Ilva: la Corte EDU condanna l’Italia per violazione degli art. 8 e 13 della Convenzione

Con la decisione del 24 gennaio 2019, la Prima Sezione della Corte EDU si è pronunciata sul caso Cordella e al. c. Italia (ricorsi n° 54414/13 e 54264/15), condannando unanimemente lo Stato italiano per aver violato gli articoli 8 (Diritto al rispetto della vita privata e familiare) e 13 (Diritto a un ricorso effettivo) della Convenzione. I 180 ricorrenti, che avevano altresì invocato la violazione dell’art. 2 (Diritto alla vita), non preso in considerazione dalla Corte in quanto ricondotto al suddetto art. 8 (parr.93 - 94), sostenevano che le autorità nazionali non sarebbero state in grado di proteggere l’ambiente e la salute dei cittadini residenti nell’area circostante l’acciaieria Ilva di Taranto ed i rimedi giurisdizionali interni a disposizione sarebbero risultati inefficaci alla tutela dei loro interessi. Senza ricorrere alla procedura della sentenza pilota (come invece auspicato dal ricorso n° 54264/15), la Corte nel condannare lo Stato riconosce l’assoluta urgenza del recupero delle condizioni di salubrità del complesso industriale e delle zone limitrofe, invitando le autorità nazionali a mettere in atto nel più breve tempo possibile il piano contenente le misure necessarie ad assicurare la protezione ambientale e sanitaria della popolazione, nonché rinviando al Comitato dei Ministri (art. 46) per la definizione in termini pratici delle misure da adottare per assicurare l’attuazione della sentenza (parr. 177 – 182).
Sono intervenuti nel giudizio in qualità di terzi (art.36 par. 2 CEDU e art. 44 par. 3 Regolamento della Corte) l’ISDE (Associazione Medici per l’Ambiente), Clinical Program (Università di Torino), nonché la società Riva S.p.a. Tuttavia le memorie di Riva S.p.a., gruppo cui l’Ilva ha fatto capo dalla privatizzazione avvenuta nel 1995 fino al commissariamento nel 2012, non sono state tenute in considerazione, successivamente riconoscendosi l’insussistenza delle condizioni previste per un intervento di terzo da parte del gruppo (art. 44 par. 5 Reg. Corte), che, come evidenziato dai ricorrenti, sarebbe stato interessato all’esito del processo. Dopo aver brevemente ripercorso le articolate vicende societarie dell’acciaieria più grande d’Europa, sorta a Taranto nel 1965 (parr. 8 – 12), i giudici di Strasburgo passano in rassegna numerosi studi scientifici realizzati da diversi enti e istituzioni, registri sull’incidenza di determinate malattie nella zona soggetta ad emissioni, nonché indagini sulla presenza di agenti inquinanti oltre le soglie consentite dalla legge. A tale ultimo riguardo, si rileva che le emissioni allo stato attuale si sono ridotte a causa della momentanea chiusura di una parte della cokeria, ma la situazione cambierà di nuovo non appena l’impianto riprenderà a lavorare a pieno regime, continuando a danneggiare l’ambiente e la salute delle persone. Dagli studi condotti emerge che i decessi per tumori, malattie del sistema circolatorio e altre patologie sono di gran lunga superiori alle medie regionali e nazionali (parr. 13 – 31). A tale proposito si richiama la decisione Smaltini c. Italia (ricorso n°43961/09), su cui la Corte ritorna in questa sede. Nel 2015 la Quarta Sezione aveva dichiarato l’irricevibilità del ricorso promosso ai sensi dell’art. 2 (Diritto alla vita) e dell’art. 6 (Diritto ad un equo processo). La ricorrente, oltre alle carenze individuate in relazione alle garanzie processuali, lamentava la sussistenza di un nesso causale tra le emissioni dello stabilimento Ilva e l’insorgere della sua leucemia. I giudici di Strasburgo avevano però motivato l’irricevibilità data la regolarità dell’attività svolta dal giudice penale interno e l’impossibilità di provare la causalità emissioni – malattia. La Corte rileva esplicitamente che, a differenza di Smaltini, nel caso in oggetto i ricorrenti denunciano l’assenza di misure statali volte a proteggere la salute e l’ambiente, ma constata che sì, fin dagli anni ’70, gli studi hanno dimostrato la sussistenza di un nesso tra esposizione ambientale alle emissioni inquinanti e insorgenza di malattie (parr.162 – 166). Tale passaggio non è esente da una latente ambiguità. La Corte infatti, pur prendendo atto delle risultanze scientificamente provate, sembra non voler smentire la giurisprudenza Smaltini, facendo leva sulla differenza del petitum. A ciò pare funzionale la stessa decisione di esaminare i fatti solo in relazione all’art. 8 e non anche all’art. 2, come richiesto dai ricorrenti, sulla base dell’argomentazione che “ces griefs se confondent” (par. 94).
Lo Stato italiano contesta la qualità di vittime dei ricorrenti, che può essere accertata solo a seguito di processi domestici, nonché il carattere particolare delle violazioni asserite, che sarebbe invece generale e quindi non sottoponibile alla Corte ma possibile oggetto di actio popularis e infine rileva che parte dei ricorrenti sono residenti in aree non sottoposte alle emissioni dell’Ilva. I giudici di Strasburgo allora chiariscono che, vista l’inesistenza di una disposizione convenzionale che garantisca una generalizzata protezione dell’ambiente in quanto tale, l’elemento che permette di individuare una violazione dell’art. 8 par.1 è l’esistenza di effetti negativi sulla vita privata o familiare di una persona, non potendo limitarsi l’analisi al solo peggioramento delle condizioni ambientali (parr. 100 – 101). Quanto ai Comuni soggetti alle emissioni nocive, una delibera del Consiglio dei Ministri del 30 novembre 1990 aveva classificato solo alcuni come “ad alto rischio ambientale”, ed è per questa ragione che una parte dei ricorrenti, appunto non residenti in questi Comuni e che non hanno dimostrato di essere stati personalmente lesi, non si ritengono legittimati al giudizio (parr. 102 – 108). Lo Stato sostiene inoltre che il ricorso non sia ricevibile per via del mancato esperimento dei rimedi interni in ambito penale, civile e costituzionale (parr. 110 – 113). I ricorrenti osservano che nessuno dei rimedi prospettati risponde alle loro esigenze, senza contare il fatto che, nonostante si fossero già costituiti parte civile in processi penali domestici, non abbiano comunque potuto ottenere alcun risarcimento per via della sottoposizione dell’Ilva al regime di amministrazione straordinaria (in part. par. 115). La Corte aggiunge che spetta allo Stato dimostrare che, all’epoca dei fatti, i rimedi interni fossero stati accessibili e in grado di offrire delle prospettive ragionevoli di successo e che, secondo i principi del diritto internazionale generalmente riconosciuti, la sussistenza di particolari circostanze può esimere il ricorrente dall’obbligo di esperire tutti i rimedi interni (par. 122). Inoltre, il d.l. n°1/2015, contenente misure per l’attuazione di un “piano ambientale” (di cui si dà conto al par. 59 della sentenza) comporta l’immunità penale ed amministrativa all’amministratore straordinario, nonché al futuro acquirente dello stabilimento. E, come più volte indicato, il giudizio costituzionale non può essere considerato un rimedio richiesto dalla Convenzione, non essendo previsto nell’ordinamento italiano il ricorso diretto del singolo. Stando al d.l. n°152/06, invece, è solo il Ministro dell’Ambiente che può chiedere un risarcimento per il danno ecologico (parr.124 – 126).
Riguardo alle specifiche violazioni, conformemente alla giurisprudenza precedente, la Corte afferma che l’art. 8 non si limita a prevedere l’astensione dal compimento di atti di ingerenza arbitrari da parte dello Stato, ma pone a suo carico degli obblighi positivi, quali l’adozione di un impianto legislativo finalizzato a prevenire i danni all’ambiente e alla salute e a regolare adeguatamente ogni attività, pubblica o privata, pur mantenendo un certo margine di apprezzamento  nell’equilibrata regolazione di interessi concorrenti dell’individuo e della società nel suo insieme (parr. 157 – 160).
L’art. 13 è invece collegato alla previsione dell’esaurimento dei ricorsi interni e si fonda sull’idea che il regime di tutela convenzionale sia sorretto dal principio di sussidiarietà, in base al quale i diritti devono essere garantiti primariamente a livello statuale (par. 176).
Richiamando l’art. 46 (Forza vincolante ed esecuzione delle sentenze), la Corte evoca il ruolo del Comitato dei Ministri nell’indicare allo Stato italiano le misure necessarie all’enforcement della decisione, specificando che la bonifica dell’impianto e della zona occupa “une place primordiale et urgente”(par. 182) e che il piano che prevede azioni volte ad assicurare la protezione dell’ambiente e della salute deve essere attuato il prima possibile. Infatti, a partire dalla fine del 2012 il Governo ha adottato una serie di decreti, denominati “Salva – Ilva”, che riguardavano esclusivamente l’attività dello stabilimento. Nel 2013 la Corte Costituzionale, a seguito di ricorso incidentale sollevato dal GIP di Taranto in relazione ad una parte di uno di tali decreti, che autorizzava la società a continuare la sua attività, malgrado le emissioni nocive, nonché a rientrare nel pieno possesso dei beni e dello stabilimento, nonostante la sottoposizione a sequestro giudiziario, dichiarava infondata la questione. Questo perché il decreto avrebbe da una parte tenuto conto del diritto al lavoro e dall’altro del diritto all’ambiente, garantito dal rispetto delle misure di controllo e prevenzione previste dall’AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale) del 2012. Con il DPCM del 29 settembre 2017 il termine per l’attuazione delle misure previste dal piano ambientale è stato esteso ad agosto del 2023. La Regione Puglia ed il Comune di Taranto hanno promosso di fronte al giudice amministrativo un’azione di annullamento (attualmente pendente) avverso tale decreto, prefigurando appunto le conseguenze negative per l’ambiente e la salute pubblica derivanti dall’estensione del termine. Sono stati anche numerosi i procedimenti penali che hanno visto gli amministratori dell’Ilva in qualità di imputati per danno ambientale, avvelenamento di acque o sostanze alimentari, rimozione od omissione di cautele sul luogo di lavoro, emissione di sostanze inquinanti. La Corte di Cassazione ha stabilito che il gruppo che amministrava l’acciaieria era colpevole per l’inquinamento dell’aria e lo scarico di materiali pericolosi, nonostante anche gli accordi, diretti a diminuire le emissioni, presi con le autorità locali a partire dal 2003. La Corte di Giustizia si è invece pronunciata sulla vicenda il 31 marzo 2011, dichiarando l’inadempienza dell’Italia agli obblighi individuati dalla direttiva 2008/1 EC, riguardante la prevenzione ed il controllo dell’inquinamento. Nel 2014 è stata aperta una procedura d’infrazione, nell’ambito della quale la Commissione ha chiesto alle autorità nazionali di rimediare ai seri problemi di inquinamento. Nel 2018 la Corte Costituzionale si è di nuovo pronunciata su uno dei decreti “salva – Ilva” del 2015, questa volta dichiarandone l’incostituzionalità in quanto le autorità avrebbero finito per dare un maggior peso alla continuazione dell’attività produttiva, a discapito della protezione del diritto alla salute e alla vita.
All’esito delle complesse e alterne vicende industriali, legislative e giudiziarie nelle quali è stata coinvolta l’Ilva di Taranto, la sentenza della Prima Sezione della Corte EDU segna sicuramente un passo in avanti nella tutela della salute e dell’ambiente. Tuttavia l’adozione di una sentenza pilota come auspicato nel ricorso proposto nel 2015, avrebbe costituito una più forte presa di posizione nei confronti di una situazione che denota sicuramente una disfunzione strutturale dello Stato italiano, che si trascina da oltre quarant’anni e che ha visto i diritti di migliaia di cittadini nella gran parte riconosciuti nelle aule di tribunale ma poi persistentemente lesi nei fatti.
Da ultimo, quanto alla richiesta di risarcimento dei danni morali avanzata dai ricorrenti, la Corte ha stabilito che la stessa constatazione della violazione costituisce di per sé un'equa riparazione sufficiente per il ristoro dei danni morali subiti e condanna l’Italia alla sola rifusione delle spese.  La logica alla base di una soluzione del genere si potrebbe rintracciare nel passaggio in cui i giudici sottolineano che il petitum della causa in oggetto riguarda non il nesso causale emissioni – malattia ma l'incapacità dello Stato di provvedere alla tutela della salute e dell'ambiente ed il conseguente obbligo positivo di attuare al più presto il piano ambientale.


Caso Navalnyy: la GC della Corte EDU condanna la Russia su tutti i fronti, riconoscendo anche la violazione dell’art. 18 CEDU

Il 15 novembre 2018 la Grande Chambre della Corte EDU si è pronunciata sui cinque ricorsi riuniti (n. 29580/12 e al.) promossi dal blogger e attivista politico di opposizione Aleksey Navalnyy nei confronti della Russia. Il ricorrente lamentava la violazione del diritto alla libertà e alla sicurezza, sotto il profilo della legalità dell’arresto e della detenzione (art. 5 par. 1 CEDU), del diritto ad un equo processo (art. 6), della libertà di riunione e associazione (art. 11), nonché dei limiti ammessi alla restrizione dei diritti (art. 18). Tale giudizio è stato deferito alla Grande Chambre a seguito dell’ammissione della richiesta ex art. 43 proveniente da entrambe le parti dopo la pronuncia emessa dalla Terza Sezione il 2 febbraio 2017, con la quale la Corte, unanimemente, aveva riconosciuto la violazione degli articoli 5, 6 e 11, pur non identificando motivazioni politiche alla base delle condotte statuali. Questa volta la GC, oltre a confermare la sussistenza delle violazioni già riscontrate, statuisce che l’inasprimento delle azioni assunte dalle autorità nei confronti del ricorrente, correlato all’incremento delle sue attività di contestazione del Presidente Putin e del suo entourage, sia stato dettato dal deliberato intento di tenere sotto controllo l’opposizione, facendo così venir meno quel pluralismo politico che concorre a dare forma ad un assetto politico effettivamente democratico di cui lo Stato di diritto è espressione. Tuttavia, la presenza di un’opinione separata, partly concurring, partly dissenting, firmata da cinque giudici, testimonia la persistenza di una non pacifica delimitazione dell’area di applicazione dell’art. 18, nonostante il “dual test” fissato dalla GC in Merabishvili v. Georgia (n. 72508/13, 28 novembre 2017). In circa 60 anni di attività della Corte, questa è solo l’undicesima volta che viene censurata tale tipologia di abuso.
La Russia, che solo lo scorso anno è stata parte in circa un terzo dei casi esaminati dalla Corte ed è tra gli Stati con il più basso tasso di esecuzione delle decisioni, è così stata condannata al risarcimento dei danni e delle spese patiti dal ricorrente, nonché richiamata (come già avvenuto di recente in Lashmankin and Others v. Russia, n. 57818/09 e al., 7 febbraio 2017) a dotarsi di una legislazione interna che rispetti il diritto di riunione e associazione come delineato dalla Convenzione, sopperendo all’inadeguatezza strutturale delle norme vigenti in materia, che allo stato lasciano ampio spazio alle arbitrarie interferenze della forza pubblica e non contemplano una proporzionata reazione  a  manifestazioni che, pur non essendo state autorizzate, si svolgano pacificamente. La GC al par. 49 sottolinea anzi il fatto che, al momento della decisione, il Comitato dei Ministri stava ancora monitorando l’esecuzione del giudizio Lashmankin e che, proprio in occasione dell’incontro dei membri di tale organo, avvenuto lo scorso giugno, è stata adottata la decisione CM/Del/Dec(2018)1318/H46-21, nella quale, al punto 6 in particolare, si esprime l’intento di “assistere” la Russia nell’opera di miglioramento della legislazione in materia di libertà di riunione. La sentenza giunge così in una fase particolarmente delicata per i rapporti tra la Corte EDU e la Federazione russa, dal momento che non sembra inverosimile una sua fuoriuscita dal sistema del Consiglio d’Europa, come di recente affermato dal Segretario Thorbjørn Jagland.
La decisione, oltre che per l’indubbio rilievo giuridico, si segnala per il suo riverbero mediatico, stante l’ormai raggiunta popolarità del ricorrente che, in diretta dalla Corte di Strasburgo, ha espresso (ovviamente) via social la sua soddisfazione per la sentenza, non mancando di sottolinearne l’importanza per il tutt’ora elevato numero di persone che ogni giorno in Russia viene messo in stato di detenzione per ragioni platealmente, anche se non dichiaratamente, politiche.
Nel corso degli anni N. è stato arrestato innumerevoli volte (da ultimo nel settembre di quest’anno), ma in particolare nello spettro di valutazione della Corte sono rientrati sette arresti, verificatisi tra il 2012 ed il 2014 nell’ambito di manifestazioni o sit – in di protesta nei confronti del governo, che non in tutti i casi erano stati autorizzati. Il ricorrente è stato soggetto a periodi di detenzione brevi, oscillanti da pochi giorni a qualche settimana, quanto bastava per tenerlo lontano dallo spazio pubblico nei momenti cruciali precedenti gli appuntamenti elettorali, e quindi reso politicamente inoffensivo senza però quel clamore che sarebbe stato prevedibilmente suscitato dentro ed oltre i confini se gli fosse stata inflitta un’unica, lunga, pena detentiva.
Quanto alla violazione degli art. 5, 6 e 11 la GC condivide in pieno quanto deciso dalla Terza Sezione, in particolare enfatizzando alcuni aspetti, quali l’insussistenza di un “pressing social need” che a detta del Governo avrebbe giustificato l’intervento della forza pubblica (par. 86), nonché lo stretto legame che caratterizza libertà di espressione e libertà di riunione, richiamando la giurisprudenza che fa capo a Ezelin c. Francia, 26 aprile 1991 (par. 98) e l’effetto potenzialmente deterrente alla partecipazione al dibattito politico dei sostenitori dell’opposizione causato dall’arresto di una delle personalità più in vista di tale area (par.153).
Ora vale la pena soffermarsi sulla violazione dell’art. 18, che appunto non era stata riscontrata nella decisione camerale di febbraio. Da quanto allegato dal ricorrente, emerge che la ragione sottostante ai suoi arresti e all’inflizione di sanzioni amministrative consisteva proprio nell’individuazione dello stesso come attivista politico di opposizione. La GC riconosce che, di fatto, N. sia stato arrestato per sette volte in un lasso di tempo relativamente breve e con modalità pressoché identiche. Questa, secondo il Governo, sarebbe stata l’ovvia conseguenza della deliberata messa in atto di condotte illegittime, ma, secondo i giudici di Strasburgo “the pretexts for the arrests were becoming progressively more implausible” (par. 167 – 8), riconoscendo così nell’art. 18 l’elemento caratterizzante del ricorso (par. 164) e valutandolo soprattutto in relazione al quinto ed al sesto arresto subito. Secondo la versione ufficiale, N. sarebbe stato arrestato nel quinto caso in quanto a capo di una “marcia”, mentre emerge che lo stesso stesse abbandonando il luogo in cui si era svolta una manifestazione subito dispersa e le persone ed i giornalisti che stavano percorrendo la stessa strada non fossero al suo seguito; nel sesto caso sarebbe invece stato arrestato mentre stava di fronte al palazzo di giustizia, pacificamente, dietro al cordone della polizia e non distinguendosi in alcun modo dalle altre persone presenti.
Analizzando gli eventi nel loro complesso, si assiste ad un progressivo intensificarsi della severità delle autorità nei confronti del ricorrente, tenendo altresì conto dell’evoluzione legislativa in materia (in particolare la Legge federale sugli eventi pubblici n. 54 – FZ del giugno 2004) registrata nel periodo di riferimento: le sanzioni pecuniarie dovute per alcune infrazioni sono state aumentate di venti volte e sono state introdotte nuove fattispecie di reato (par. 172). Secondo la GC appare quindi chiara l’intenzione della Russia di “bring the opposition’s political activity under control” e di perseguire il ricorrente non come individuo ma come figura di riferimento dell’opposizione, danneggiando così non solo lo stesso ed i suoi sostenitori ma “the very essence of democracy” (par. 174), in cui la libertà individuale può essere limitata solo in nome dell’interesse generale, quella “higher freedom” di cui ai lavori preparatori dell’art. 18 (par. 51). Viene quindi riscontrato, oltre ogni ragionevole dubbio, l’intento di “suppress that political pluralism which forms part of effective political democracy governed by the rule of law, both being concepts to which the Preamble to the Convention refers”. Ma non c’è piena condivisione su questo punto.
Nell’opinione separata annessa alla sentenza, cinque giudici dichiarano di aver votato contro il riconoscimento della violazione dell’art. 18, ritenendo sufficiente riferirsi agli art. 5 ed 11. Accomunati dal “firm belief” che il richiamato articolo non sia lo strumento giuridico adatto cui ricorrere in situazioni assimilabili a quella in oggetto, affermano che, semmai, si sarebbe dovuto ricorrere all’art. 17, riguardante l’abuso di diritto. Pur riconoscendo che il ricorrente non aveva invocato tale disposizione e che sarebbe inappropriato disquisire su quale sarebbe stato l’esito della vicenda nel caso in cui ciò fosse avvenuto (par. 3 - 4), i giudici analizzano gli ambiti di applicazione dell’art. 17 e fanno un confronto con l’art. 18. Nonostante il primo non sia mai stato applicato nei confronti delle Alte Parti Contraenti (né dalla Corte né dalla precedente Commissione), bensì solo nei confronti di individui o gruppi, se ne valorizza il dato letterale, che mette gli Stati al primo posto dell’elenco dei soggetti destinatari e se ne sottolineano le potenzialità della sua applicazione come fattispecie autonoma (l’art. 18, invece, si accompagna ad altre violazioni, in questo caso gli art. 5 ed 11), ritrovandone l’antecedente ideale nell’art. 30 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo (par. 12 – 16). L’art. 18 viene di contro ricondotto allo sviamento di potere di matrice francese (par. 23) ed in rapporto alla disposizione precedente viene considerato “perhaps (…) redundant and unnecessary” (par. 25), censurandone altresì l’applicazione al caso di specie in quanto da riferirsi a situazioni da valutarsi nel lungo termine e non rispetto a singoli avvenimenti.
Ebbene, a questo proposito i giudici autori dell’opinione separata sembrano trascurare che, anche se la sentenza richiama esplicitamente la violazione dell’art. 18 solamente in relazione a due delle sette azioni contestate, queste non rappresentano altro che la manifestazione più evidente di un atteggiamento generalizzato assunto dalla Russia, come anche dimostrato dai numerosi casi, decisi e pendenti, meno noti ma che lamentano le stesse violazioni. Inoltre, proprio una delle argomentazioni dei cinque giudici a sfavore della disposizione, costituisce in realtà la prova del suo non essere assolutamente ridondante ed inutile: al par. 24 se ne lamenta la difficile applicabilità in quanto “in addition to the abuse of power, it requires the proof of bad faith, of hidden unmentionable motives in relation to the application of a particular restriction to a particular identified right in the context of a particular incident”. In tale inciso si trova risposta al perché, fino ad oggi, la Corte abbia individuato una violazione di tale disposizione solo in 11 casi e al perché, soprattutto in una fase in cui le c.d. “democrazie illiberali” si stanno consolidando, l’art. 18 CEDU sia più necessario che mai.


Partisan e racial gerrymandering: quattro recenti sentenze della Corte Suprema americana

Il 18 giugno la Corte Suprema ha deluso le aspettative dei molti che attendevano una chiara presa di posizione nei confronti del partisan gerrymandering, sfuggente pratica che, stante la sua incertezza definitoria, viene utilizzata al fine di rafforzare artificialmente il peso elettorale di un determinato partito tramite il disegno dei collegi elettorali. La massima istanza giurisdizionale americana ha infatti evitato di pronunciarsi su due casi aventi ad oggetto la costituzionalità o meno del ridisegno delle mappe elettorali del Wisconsin e del Maryland. Nel primo caso, Gill v. Whitford, No. 16 – 1161, il Chief Justice Roberts ha definito questa tipologia di gerrymanderingan unsettled kind of claim”, rimettendo la questione della sua individuazione alle corti inferiori.  La Corte ha statuito all’unanimità che gli attori originari, i quali avevano contestato la legittimità costituzionale del redistricting plan messo a punto dalla State Assembly e dal Senate del Wisconsin (entrambi a maggioranza repubblicana), non avevano provato la lesione diretta del diritto di voto, condizione questa che li avrebbe legittimati ad agire in giudizio. I giudici hanno rinviato il caso alla corte distrettuale per permettere ai soggetti asseritamente lesi di provare l’effettivo depotenziamento del loro diritto, legandolo causalmente al modo attraverso cui il legislativo di livello statale è intervenuto nel delineare i confini dei voting districts (per una ricostruzione più dettagliata del caso e dei precedenti della Corte sul partisan gerymandering si veda Redistricting plans e partisan gerrymandering: osservazioni e precedenti in attesa della Corte Suprema sul caso Gill v. Whitford, 20 dicembre 2017, www.diritticomparati.it).
Nel secondo caso, Benisek v. Lamone, No. 17 – 333, la Corte ha unanimemente statuito a sfavore dei votanti di area repubblicana che lamentavano l’illegittimità costituzionale del piano di ridisegno del congressional district del Maryland, affermando che i ricorrenti avevano aspettato troppo a lungo per avere una statuizione che intervenisse sulla configurazione del distretto, disegnato nel 2011.
A distanza di una settimana, il 25 giugno, la Corte Suprema si è invece occupata di racial gerrymandering, categoria questa che, al contrario della precedente, poggia su solide basi giurisprudenziali e dottrinali, gettate già negli anni ‘60. Nella sentenza riguardante i due casi consolidati, Abbott v. Perez, No. 17 – 586 ed Abbott v. Perez No. 17 – 626, la maggioranza, riconducibile ai 5 giudici di area conservative, ha determinato il ribaltamento della pronuncia della corte distrettuale. Stando ai giudici di Washington, nella configurazione del congressional district e dello state legislative district del Texas, non è riscontrabile la violazione della Costituzione né del Voting Rights Act, non sussistendo alcuna discriminazione dei votanti basata sull’appartenenza etnica.
Il 28 giugno invece, nel caso North Carolina v. Covington, No. 17-1364, la Corte Suprema ha in parte confermato la decisione della corte inferiore, condividendo le censure da quest’ultima mosse alle remedial maps predisposte dallo Stato per far venir meno il già giudizialmente accertato racial gerrymandering, che penalizzava gli elettori afro – americani in alcuni distretti.
Osservando la prima pronuncia fra quelle in oggetto, Gill v. Whitford, nata dall’appello da parte del Wisconsin avverso la sentenza di una corte distrettuale federale, che aveva censurato la mappa dei collegi (disposta dopo la schiacciante vittoria dei Repubblicani nel 2010), disegnata dal legislativo. La decisione della district court era stata la prima di una corte federale in più di trent’anni a censurare una mappa a causa dell’individuazione di un incostituzionale partisan gerrymandering. Tuttavia, nella sentenza della Corte Suprema, l’attenzione si concentra sul profilo squisitamente procedurale dell’instaurazione del giudizio, come si evince dall’affermazione del giudice Roberts, secondo cui la Corte non aveva il potere di valutare o meno la sussistenza del partisan gerrymandering.
Ciò in quanto, ad un’analisi dei risultati emersi nei distretti di appartenenza, i ricorrenti originari non erano riusciti a dimostrare che il loro voto era stato intenzionalmente ed abusivamente “diluito”. Il Chief Justice ha infatti posto l’accento sul fatto che proprio il lead plaintiff viva in un “heavily democratic district”, facendo altresì valere la natura individuale del diritto tutelato: “this Court is not responsible for vindicating generalized partisan preferences (…) the Court’s constitutionally prescribed role is to vindicate the individual rights of the people appearing before it”.
Ha inoltre aggiunto che i diversi brief allegati a sostegno della lesione procurata al diritto di voto, basati su articolati modelli statistici, devono essere calibrati sull’intero Stato e non sul singolo voting district. Gli studi allegati dagli attori hanno infatti permesso l’analisi delle sole contestazioni distretto per distretto: “the plaintiffs’ partisan  gerrymandering claims turn on allegations that their votes have been diluted (…) that harm arises from the particular composition of the voter’s own district, which causes his vote – having been packed or cracked – to carry less weight than it would carry in another, hypothetical district. Remedying the individual voter’s harm, therefore, does not necessarily require restructuring all of the state’s legislative districts.”
Possiamo dire che, ponendo l’attenzione su questioni attinenti ai profili strettamente procedurali, la Corte ha finito per glissare sui problemi centrali, evitando di prendere una chiara posizione sul se la Costituzione vieti il partisan gerrymandering e, nell’ipotesi in cui lo faccia, quale sia lo standard cui devono ricorrere le corti per parametrarne i confini costituzionali.
Nella sua concurring opinion, la giudice Kagan ha messo nero su bianco uno schema su come ricorsi del genere debbano essere strutturati e presentati. A lei si sono associati gli altri giudici di area liberal: Bader Ginsburg, Breyer e Sotomayor. La giudice Kagan ha inoltre auspicato che i tribunali riescano a limitare i danni provocati dal gerrymandering: “more effectively every day, that practise enable politicians to entrench themselves in power against the people’s will (…) and only the courts can do anything to remedy the problem, because gerrymanders benefit those who control the political branches”. Ed inoltre “the need for judicial review is at its most urgent in these cases. For here, politicians’ incentives conflict with voters’ interests, leaving citizens without any political remedy for their constitutional harms”.
In una seconda concurring opinion, il giudice Thomas, al quale si è affiancato il giudice Gorsuch, si è detto d’accordo relativamente alla mancanza di legittimazione processuale degli attori, aggiungendo che sarebbe anzi stato opportuno rigettare il caso completamente, piuttosto che rinviare ad una corte inferiore e dare agli attori la possibilità di presentare prove a sostegno della loro posizione. Ma come ha detto la maggioranza: “nothing in the Court’s opinion prevents the plaintiff on remand from pursuing an associational claim, or from satisfying the different standing requirement that theory would entail”.
Spostandoci in Maryland, la Corte sostiene, in una breve opinione non firmata, che i ricorrenti si sono attivati troppo tardi e che non c’è abbastanza tempo per arrivare ad un’analisi approfondita delle questioni poste, essendo imminente la tornata elettorale del 2018. Il caso è infatti stato presentato alla Corte Suprema ad uno stadio iniziale ed è allora stato rinviato per l’istruttoria e la decisione davanti alla corte distrettuale. In breve: i votanti repubblicani sostenevano che il legislatore statale democratico avesse ridisegnato il congressional district in modo tale da penalizzare coloro che avevano a lungo sostenuto il deputato della Camera dei Rappresentanti Roscoe G. Bartlett, un repubblicano. Tale ritaglio, sostenevano gli attori, violava il First Amendment diluendo il loro voting power. Gli attori avevano scritto nel loro appello alla Corte Suprema che “the 2011 gerrymander was devastatingly effective (…) no other congressional district anywhere in the nation saw so large a swing in its partisan complexion following the 2010 census.” Mr. Bartlett aveva vinto il suo seggio nel 2010 con un margine del 28%. Nel 2012 aveva invece perso contro il deputato John Delaney con un margine del 21%.
Per la seconda volta nello stesso giorno, i giudici di Washington hanno così evitato una pronuncia sulla sussistenza di un incostituzionale partisan gerrymandering, aggirando la questione della sua problematica definizione, per ora demandata alle corti inferiori.
Il lunedì successivo invece, la Corte ha depositato una sentenza su un caso di racial gerrymandering. La sentenza Abbott v. Perez ha disposto in senso contrario rispetto alla precedente pronuncia della corte distrettuale, secondo la quale il congressional district e lo state legislative district in Texas erano contrari alla Costituzione ed al Voting Rights Act, in quanto erano stati applicati, per la loro definizione, una serie di criteri che portavano ad un esito discriminatorio per i votanti appartenenti ad una certa etnia.
La decisione di maggioranza, determinata dalla presa di posizione dei 5 giudici di area conservative, trova espressione nelle parole del giudice Alito. Secondo la sua opinione, la corte distrettuale ha commesso “a fundamental legal error” richiedendo agli state officials di giustificare il loro uso delle mappe elettorali, in quanto, per la maggior parte dei distretti, erano state disegnate dalle stesse corti.
Nella sua dissenting opinion, la giudice Santomayor ha invece affermato che l’indirizzo espresso dalla maggioranza ha determinato un giorno oscuro per i voting rights. La Costituzione ed il Voting Rights Actsecure for all voters in our country, regardless of race, the right to equal participation in our political processes (…) those guarantees mean little, however, if courts do not remain vigilant in curbing states’ efforts to undermine the ability of minority voters to meaningfully exercise that right (…) the Court today does great damage to that right of equal opportunity (…) not because it denies the existence of that right, but because it refuses its enforcement.
Un panel di tre giudici della corte distrettuale federale di San Antonio aveva riconosciuto che il congressional district includente Corpus Christi era stato formato negando agli elettori ispanici “their opportunity to elect a candidate of their choice”.
La Corte Suprema, pur rilevando che in uno dei distretti posti alla sua osservazione era ravvisabile un inammissibile racial gerrymandering, non riscontra alcuna violazione costituzionale su base statale. Il caso ha questa particolarità: la corte di San Antonio aveva in precedenza approvato le mappe contestate nel 2012, dopo che la Suprema Corte aveva rigettato con rinvio un ricorso che denunciava l’incostituzionalità di una di esse. Il panel si era pronunciato nel senso che le mappe del 2012 non erano state valutate in modo sufficientemente approfondito vista la pressione causata dall’imminenza delle elezioni. Nel 2013, il legislativo del Texas aveva stabilito di non disegnare nuove mappe e aveva allora nuovamente adottato quelle messe a punto dalla corte di San Antonio. Dopo tre cicli elettorali regolati da quelle stesse mappe, la corte distrettuale aveva però statuito nel senso della loro irregolarità: “although this court had ‘approved’ the maps for use as interim maps, given the severe time constraints it was operating under at the time of their adoption (…) the approval was not based on a full examination of the record or the governing law” e sono state quindi “subject to revision”. La corte aveva poi affermato che l’adozione di tali mappe da parte del Texas era stata parte di una “litigation strategy designed to insulate the 2011or 2013 plans from further challenge, regardless of their legal infirmity”. Il giudice Alito invece nella majority opinion si dichiarerà in disaccordo anche a questo riguardo, affermando che “there is nothing to suggest that the Legislature proceeded in bad faith – or even that it acted unreasonably – in pursuing this strategy”.
La parte centrale della discussione ha però anche questa volta riguardato una questione procedurale, cioè se il caso poteva stare davanti ai giudici. Come riporta la giudice Sotomayor, la corte di San Antonio non aveva ingiunto allo stato di agire positivamente, ma aveva ordinato agli state officials del Texas di notiziarla immediatamente qualora avessero avuto intenzione di disegnare nuove mappe. Ciò significava quindi che non esisteva di fatto alcuna decisione di una lower court da riesaminare.
Ma il giudice Alito ha invece scritto che quella della corte distrettuale era effettivamente un’ingiunzione e che quindi la Corte Suprema aveva la giurisdizione sull’appello presentato dallo Stato, riportando che “the short time given the Legislature to respond is strong evidence that the three judge court did not intend to allow the elections to go ahead under the plans it had just condemned (…) the Legislature was not in session – which is no small matter”.
Il Chief Justice Roberts ed i giudici Kennedy, Thomas e Gorsuch si sono associati alla decisione di maggioranza. In dissenso, la giudice Sotomayor ha scritto: “the Court today goes out of its way to permit the State of Texas to use maps that the three – judge district court unanimously found were adopted for the purpose of preserving the racial discrimination that tainted its previous maps”. Tale dissenting opinion è stata condivisa dai giudici Breyer, Bader Ginsburg e Kagan. “This disregard of both precedent and fact comes at serious costs to our democracy”, scrive sempre Santomayor “it means that, after years of litigation and undeniable proof of intentional discrimination, minority voters in Texas – despite constituting a majority of the population within the state – will continue to be underrepresented in the political process”.
In North Carolina v. Covington, la Corte Suprema si è pronunciata sulla sussistenza di discriminazioni nei confronti degli elettori di origine afro – americana in sei distretti. Si premette che erano state predisposte, per via legislativa, delle remedial maps, in ottemperanza ad un precedente giudizio che ingiungeva di modificare i confini di quei distretti nei quali si riconoscevano gli elementi propri del racial gerrymandering. La difesa dello Stato si basava sul fatto che, per mantenere il più alto tasso di neutralità dell’operazione, non fossero stati usati “data identifying the race of individuals or voters”. I giudici di Washington si sono espressi nel senso che lo Special Master nominato per occuparsi delle procedure di redistricting, dovesse “consider data identifying the race of individuals or voters to the extent necessary to ensure that his plan cures the unconstitutional racial gerrymanders,” e conclude riconoscendo la sussistenza di un’incostituzionale pratica di diluizione del voto operata su base razziale in quattro distretti su sei.
A questo punto pare opportuno fare qualche breve considerazione su quanto avvenuto nella Suprema Corte nelle ultime settimane sul fronte delle gerrymandering claims. Per quanto riguarda i casi di partisan gerrymandering, entrambi i ricorsi erano posti in modo tale da consentire ai giudici di definire i limiti costituzionali di questa sfuggente e pericolosa pratica, ma ciò non è avvenuto, rimandando nuovamente il momento di dare una forma a tale condotta. Larga parte dell’opinione pubblica sperava che la Corte si sarebbe pronunciata, portando la democrazia americana nella direzione di un judicial scrutiny più pervasivo sulle modalità di ridisegno dei distretti, cercando così di arginare tale condotta, strumentalmente adottata per realizzare le ambizioni dei partiti che detengono la maggioranza in quel momento. Anche per quanto riguarda il racial gerrymandering, materia nella quale la Corte ha manifestato il suo attivismo già negli anni ‘60 (Carolina v. Katzenbach, 1966), ma anche di recente (Bethune – Hill v. Virginia State Bd. Of Elections, 2017), si registra una maggiore cautela nell’esprimere considerazioni di principio, mantenendo per lo più il focus su questioni processuali. Non che la procedura non sia importante, ma si ha l’impressione che in questo modo i giudici cerchino di evitare di intervenire in materie ad altissimo tasso di politicità, in un momento in cui l’opinione pubblica americana risulta già molto frammentata, nonché esacerbata in molti suoi settori per via dell’attuazione di politiche rispondenti a logiche di potere fortemente divisive ed incuranti dell’estremizzazione di conflitti latenti e manifesti. Tuttavia, c’è da aspettarsi che non passerà molto tempo prima che la Corte torni a confrontarsi con tale questione, soprattutto per quel che attiene al partisan gerrymandering: gli elettori dei diversi schieramenti vedono tale pratica come un serio rischio per la democraticità delle elezioni e l’enucleazione di un manageable standard che ne individui i confini costituzionali rappresenta la costruzione di un presidio necessario.


Il voto ai tempi dello smartphone. Una nuova pronuncia sulla libertà di espressione della Corte europea dei diritti dell’uomo: Magyar Kétfarkú Kutya Párt v. Hungary

La Quarta Sezione della Corte Europea dei diritti dell’uomo, con la sent. 23 gennaio 2018, Magyar Kétfarkú Kutya Párt v. Hungary (Application n. 201/17), ha stabilito all’unanimità che le autorità ungheresi hanno violato l’art. 10 della CEDU. Si riconosce tale violazione nell’imposizione di una multa ad un partito politico che aveva reso disponibile un’applicazione per smartphone finalizzata alla condivisione in forma anonima delle fotografie delle schede elettorali. Tale partito di opposizione si era distinto per la sua campagna contro il referendum che chiamava i cittadini ungheresi ad esprimersi sul quesito “Do you want the European Union to be entitled to order the mandatory settlement of non-Hungarian citizens in Hungary without Parliament’s consent?”, ed aveva promosso tale app per condividere e commentare le foto delle proprie schede di voto invalidate. La Commissione Nazionale per le elezioni ungherese (Nemzeti Választási Bizottság) aveva comminato una sanzione pecuniaria al partito ricorrente per violazione del principio della regolarità delle elezioni (rendeltetésszerű joggyakorlás), causata da una lesione al principio segretezza del voto e a quello del regolare esercizio del diritto. La Corte europea ha individuato un’evidente collisione tra la logica sottesa all’imposizione della sanzione e il diritto del partito politico alla libertà di espressione: l’applicazione era infatti progettata per essere un veicolo di comunicazione, essendo diretta alla circolazione delle opinioni degli elettori circa il referendum. Ecco perché è stata rigettata l’argomentazione del Governo secondo cui la multa avrebbe perseguito un “legitimate aim”: dato che la condivisione avveniva in forma anonima, l’applicazione non avrebbe potuto pregiudicare in alcun modo la segretezza o la regolarità delle procedure di votazione.
Durante la campagna referendaria sono stati diversi i partiti di opposizione che hanno invitato i cittadini a votare in modo tale da invalidare le schede in segno di protesta. Il Magyar Kétfarkú Kutya Párt, in particolare, dal 29 settembre 2016 aveva messo a disposizione per il download un’applicazione mobile, chiamata “the cast – an – invalid – vote app”, attraverso la quale era possibile caricare le foto scattate alle schede, nonché aggiungere commenti. La caratteristica principale dell’applicazione era che, al contrario delle più diffuse reti sociali, tutti i contenuti venivano condivisi in forma anonima.
Il 29 settembre 2016 stesso, un soggetto privato ha depositato un ricorso contro il Magyar Kétfarkú Kutya Párt, alla Commissione Nazionale per le elezioni, che il 30 si pronunciava affermando che l’applicazione era contraria ai principi di regolarità delle elezioni, segretezza del voto e corretto esercizio del diritto, aggiungendo altresì che la sua utilizzazione era in grado di gettare il discredito sullo svolgimento delle operazioni elettorali. La Commissione ha ordinato al partito di astenersi da violazioni ulteriori della Sezione 2(1)(a) ed (e) della legge n. XXXVI del 2013 sulla procedura elettorale, nonché dell’articolo 2(1) della Legge Fondamentale. Basandosi su una decisione del 2014 in cui statuiva che i votanti non possono trattare le schede elettorali come loro proprietà, la Commissione arrivava a sostenere che l’atto stesso dello scattare foto alle schede avrebbe comportato frode elettorale.
Il partito ha allora esperito ricorso alla Kúria, la Corte Suprema ungherese, che il 10 ottobre 2016 ha affermato che il divieto di fotografare e pubblicare le schede non ha limitato la libertà di espressione dei votanti, dal momento che è loro riconosciuto il diritto di esprimere pubblicamente le loro opinioni circa l’invalidazione delle schede e confrontarsi con gli altri sulle le modalità e le intenzioni del voto. Non ha però ritenuto che un’eventuale condivisione in forma anonima delle schede configuri una violazione della segretezza del voto o un’azione diretta al discredito verso lo svolgimento delle operazioni elettorali.
Il 3 ottobre 2016 lo stesso soggetto privato che aveva proposto ricorso il 29 settembre, si è nuovamente rivolto alla Commissione, lamentando che il Magyar Kétfarkú Kutya Párt aveva attivato l’app il 2 ottobre, giorno del referendum. Il 7 ottobre 2016, la Commissione ha reiterato le sue precedenti statuizioni, aggiungendo che l’attivazione dell’applicazione ha istigato i cittadini a boicottare il referendum, generando quindi conseguenze sul piano dei risultati e costituendo quindi un mezzo che ha reso la campagna referendaria illegittima. Per tali ragioni, ha comminato al partito una sanzione pecuniaria di 832,500 fiorini ungheresi (circa 2.700 euro).
Il 18 ottobre 2016 la Kúria, adita dal partito a seguito di questa seconda decisione, ha confermato in parte quanto statuito dalla Commissione. Ha confermato che l’atto stesso di scattare foto alle schede configurava una violazione del principio del regolare esercizio dei diritti, pur riconoscendo che la campagna contro il referendum non aveva contribuito ad alterare gli esiti del voto. Infine, riduceva la multa ad una cifra corrispondente a circa 330 euro.
Il Magyar Kétfarkú Kutya Párt si è allora rivolto alla Corte costituzionale per censurare entrambe le decisioni rese dalla Kúria, ravvisando la violazione del diritto alla libertà di espressione, che troviamo all’art. IX(1) della Legge Fondamentale. Il partito si è rivolto alla Corte Costituzionale in forza dell’art. 27 della Legge sulla Corte Costituzionale ungherese, in base al quale un’organizzazione direttamente destinataria di una decisione giurisdizionale che lede principi costituzionalmente protetti, può ricorrere alla Corte dopo aver esaurito tutti gli altri rimedi. Tuttavia i ricorsi vengono dichiarati inammissibili il 24 ottobre 2016, con la motivazione che le decisioni della Kúria non avevano leso la sua libertà di espressione del partito, che non aveva espresso un’opinione come soggetto individuato e non sarebbe quindi stato “personalmente interessato”, essendosi solo limitato a fornire ai votanti una “piazza”, seppur virtuale.
Il Magyar Kétfarkú Kutya Párt ha allora portato il caso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, sostenendo che l’imposizione di una multa per aver messo a disposizione dei votanti l’applicazione in oggetto costituisce violazione del diritto alla libertà di espressione come emerge dall’art. 10 della Convenzione. In particolare, nel ricorso si evidenziava che l’atto di predisporre i mezzi tecnici per permettere agli altri di manifestare opinioni rientri a pieno titolo sotto la volta della libertà di espressione. Il Governo sosteneva invece che non era stata commessa alcuna violazione di tale diritto, insistendo sul fatto che non era stato il partito ad esprimersi e aggiungendo che la multa era stata inflitta per mantenere l’ordinato svolgimento della procedura di voto e l’uso appropriato delle schede elettorali.
La Corte europea nella sua decisione ha esordito con la notazione che l’art. 10, par. 1 della Convenzione garantisce, da una parte, il diritto di comunicare informazioni e, dall’altra, il diritto a riceverle, aggiungendo che la libertà di espressione comprende la pubblicazione di foto e sottolineando che “Article 10 applies not only to the content of the information but also to the means of transmission or reception since any restriction imposed on the means necessarily interferes with the right to receive and impart information” (par. 36).
Nel caso in questione, la Corte condivide la ricostruzione del ricorrente, secondo cui l’app era progettata per permettere agli utenti di pubblicare foto e commenti attraverso mezzi informatici, conformemente alla Convenzione: “the mobile phone application in the present case, the Court is satisfied that what the applicant political party was reproached for was precisely the provision of the means of transmission for others to impart and receive information within the meaning of Article 10 of the Convention” (par. 37).
Sotto il paragrafo “Lawfulness” al punto 38 si legge: “The Court reiterates that, according to its settled case-law, the expression “in accordance with the law” not only requires that the impugned measure should have some basis in domestic law, but also refers to the quality of the law in question, requiring that it should be accessible to the person concerned and foreseeable as to its effects”. Non era necessario considerare se la multa fosse stata “prescribed by law” poiché non perseguiva comunque un “legitimate aim” (par. 40).  La Corte prima ha analizzato l’argomentazione del Governo secondo cui la multa era diretta ad assicurare l’ordinario svolgimento delle procedure di voto e  a garantire l’uso appropriato delle schede elettorali, poi si è allineata con la Kúria relativamente al fatto che la condotta del partito politico non rappresentava un pregiudizio alla segretezza e correttezza del voto. In particolare, la Corte afferma: “while it is true that the domestic authorities established that the use of the ballot papers for any other purpose than casting a vote infringed that provision, the Government have not convincingly established any link between this principle of domestic law and the aims exhaustively listed in paragraph 2 of Article 10” (par. 44). I giudici di Strasburgo  concludono che la sanzione imposta al ricorrente non rientra nella logica della previsione dell’art 10, par. 2 della Convenzione, ravvisando quindi la sussistenza in capo alle autorità ungheresi di una violazione del diritto alla libertà di espressione ex art. 10 della Convenzione.
La Corte ha in questa occasione avuto modo di parametrare una prescrizione nazionale all’art. 10, par. 2 della Convenzione, affermando che i “legitimate aims” in base ai quali sono ammesse limitazioni alla libertà di espressione vanno interpretati restrittivamente.
Tuttavia, una decisione del genere non manca di sollevare profili problematici, che qui si richiamano solo brevemente. La sempre maggiore diffusione di smartphone, se da una parte aumenta le potenzialità della libertà di espressione, dall’altra può anche diventare uno strumento di controllo. Il fatto che la Corte europea abbia ravvisato l’insussistenza della violazione al principio di segretezza del voto, in quanto le foto delle schede elettorali condivise venivano caricate in forma anonima, non lascia del tutto soddisfatti. È infatti noto che nel mondo digitale ogni passo lascia delle scie pressoché indelebili di dati che (per chi è in grado di leggerle) permettono un’identificazione più che probabile del soggetto dietro lo schermo, mettendo così a rischio tale segretezza. Ad esempio, una recente sentenza della nostra Cassazione Penale, sez.V (sent. 9400/2018, depositata il 1°marzo), ha confermato la decisione della Corte d’Appello, che aveva trasformato la pena detentiva in pecuniaria per la violazione della legge sulla segretezza del voto (art. 1, l. 96/2008), perpetrata da un soggetto che aveva fotografato la sua scheda elettorale durante le elezioni del 2013, “attuando il pericolo che il precetto penale intende scongiurare”. C’è da dire che in tale decisione il profilo della libertà di espressione non viene neanche richiamato, costituendo reato la sola condotta di introdurre il cellulare nella cabina elettorale, come ricordato anche prima delle elezioni del 4 marzo nelle “Istruzioni per le operazioni degli uffici elettorali di sezione” diramate dal Ministero dell’Interno. Viste le differenti norme a cui è assoggettato il fenomeno nei diversi ordinamenti e visto il ruolo sempre maggiore dei social nel dibattito politico e quindi degli smartphone come strumenti per prendervi parte, sembra prevedibile che il caso Magyar Kétfarkú Kutya Párt v. Hungary non sarà certo l’ultimo in cui la Corte dovrà confrontare libertà di espressione e segretezza del voto.


Redistricting plans e partisan gerrymandering: osservazioni e precedenti in attesa della Corte Suprema sul caso Gill v. Whitford

La Corte Suprema ha aperto il new term il 3 Ottobre, ascoltando la presentazione degli oral arguments relativi al caso Gill v. Whitford. Si tratta dell’appello, proposto dallo Stato del Wisconsin, avverso la sentenza della Corte federale del Western District Whitford v. Gill [15-cv-421 (W.D. Wis. 2017)], con la quale viene individuato un incostituzionale partisan gerrymandering, inficiante il redistricting plan entrato in vigore nel 2011.
Il redistricting, operazione fisiologica della democrazia, avviene periodicamente dopo ogni censimento nazionale. Le finalità sono quelle di garantire l’eguaglianza del voto e l’effettività della rappresentanza, facendo sì che i collegi comprendano un numero pressoché simile di elettori (Reynolds v. Sims [377 U.S. 533, 568 (1964)]). Si è però sfruttata questa procedura manutentiva, fin dai tempi del Padre Costituente Elbridge Gerry, per ritagliare i collegi in modo tale da creare predeterminati vantaggi e svantaggi, a seconda dell’artificialmente creata omogeneità o disomogeneità dei votanti. Si riconoscono diverse “categorie” di gerrymandering, a seconda che si voglia aumentare l’incisività del voto di certi elettori (affirmative gerrymandering), o diminuirla (negative gerrymandering), o mantenere inalterato lo stato della situazione (silent gerrymandering). Nell’ambito di tali “categorie”, si declinano a loro volta varie tipologie di tale pratica, differentemente valutate dalla Corte Suprema. Infatti è copiosa la giurisprudenza che sancisce l’incostituzionalità del racial gerrymandering, inaugurata da Carolina v. Katzenbach [383 U. S. 301 (1966)], consolidata negli anni ‘90 (Shaw v. Reno [509 U.S. 630 (1993)]) e recentemente confermata da Bethune – Hill v. Virginia State Bd. Of Elections [580 U.S. (2017)]. La pratica del partisan gerrymandering è invece diventata uno strumento diffuso nella prassi politica, perché la Corte Suprema, negli ultimi tre decenni, non ha individuato degli standard manageable per determinare quando un plan raggiunga la soglia di incostituzionalità. In proposito si richiama Davis v. Bandemer [478 U. S. 109 (1986)], in cui la Corte stabilisce che sì, la apportionment law dell’Indiana poteva aver avuto un effetto discriminatorio sui Democratici, ma questo effetto non era «sufficiently adverse» da violare la Equal Protection Clause. La maggioranza dei giudici si esprimerà comunque nel senso della giustiziabilità del political gerrymandering, purché sia rintracciabile un «manageable standard». Invece il caso Vieth v. Jubelirer [541 U. S. 367 (2004)] ha ad oggetto la contestazione sia del redistricting plan di singoli collegi che di quello dell’intero Stato della Pennsylvania. La maggioranza dei giudici questa volta è a favore della non giustiziabilità di tutte le political – gerrymandering claims. Il Justice Kennedy, nella sua concurring opinion, lascia però aperta una possibilità, dicendo che «a limited and precise rationale [may still be] found to correct an established violation of the Constitution in some [partisan] redistricting cases». Alla luce di tali precedenti, i corpi legislativi degli Stati si sono convinti di poter ricorrere al partisan gerrymandering pur di non violare il principio one – person, one – vote e di non incidere sull’effettività dei voti espressi da minoranze etniche tutelate. A beneficiare di tale pratica sono stati negli ultimi anni i Repubblicani, che hanno riportato un significativo vantaggio al Congresso: le stime suggeriscono che il gerrymandering sia costato ai Democratici, alle elezioni del 2012, tra i 20 e i 41 seggi.
La sentenza sul caso Gill v. Whitford, attesa per giugno 2018, potrebbe però cambiare la situazione. A differenza dei precedenti casi, che non hanno trovato riconoscimento nelle sentenze della Corte Suprema, le contestazioni alla base dell’azione originaria trovano la loro base nel Primo Emendamento oltre che nel Quattordicesimo. Si richiama a questo riguardo la questione di costituzionalità dell’apportionment dei congressional districts del Maryland, per decidere sulla quale la Corte Suprema (Shapiro v. McManus [577 U. S. (2015)]) sancisce la necessità un panel di tre giudici e l’obbligatorietà di una statuizione nel merito sulla ridefinizione dei collegi in base al First Amendment, anche qualora non sia possibile basare l’azione sulla Equal Protection Clause. Ma ritorniamo in Wisconsin: è il 2010, e, per la prima volta in più di quarant’anni, sono stati eletti un Governatore repubblicano e una maggioranza del medesimo orientamento, sia alla State Assembly che allo State Senate. Forte di tale omogeneità, la leadership repubblicana elabora una voting district map. Gli attori sostengono che l’Act 43 «treats voters unequally, diluting their voting power based on their political beliefs, in violation of the Fourteenth Amendment’s guarantee of equal protection» e «unreasonably burdens their First Amendment rights of association and free speech». La Corte federale dichiara a maggioranza l’incostituzionalità del redistricting plan del 2011 e ordina di metterne a punto un altro in vista delle elezioni di Novembre 2018.
Rivolgendosi alla Corte Suprema, gli appellanti sostengono che tale «unprecedented decision violates this Court’s caselaw in several respects and should not be permitted to stand». Si fa notare che, nel 2011, per la prima volta da decenni, dei rappresentanti democraticamente eletti hanno avuto l’occasione di ridisegnare i distretti elettorali, visto che negli anni ’90 e ’00 erano state le federal courts a farlo. Inoltre, si evidenzia che il piano, oltre ad essere coerente con i tradizionali principi di contiguità, compattezza e rispetto per le suddivisioni politiche, abbia dato dei risultati piuttosto simili a quelli delle più recenti elezioni tenutesi con i court – drawn plans. Si lamenta la violazione di Vieth v. Jubelirer [541 U. S. 367 (2004)], in particolare del principio di non giustiziabilità del political gerrymandering. Si richiama altresì Davis v. Bandemer [478 U. S. 109 (1986)], per sostenere che la contestazione all’Act 43 avrebbe dovuto riguardare non l’intero Stato, ma si sarebbe dovuto procedere ad un’analisi distretto per distretto e perché alla base dell’azione originaria non si rinvengono elementi in grado di dimostrare la «intentional discrimination against an identifiable political group and an actual discriminatory effect». Si censura inoltre l’utilizzazione, ai fini della decisione, di test sviluppati su parametri quantitativi finalizzati a provare il preteso “spreco” di voti democratici.
Dopo l’esposizione degli oral arguments, bisogna attendere le decisioni dei giudici, di uno in particolare: il Justice Kennedy. Nel caso Vieth si era creata nella Corte una situazione simile e Kennedy si era schierato con i giudici di area conservative, pur se la sua concurring opinion lasciava aperto lo spiraglio alla futura introduzione di standard adeguati per identificare il partisan gerrymandering. Per i quattro giudici di area liberal, questa potrebbe essere l’occasione per porre un freno alla prassi che vede i partiti ricorrere a strumenti tecnologici sempre più sofisticati per disegnare mappe elettorali in grado di assicurare loro, per anni, dei vantaggi, sia nelle state legislatures che al Congresso. Il Justice Roberts ha fatto invece chiaramente comprendere che i parametri non risultano a suo avviso ancora chiari e l’interferenza della Corte in questioni strettamente attinenti la sfera politica finirebbe per danneggiare la sua integrità. Tuttavia, pare opportuno osservare come la Corte Suprema, proprio a causa della posizione assunta dai giudici tradizionalmente di linea conservative, sia intervenuta incisivamente su tale sensibile materia (ad esempio nella sentenza Shelby County v. Holder [570 U. S. 2 (2013)]. Ritornando alle considerazioni più rilevanti emerse durante la presentazione degli oral arguments nel caso Gill, ci si sofferma sull’attenzione posta dagli attori originari, nella produzione di una serie di test su base quantitativa, per cercare di raggiungere il «judicially manageable standard» tanto a lungo vagheggiato. Tuttavia, i giudici liberal sembrano preferire delle prove più immediate. Il Justice Breyer, dopo aver chiamato i briefs prodotti dagli esperti «social – science stuff and computer - stuff», definendoli «a little complicated», ha proposto un controllo in tre fasi che corrisponde alle seguenti domande: se la redistricting map sia stata disegnata sotto la guida di un solo partito, se si è verificata la vittoria schiacciante di una parte, se si registra un vantaggio duraturo di una parte pur se l’altra ottiene più voti. La Justice Kagan più realisticamente sottolinea che, se coloro che disegnano le mappe hanno a disposizione tali strumenti avanzati, le corti devono essere in grado di valutare la costituzionalità degli effetti che producono. Anche se non è stato citato negli oral arguments, c’è un amicus brief di un gruppo di storici che definisce il gerrymandering un «uncostitutional affront» alla democrazia come edificata dalla Founding generation, nata in opposizione alla nozione britannica di «virtual representation». Non resta che aspettare giugno 2018, per vedere se l’Efficiency Gap e il Federalist No. 57 si riveleranno strumenti utili ai giudici per decidere sulla sorte costituzionale del partisan gerrymandering.


Aspettando la Grande Chambre: uno sguardo alla sentenza Lorefice c. Italia e alla giurisprudenza precedente in materia di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello nel processo penale.

Con la sentenza Lorefice c. Italia del 29 giugno 2017, pronunciata su ricorso n. 63446/13, la Prima Sezione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato all’unanimità l’Italia per aver violato l’art. 6 par. 1 della Convenzione. Nel caso in oggetto, il principio dell’equo processo risulta leso a causa della mancata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale nel giudizio penale di appello. Negli ultimi anni, i giudici di Strasburgo hanno affrontato la medesima questione in relazione ad ordinamenti molto differenti tra loro dal punto di vista dei rimedi processuali (tra le sentenze più significative: Corte e.d.u., Gr. Ch., 15.12.2015, Schatschaschwili c. Germania; Corte e.d.u, Gr. Ch, 15.11.2011, Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito; Corte e.d.u. 5.7.2011, Dan c. Moldavia). I rimedi processuali rispondono all’esigenza di limitare il rischio di incorrere nell’errore e nell’ingiustizia e le strade percorribili per giungere a questo risultato sono due: il riesame effettuato dallo stesso giudice che ha emesso la decisione sottoposta a controllo o la revisione condotta da un giudice superiore. Negli ordinamenti di common law, il potere giudiziario si sviluppa orizzontalmente, cosicché il «primo» giudice sarà presumibilmente anche «l’ultimo»: il controllo «superiore» è un procedimento eccezionale. In questo modello articolato su un unico livello, è altresì possibile proporre un’azione, avente il medesimo oggetto, davanti ad un altro giudice, che potrà allora emettere un giudizio favorevole all’istante o per lo meno bloccare l’esecuzione della precedente decisione sfavorevole. In tale sistema, il giudice dispone quindi della massima discrezionalità nel modificare la sua decisione, in particolare in riferimento al riesame fondato sull’esistenza di una prova nuova. Nel panorama continentale, che invece vede forme di controllo verticale, strettamente legate ad una concezione gerarchica del potere giudiziario, la decisione di primo grado si presume provvisoria e spetta al giudice d’appello il compito di contemperare la necessità di speditezza del processo penale con quella di giungere ad un accertamento senza errori, che porti ad una decisione coerente con il compendio probatorio che emerge dal processo.
Ripercorrendo le vicende alla base di Lorefice c. Italia, si risale al 2009, quando il Tribunale di Sciacca pronuncia sentenza di assoluzione nei confronti del ricorrente, valutando le dichiarazioni rese da due testimoni come inattendibili, imprecise e false (con  conseguente trasmissione degli atti al pubblico ministero, art. 207, co. 2, cpp). Il pubblico ministero e la parte civile si rivolgono alla Corte d’Appello di Palermo, che nel 2012 condanna il ricorrente per i reati di estorsione e detenzione di materiale esplosivo, comminando una pena di 8 anni di reclusione e una multa di 1.600 euro. Tale overruling è dovuto alla rivalutazione in malam partem, operata attraverso una mera rilettura di quanto dichiarato dai testimoni in primo grado. La Corte di Cassazione nel 2013 conferma la sentenza emessa dalla Corte d’Appello e viene allora adita la Corte di Strasburgo, che prevedibilmente accoglie il ricorso. Ai parr. 24 - 25 della sentenza, i giudici rilevano come la Suprema Corte abbia ritenuto che al caso Lorefice non fossero applicabili i principi affermati in Dan c. Moldavia, adducendo che la riforma della sentenza d’appello fosse derivata non dalla differente valutazione della credibilità o meno di un testimone, ma da una lettura logicamente orientata degli elementi di prova travisati dal giudice di prime cure. In realtà la sentenza Dan ammette l’eventualità di una decisione di grado superiore che riformi in peius la sentenza di assoluzione, purché, nell’ipotesi in cui questa derivi da una differente valutazione di prove orali decisive, si proceda ad un nuovo esame dei testimoni. È inoltre uno dei cardini dell’equo processo la possibilità di ottenere l’escussione diretta ed un possibile confronto con i testimoni di fronte al giudice decidente in ultima istanza, dal momento che il controllo di questo sulla credibilità delle dichiarazioni testimoniali avrà conseguenze irreversibili per l’accusato. Al par. 39 si precisa che la violazione non fa capo ad una carenza di tutele apprestate dall’ordinamento interno, ma alla mancata applicazione dello strumento riservato a tale tipologia di situazioni: «La Cour reléve ensuite que, de son côté, la Cour d’Appel de Palerme avait la possibilité, en tant qu’instance de recours, de rendre un nouveau jugement sur le fond, ce qu’elle a fait le 15 février 2012. Cette juridiction pouvait décider soit de confirmer l’acquittement deu requérant soit de declarer celui-ci coupable, après s’être livrée à une appreciation de la question de la culpabilité ou de l’innocence de l’intéressé. Pour ce faire, la Cour d’Appel avait la possibilité d’ordonner d’office la réoverture de l’instruction, conformément à l’article 603 alineà 3 du code de procédure pénale, et procéder à une nouvelle audition des témoins». Al par. 43 i giudici di Strasburgo ribadiscono il principio secondo cui «l’évaluation de la crédibilité d’un témoin est une tâche complexe, qui, normalement, ne peut pas être accomplie par le biais d’une simple lecture du contenu des déclarations de celui – ci, telles que consacrées dans les procès-verbaux des auditions». Nel par. 45 la Corte dichiara di non riscontrare nel caso di specie circostanze che possano esonerare il giudice d’appello dall’obbligo di riassumere “dal vivo” le dichiarazioni sfavorevoli all’accusato. Fra le sentenze citate in questo senso, è opportuno richiamare Corte e.d.u, Gr. Ch., 15.11.2011, Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito, nella quale non si era considerato leso il principio dell’equo processo per l’impossibilità di controesaminare la vittima, in seguito deceduta, unica fonte diretta dell’accusa. A seguito di due testimonianze de relato, la Corte europea stabiliva la conformità all’art. 6 della Convenzione della sentenza di condanna basata sulla prova sola e determinante delle dichiarazioni della vittima fuori dal contraddittorio, bastando che nell’ordinamento interno ci fossero garanzie procedurali tali da bilanciare l’assenza di contraddittorio. Lo Stato italiano, nel caso Lorefice, sostiene proprio che l’ordinamento interno dispone di garanzie procedurali tali da salvaguardare la struttura del procès équitable, le quali, nella situazione in oggetto, prendono la forma della rivalutazione complessiva delle prove, della motivazione rafforzata del giudice di secondo grado e della rinuncia dell’imputato alla rinnovazione dell’esame testimoniale.  Tuttavia, già l’arresto Al-Khawaja in tema di diritto al confronto, era stato messo in discussione dalla successiva Corte e.d.u., Gr. Ch., 15.12.2015, Schatschaschwili c. Germania, che rintracciava la lesione del principio dell’equo processo in relazione ad un procedimento in cui l’imputato era stato condannato per via di dichiarazioni rese durante le indagini dalle persone offese, delle quali era divenuto impossibile l’esame in dibattimento. Ritornando alla sentenza Lorefice, nel par. 47 la Corte di Strasburgo infine giunge a rilevare la violazione dell’art. 6, par. 1 della Convenzione, per l’ipotesi delineata all’art. 6, par. 3, lett. d), che riguarda il diritto dell’imputato ad «esaminare o far esaminare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico».
Questa sentenza giunge a poca distanza dall’art. 1, co. 58, l. 23 giugno 2017, n. 103, che ha predisposto la modifica dell’art. 603 c.p.p.. Il nuovo comma 3-bis prevede che «nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale», introducendo una specifica fattispecie da cui discende l’obbligo della rinnovazione, coerentemente con gli orientamenti convenzionali, anche se stando alla lettera della disposizione, non risulta circoscrivibile il suo ambito di operatività e lasciando così aperte questioni ermeneutiche di rilievo. Attraverso l’introduzione di tale disposizione, si può dire che l’appello si stia sempre più avvicinando alle forme del primo grado, allontanandosi definitivamente dalla riforma del 1988, che configurava il giudizio di secondo grado non come gravame ma come controllo sulla prima decisione.
L’orientamento della Corte Europea era stato, per la verità, già seguito dalle Sezioni Unite della Suprema Corte nella sent. n. 27620/2016, che arrivava a disporre in via giurisprudenziale ciò che la legge lasciava alla discrezionalità dell’organo giudicante. La Cassazione, interpretando l’art. 603 co. 3 cpp ante riforma in modo convenzionalmente orientato, affermava che «la previsione contenuta nell’art. 6, par. 3, lett. d) […] implica che, nel caso di appello del pubblico ministero avverso una sentenza assolutoria, fondata sulla valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, il giudice di appello non può riformare la sentenza impugnata nel senso dell’affermazione della responsabilità penale dell’imputato, senza avere proceduto, anche d’ufficio, a norma dell’art. 603, comma 3, cpp, a rinnovare l’istruzione dibattimentale attraverso l’esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado».
La sentenza Lorefice invita a continuare ad osservare gli arresti della Corte Europea dei Diritti dell’uomo, che sta manifestando orientamenti contrastanti circa la necessità di rinnovare l’attività istruttoria per arrivare ad un ribaltamento della sentenza che assolve l’imputato senza violare il principio dell’equo processo. Una sentenza emessa pressoché contemporaneamente a Lorefice da una diversa sezione (sez. IV, sent. 27 giugno 2017, Chiper c. Romania), segue infatti un iter decisionale totalmente opposto. Il caso è pressoché lo stesso: il ricorrente viene condannato per la prima volta in appello sulla base della rilettura dei verbali delle testimonianze che avevano portato al proscioglimento in primo grado. I giudici di Strasburgo hanno rilevato come il giudice di seconde cure abbia operato una non arbitraria selezione delle prove dichiarative meritevoli di rinnovazione, ritenendo inutile una nuova testimonianza dei querelanti. Si osserva inoltre come, in secondo grado, la difesa non abbia richiesto la citazione di ulteriori testimoni. Si sottolinea altresì l’adeguatezza della motivazione rafforzata predisposta dal giudice d’appello, che ha specificamente passato in rassegna le ragioni alla base del ribaltamento, portando quindi la Corte a non rinvenire una violazione dell’equo processo. Anche nella sentenza Corte e.d.u., Kashlev c. Estonia, del 26 aprile 2016, la Corte aveva registrato l’inesistenza di violazioni dell’art. 6, nel caso in cui l’ordinamento interno avesse assicurato adeguate tutele all’accusato. La posizione della Corte di Strasburgo sulla delicata materia della rinnovazione dell’istruttoria in appello, che fa capo al più ampio tema del diritto al confronto, non è certo monolitica e sebbene si ritenga maggioritario l’orientamento favorevole alla riedizione della prova testimoniale sola e determinante in appello, non si può definire consolidato, a fronte delle non trascurabili pronunce che vanno in direzione opposta. Una sentenza della Grande Chambre in materia appare quindi opportuna se non necessaria.


Il “diritto alla speranza” è l’ultimo a morire? L’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo nella giurisprudenza della Grande Chambre, da Vinter and others v. United Kingdom a Hutchinson v. United Kingdom

Il 17 gennaio 2017 la Grande Chambre ha rigettato il ricorso n. 57592/08, Hutchinson v. United Kingdom, proposto da un condannato all’ergastolo, che lamentava, in relazione alla pena comminatagli, la violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Pur con tre dissenting opinions, i giudici di Strasburgo dichiaravano l’insussistenza dell’inosservanza del divieto di trattamenti degradanti e inumani, ribaltando così i principi stabiliti nel caso Vinter and others v. United Kingdom (ricorso n. 66069/09).
Con la sentenza del 9 luglio 2013, la Grande Chambre aveva infatti affermato che il carcere a vita senza alcuna possibilità di rilascio (life imprisonment without parole), costituiva di per sé una violazione dell’art. 3 della Convenzione. Chiarificatrice in questo senso, era stata la concurring opinion del giudice Ann Power – Forde: “Article 3 encompasses what might be described as the right to hope […] Those who commit the most abhorrent and egregious of acts and who inflict untold sufferings upon others nevertheless retain their fundamental humanity and carry within themselves the capacity to change. Long and deserved though their prison sentences may be, they retain the right to hope that, someday, they may have atoned for the wrongs which they have committed. They ought not to be deprived entirely of such hope. To deny them the experience of hope would be to deny a fundamental aspect of their humanity and to do that would be degrading”. La Corte aveva riscontrato la violazione convenzionale perché la legge vigente nel Regno Unito non era in grado di garantire una reale opportunità di modificare le condizioni degli ergastolani. In realtà il Secretary of State aveva il potere di far rilasciare il detenuto in circostanze particolari, riferite a chi si fosse trovato in condizioni di malattia terminale o totale incapacità, come indicato nel c. d. Lifer Manual (Prison Service Order 4700 2010, 12.2.1). Secondo la Corte, questa forma di compassionate release non si poteva considerare una liberazione a tutti gli effetti. Nella sentenza, i giudici di Strasburgo non chiedevano l’immediato rilascio dei ricorrenti, ma affermavano che un sistema legale che non fosse stato in grado di offrire un’effettiva e chiara definizione delle opportunità di ritornare liberi, infrangesse il principio insito nell’art. 3 della Convenzione.
Se è vero che la decisione Vinter non si dimostrava di immediato favore per i ricorrenti, aveva tuttavia avuto riverberi in casi successivi, primo fra tutti Trabelsi v. Belgium (ricorso 140/10). La Corte aveva evidenziato l’infrazione del divieto di cui all’art.3 della Convenzione, nell’ipotesi di estradizione del ricorrente in uno Stato in cui si sarebbe probabilmente visto infliggere la pena del carcere a vita. La logica della decisione va rintracciata nel fatto che non solo il carcere a vita, ma anche il rischio di esservi sottoposti, ricade nella definizione di trattamento degradante e inumano. La sentenza Vinter ha avuto implicazioni ad un livello profondo: in questa occasione la Corte ha enfatizzato la sua adesione agli ideali di riabilitazione e reintegrazione dei criminali pericolosi. È difficile comprendere come il carcere a vita, rimuovendo irreversibilmente l’individuo dal contesto civile e condannandolo di fatto alla morte sociale, sia in grado di concorrere a determinare l’attitudine al cambiamento dell’internato. Sulla scia di questo orientamento, gli Stati venivano obbligati a introdurre programmi di reinserimento anche per i condannati all’ergastolo, in modo da rendere comunque possibile, anche se remota, l’eventualità della loro reintegrazione nella società. Si può dire che con tale decisione la Corte superava quel retaggio di derivazione contrattualistica stando al quale il carcere a vita sarebbe stato una sorta di surrogato della pena di morte.
Il 3 febbraio 2015, la Corte, decidendo su una vicenda simile a quella trattata in Vinter, Hutchinson v. United Kingdom, affermava però la non sussistenza della violazione dell’art.3 della Convenzione. I giudici si soffermavano su come la English Court of Appeal avesse sufficientemente chiarito i criteri per individuare i casi in cui può sopravvenire la liberazione ad opera del Secretary of State dei carcerati a vita. Nonostante non fosse intervenuta alcuna modifica del Lifer Manual, la Court of Appeal aveva spiegato come il Secretary of State fosse direttamente vincolato dalle decisioni dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Dopo questa sentenza, la situazione poteva però dirsi tutto fuorché chiarita: la Corte non aveva esplicitamente overruled la precedente statuizione della Grande Chambre sulla questione, ma nemmeno la aveva accolta e rimaneva l’interrogativo se il Lifer Manual potesse essere considerato “good law”.
Con la decisione della Grande Chambre del 17 gennaio 2017, relativa al caso Hutchinson, siamo di fronte ad un’interpretazione evolutiva che abbassa, anziché innalzare, il livello di protezione dei diritti dell’individuo. La Corte richiamava la decisione McLoughlin della Court of Appeal of England and Wales (2014), che aveva spiegato quale dovesse essere la legge applicabile nelle condizioni verificatesi. Grazie all’indicazione di tale parametro, a differenza di quanto avveniva nel 2013, la Corte non poteva ora riscontrare una violazione dell’art. 3 della Convenzione: “The Court considers that the McLoughlin decision has dispelled the lack of clarity identified in Vinter arising out of the discrepancy within the domestic system between the applicable law and the published official policy. In addition, the Court of Appeal has brought clarification as regards the scope and grounds of the review by the Secretary of State, the manner in which it should be conducted, as well as the duty of the Secretary of State to release a whole life prisoner where continued detention can no longer be justified on legitimate penological grounds. In this way, the domestic system, based on statute (the 1997 Act and the Human Rights Act), case‑law (of the domestic courts and this Court) and published official policy (the Lifer Manual) no longer displays the contrast that the Court identified in Vinter […] The statutory obligation on national courts to take into account the Article 3 case-law as it may develop in future provides an additional important safeguard”.
Prima della sentenza Vinter, il Secretary of State poteva rivedere una condanna a vita solo in un ristretto numero di casi, ma in realtà anche dopo non si erano verificate applicazioni in senso estensivo delle condizioni determinanti la liberazione, in quanto il Lifer Manual era ancora in vigore e non aveva subito modifiche. In secondo luogo, la Court of Appeal in McLoughlin suggeriva che “The Manual cannot restrict the duty of the Secretary of State to consider all circumstances relevant to release on compassionate grounds. He cannot fetter his discretion by taking into account only the matters set on in the Lifer Manual”. Prima di questo disposto, successivo alla sentenza Vinter, la Corte Europea considerava la più risalente statuizione della Court of Appeal sul caso R. v. Bieber (2008): “At present it is the practice of the Secretary of State to use this power (to release) sparingly, in circumstances where, for instance, a prisoner is suffering from a terminal illness or is bedridden or similarly incapacitated. If, however, the position is reached where the continued imprisonment of a prisoner is held to amount to inhuman or degrading treatment, we can see no reason why, having particular regard to the requirement to comply with the Convention, the Secretary of State should not use his statutory power to release the prisoner”. Emerge come il giudice inglese fosse dell’idea che il Secretary of State potesse andare oltre quanto previsto dal Lifer Manual (anche se nella pratica non c’era stata alcuna applicazione in termini più ampi dei poteri suddetti). In terzo luogo, la Corte richiamava lo Human Rights Act del 1998 (entrato in vigore nel 2000), affermando che il Secretary of State, decidendo sul possibile rilascio dei detenuti, avrebbe dovuto riferirsi agli orientamenti giurisprudenziali della Corte. Già nel 2013, anno della sentenza Vinter, lo Human Rights Act avrebbe potuto essere tenuto in considerazione dal Secretary of State. Da ultimo, la Corte lamentava in Vinter la mancanza di chiarezza in relazione all’esistenza di un termine entro il quale potesse aversi una modificazione delle condizioni del carcere a vita, mentre in Hutchinson statuiva che ciò non era un problema, perché il detenuto poteva rivolgersi al Secretary of State in ogni momento dell’espiazione della pena comminatagli.
Nella sua dissenting opinion, il giudice Pinto de Albuquerque sottolineava come con la decisione della Grande Chambre di ritornare indietro rispetto al dictum Vinter, si stesse assistendo ad una “existential crisis” della Corte, in cui “the pre-catastrophic scenario is now aggravated by the unfortunate spill-over effect of Hirst on the Russian courts”. Il giudice faceva risalire l’origine di questa crisi all’argomentazione riguardante le “rare occasions” contenuta in R. v. Horncastle [2009] UKSC 14, [2010] 2 A.C. 373, in cui la House of Lords osservava come la Convenzione non vincolasse le Corti inglesi alle sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, limitandosi ad affermare che queste ultime dovessero essere prese in considerazione. Così, continua Pinto de Albuquerque, oltre a presentarsi un rischio per la tutela di uno standard uniforme di diritti umani, si presenta anche il rischio che la Corte “will end up as a non-judicial commissiono f highly qualified and politically legitimised 47 experts, which does not deliver binding judgments, at least with regard to certain Contracting Parties, but pronounces mere recommendations on “what it would be desirable” for domestic authorities to do, acting in an mere auxiliary capacity, in order to “aid” them in fulfilling their statutory and international obligations”.
Si può dire che la sentenza Hutchinson non sia un overruling, semmai una lettura di Vinter. Il right to hope rimane quindi ancora uno standard, ma è cambiato il modo in cui la Corte ne definisce i confini. Di certo la sua chiarezza ne risulta scalfita. Se ne possono dare due letture: da una parte, si potrebbe argomentare che quello che emerge dalla Grande Chambre del 17 gennaio 2017 sia un parametro applicabile al solo Regno Unito, mentre per gli altri Stati continuerebbe ad essere valido il principio stabilito in Vinter, con l’infausto risultato però di creare un “doppio binario” nella protezione dei diritti umani. D’altra parte, si potrebbe dire che Hutchinson giustifichi un più ampio margine di apprezzamento per le Parti Contraenti in questa determinata materia, causando quindi un allentamento dell’applicazione dei principi faticosamente affermatisi attraverso la giurisprudenza di Strasburgo. È comunque possibile che la Corte riveda il suo ultimo statement e ritorni sul sentiero tracciato da Vinter, qualora il Secretary of State dovesse continuare a far uso dei suoi poteri in maniera restrittiva e quindi rendendo ineffective il right to hope.