambito di politiche economiche e di bilancio registrati durante la crisi.
Il capitolo introduttivo del volume sottolinea la prospettiva in cui sono analizzate le modalità di coordinamento nazionali delle politiche europee: quale angolo previlegiato per valutare le reciproche influenze tra Stati Membri ed Unione Europea, nelle fasi ascendenti e discendenti. Il volume si colloca quindi nel solco della letteratura di analisi delle modalità di coordinamento delle politiche europee, provando a rinvigorire una letteratura ferma all'approccio primariamente politologico di inizio anni 2000 (H. Kassim – B.G. Peters – V. Wright, The National Co-ordination of EU Policy.The Domestic Level, Oxford University Press, 2000) o contraddistinta da ridotte o differenti selezioni dei casi (si v. ad es. S. Baroncelli, Il ruolo del Governo nella formazione e applicazione del diritto dell'Unione europea. Le peculiarità di un sistema costituzionale multilivello, Giappichelli, 2008). Adottando una selezione dei casi focalizzata su Paesi che hanno attraversato gravi crisi finanziarie, l'intento del volume diviene quello di valutare quanto e in che modalità l'evoluzione istituzionale ed economica abbia influito sulle strutture di coordinamento, ridefinendole o conducendo all'introduzione di nuovi strumenti.
I capitoli seguenti sono strutturati secondo una struttura similare: (i) un'esposizione del coordinamento delle politiche europee in chiave diacronica, (ii) una sintesi delle caratteristiche della crisi economico-finanziaria che ha colpito il Paese e degli adeguamenti istituzionali che si sono resi necessari e (iii) un'analisi di come tali vicende abbiano influito sul quadro precedentemente esposto. Il primo Paese analizzato, nel secondo capitolo del volume, è la Grecia: l'autrice sottolinea come il quadro istituzionale fosse contraddistinto dal ruolo predominante svolto dal coordinamento delle azioni tra il Ministro degli Affari Esteri e il Ministro degli Affari Economici nella materia. Al contempo, viene rilevato un debole coordinamento all'interno del governo, cui si è cercato di rimediare attraverso la creazione di strutture di supporto del Consiglio dei Ministri e del Primo Ministro in particolare, che non risultano aver avuto successo. L'autrice sottolinea come la crisi economica non abbia ridefinito in maniera radicale le modalità di coordinamento delle politiche europee ma avrebbe, piuttosto, contribuito ad un ruolo accresciuto del Ministro delle Finanze, sia nei rapporti con gli altri colleghi di governo, sia nell'espansione dei settori in cui esercita iniziative e ruoli di coordinamento in sede nazionale ed europea. Ad avviso dell'autrice, le esperienze dei MoU dovrebbero essere tenute distinte da quelle dell'ordinaria gestione delle politiche europee, in cui la crisi ha solo svolto un ruolo di accentuazione di alcune tendenze e parziale ridefinizione in ragione della centralità assunta dalle decisioni finanziarie negli anni trascorsi.
L'analisi del coordinamento delle politiche europee in Irlanda sottolinea la struttura assai complessa creata nell'esecutivo nazionale in tale materia: ad un ruolo guida svolto da tre amministrazioni – il Ministero degli Affari Esteri, il Ministero delle Finanze e la presidenza del Consiglio -, si accompagna un secondo livello costituito dai ministeri le cui politiche sono fortemente intrecciate con le decisioni europee, ridefinito all'evolversi delle competenze dell'Unione. A tale organizzazione si accompagnano strumenti di coordinamento istituzionalizzati: il Coordinamento interministeriale presieduto dal Ministero degli Affari Esteri e commissioni congiunte tra l'esecutivo e il parlamento. Il contributo sottolinea, quindi, la struttura rigida che contraddistingueva il coordinamento delle politiche europee nel paese prima della crisi e il rafforzamento della stessa nelle fasi seguenti attraverso (i) l'istituzionalizzazione di un Economic Management Council che va ad accompagnare nelle materie fiscali la struttura primaria di gestione del coordinamento europeo, (ii) la divisione del Ministero delle Finanze attraverso il ritaglio tra le sue competenze di un Ministero della Spesa Pubblica e delle Riforme e (iii) un accresciuto ruolo del Primo Ministro nella gestione del coordinamento delle politiche europee nelle strutture di coordinamento.
Il capitolo 4 colloca l'esperienza portoghese come paradigmatica di una gestione centralizzata del coordinamento delle politiche europee. In particolare, gli strumenti di coordinamento si articolano in una Commissione interministeriale e in un Segretariato dedicato agli Affari Europei alle dipendenze del Ministero degli Affari Esteri con ulteriori articolazioni interne, specie attraverso la direzione per gli Affari Europei. Accanto a tale struttura, dal contributo emerge il ruolo forte assunto nell'esperienza lusitana dalla Rappresentanza Permanente presso l'Unione Europea, specie in considerazione dell'alto livello del personale ivi impiegato. La struttura creata negli anni dell'integrazione e transitata nel periodo seguente tramite alcuni aggiustamenti risulta essere rimasta sostanzialmente invariata all'esito del periodo di crisi economica: alcune innovazioni si sono registrate durante la vigenza del Piano di Assistenza, con particolare riguardo alla Missione di Monitoraggio del rispetto dei MoU, ma sembrano aver avuto natura soltanto provvisoria.
Il caso cipriota si segnala per le difficoltà incorse nell'introduzione di una struttura istituzionale permanente di coordinamento delle politiche europee, dovute alla rigidità istituzionale caratteristica del Paese. La gestione della crisi e del Piano di Assistenza erogato in favore dello Stato è stata contraddistinta dallo sviluppo di una relazione forte tra il Governo e le istituzioni creditrici, in cui il Parlamento è intervenuto solo in una fase di seguente approvazione. Parte di tale percorso di collaborazione è stato costituito da un nuovo tentativo di istituzionalizzare un organo di coordinamento delle politiche europee che non è riuscito ad ottenere successo. Dal contributo emerge come l'esito di tali fallimenti, evidenziato particolarmente nel periodo della crisi economica, consista nella creazione di comitati ad hoc nelle fasi di maggiori necessità di coordinamento in cui il Governo svolge un ruolo di primaria rilevanza politica, particolarmente attraverso i Ministri specificamente interessati: una delle cifre primarie della gestione della crisi cipriota risulta, anche in ragione di tale elemento, essere stato il ruolo accresciuto del Ministero delle Finanze all'interno della compagine governativa.
L'analisi del caso italiano emerge come emblematico di un coordinamento incentrato sull'esecutivo con un ruolo assai ridotto del parlamento. In particolare, il sistema si poggia su un Ministro (o, più di recente, sottosegretario) degli Affari Europei senza portafoglio, cui è affiancata una struttura di coordinamento all’interno della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Tali meccanismi di coordinamento si articolano in tre strutture: un Dipartimento per le Politiche Europee con funzione di supporto al Governo, un Comitato Interministeriale per gli Affari Europei e un Comitato tecnico di valutazione con funzione di supporto a tutti gli attori coinvolti nella fase ascendente. Il contributo sottolinea come la crisi finanziaria non abbia implicato un cambiamento radicale dell'assetto delle politiche di coordinamento: si registrano piuttosto (i) un'inversione della tendenza ad un maggiore coinvolgimento del Parlamento nazionale e delle Regioni avvenuto negli anni antecedenti e (ii) un rafforzamento degli strumenti di coordinamento, con particolare riguardo agli strumenti attinenti alla regolazione economico-finanziaria.
L'analisi comparata dei casi, come sottolineato nelle conclusioni del libro, si presta a sottolineare come agli elementi di avvicinamento delle modalità di coordinamento delle politiche europee, pur rinvenibili, si accompagnino percorsi di sviluppo delle peculiarità statali che segnalano una divaricazione nelle modalità di regolazione. Comune è, in particolare, l'evoluzione registrata negli equilibri interni all'esecutivo, con un rafforzamento del ruolo del Primo Ministro e un indebolimento del Ministro degli Affari Esteri. Divergenti sono invece le concrete modalità di coordinamento e, in particolare tra queste, i ruoli assegnati a Parlamenti ed enti decentrati.
Il volume si presenta, quindi, come un'utile e ampia lettura delle modalità di coordinamento nei Paesi analizzati. La chiave diacronica, scelta per descrivere le evoluzioni dei singoli casi, consente di cogliere le tendenze di lungo corso nello sviluppo degli strumenti da parte di ciascuno di essi. In tale percorso, la crisi economica ha costituito un test di particolare rilievo quanto alla tenuta di tali meccanismi. Alcuni elementi sembrano emergere tra le righe ed offrire dei segnali sugli assetti istituzionali permanenti che sono emersi dopo il periodo emergenziale. Anzitutto, in termini di equilibri nella compagine governativa, il volume sottolinea meritoriamente l'accresciuto ruolo svolto dal Ministero delle Finanze e/o dal Ministero degli Affari Economici. Su opposto versante, l'analisi dei diversi casi mostra come l'indebolimento di alcuni altri attori – segnatamente il Ministero degli Affari Esteri, il Parlamento e le autonomie – pur comune ai casi analizzati, sia avvenuto con intensità e modalità differenti, anche in considerazione degli assetti istituzionali di coordinamento esistenti.
Il libro riesce quindi a rispondere alle domande di ricerca sugli effetti della crisi sulle modalità di coordinamento delle politiche europee attraverso una disamina complessa e articolata. Per un verso, si segnala la sostanziale permanenza degli strumenti pensati antecedentemente e, in alcuni casi, un'accentuata valorizzazione delle loro peculiarità. Per altro verso, dall'analisi dei Paesi emergono alcune tendenze comuni di rafforzamento delle misure di coordinamento e di accentramento verso il vertice del governo e il Ministero delle Finanze del ruolo propulsivo in tali ambiti. Da ultimo, la diversa severità delle crisi attraversate dai Paesi emerge dalle pieghe del volume: specie per l'esigenza di alcuni di essi di dover approntare delle misure straordinarie di coordinamento nel periodo di maggior sorveglianza sovranazionale in relazione all'erogazione delle misure di assistenza. Tali strumenti esterni ai percorsi di sviluppo interno sembrano tuttavia aver esaurito la loro funzione una volta superate tali fasi, in cui – specie in riferimento ai casi portoghese e greco – si è quindi tornati alle modalità di gestione "ordinarie".


The Court of Justice and the Perils of Eurozone Fiscal Framework

The article aims to interpret the evolution of the Eurozone governance using the lenses of fiscal federalism theory. This perspective would help to understand what the Court of Justice of the European Union had to manage in its cases that faced the economic governance reform process. The focus is mainly on the interpretation made by the Court of some features of the instruments challenged in Pringle and Gauweiler from a theoretical perspective. The thesis is that such evaluations reflect an evolution in the relationship between the norms and political behaviour of actors in the Economic and Monetary Union. Adopting a fiscal federalism theoretical perspective, the cases could be read as reflecting a modification of the system of incentives to assure the responsible fiscal behaviour of the actors. The Eurozone originally relied on market incentives to assure the states’ sound budgetary policies. Today, the system presents a more mixed system of incentives, with legal incentives particularly emerging in the Court of Justice’s interpretation of Articles 125 and 123.1 of the Treaty on the Functioning of the European Union. The explanation of this pre-legal evolution helps to understand the divergence between the interpretation of the Memorandum of Understanding as proposed by the Court of Justice in Ledra Adv. and the different approach proposed by the German Federal Constitutional Court in the judgement ending the Gauweiler saga and in the referral regarding the Quantitative Easing.