Sulla recente nomina di quattro giudici del Tribunal Constitucional tra nuove e vecchie aporie

1.Il Tribunal Constitucioñal de España (TC), a norma dell’art. 159, c. 1 della Constitución Española (CE) si compone di 12 membri di nomina regia vincolata all’esito dell’elezione da parte del Congreso de los Diputados (4), del Senado (4), del Gobierno (2) e del Consejo General del Poder Judicial (2), conducendo inevitabilmente a una spiccata politicizzazione di una istituzione che per sua natura non dovrebbe dipendere da logiche partitiche.
Secondo l’art. 159, c. 2, CE (ma si v. anche l’art. 18 della Ley orgánica del Tribunal Constitucional, LOTC), gli organi cui compete l’elezione non operano in modo del tutto discrezionale, dovendosi comunque rivolgere necessariamente a soggetti di cui si assume l’elevata competenza e professionalità; i membri del TC dovranno, quindi, essere scelti fra giudici e pubblici ministeri, professori universitari, funzionari pubblici e avvocati, tutti giuristi di nota competenza e con più di quindici anni di pratica professionale. È escluso qualunque limite di scelta fra le categorie dei soggetti eleggibili, potendo tutti i poteri scegliere liberamente tra una qualsiasi delle diverse professioni. Anche se la prassi, per come vedremo, ha sempre fatto ricadere la scelta su soggetti appartenenti solo ad alcune di queste categorie e non su tutte.
Inoltre, i membri del TC «saranno nominati per un periodo di nove anni e si rinnoveranno per un terzo ogni tre anni» (ex art. 159, c. 3, CE).
La logica del rinnovo parziale a cadenza triennale di un terzo dei membri (art. 16 LOTC) ha comportato nel corso dei lustri una sorta di contrapposizione tra gli stessi magistrati (valutata tale non solo dall’esterno) ciascuno espressione di forze politiche appartenenti o al blocco progressista o a quello conservatore. Da alcuni anni a questa parte, questo contrasto tra blocchi politici si è acuito – in concomitanza con la pubblicazione di decisioni ‘rilevanti e influenti’ – tanto da determinare la perdita di ‘prestigio’ del TC. La prevedibilità di alcune decisioni del Tribunal dipendeva sovente non tanto dal suo essere un organo giurisdizionale quanto piuttosto dalla composizione politica del momento.
Fra le cause che hanno contribuito a mettere in discussione la legittimazione del TC v’è di certo la pubblicazione della sentenza n. 31/2010 depositata dopo ben cinque anni dall’atto di ricorso e tacciata di intrinseca politicità, anche alla luce della ricusazione del giudice Pablo Pérez Tremps, dell’ampio ricorso ai votos, così come del mancato rinnovo di diversi giudici costituzionali che hanno operato in regime di prorogatio, e alcuni di essi fino a ben tre anni dalla scadenza ordinaria del mandato. Si può richiamare anche la pronuncia (ordinanza n. 81/2008) con la quale il TC ha accolto l’istanza di ricusazione avanzata dal Governo (per la prima volta da tale organo) contro i magistrati costituzionali García-Calvo y Montiel e Rodríguez-Zapata Pérez nel ricorso contro la riforma della LOTC.
È proprio nel voler mantenere l’equilibrio creatosi fra l’anima progressista e quella conservatrice che hanno trovato linfa il ritardo nelle nomine dei nuovi giudici (da imputarsi sempre e solo alle nomine degli otto giudici di spettanza delle Cortes) e le ricusazioni che hanno inteso mettere in discussione il bilanciamento a favore di un blocco e a detrimento dell’altro. Come si vede, quindi, lo stallo nel processo di nomina viene usato dai gruppi parlamentari per incidere sulla composizione del TC, e per giungere a tale risultato il ritardo può prolungarsi anche di anni dalla scadenza ordinaria del mandato.
Il blocco delle nomine del 2010 ‒ che produsse quel grave danno d’immagine di cui si diceva ‒ è alla base della riforma dell’art. 16, c. 5, LOTC introdotto con la LO 8/2010: «[s]e ci fosse ritardo nel rinnovo di un terzo dei magistrati, ai nuovi designati si detrarrà dal mandato il tempo di ritardo nel rinnovo», anche se tale modifica parrebbe (più che) in contrasto con quanto dispone l’articolo 159, c. 3, CE che prescrive la durata novennale del mandato.
2.Lo scorso 18 novembre hanno giurato come giudici costituzionali i nuovi quattro componenti del collegio del TC, tutti e quattro eletti dal Congreso: Juan Ramón Sáez Valcárcel (Magistrado de la Sala de lo Penal de la Audiencia Nacional), Enrique Arnaldo Alcubilla (Catedrático Derecho Constitucional), Concepción Espejel Jorquera (Magistrada de la Sala de lo Penal de la Audiencia Nacional) e Inmaculada Montalbán Huertas (Magistrada Tribunal Superior de Justicia de Andalucía).
La notizia dello sblocco delle trattative tra il Governo e il Partito Popolare per l’elezione dei giudici costituzionali è stata accolta in modo tanto inaspettato quanto critico.
Il Governo di coalizione e il maggiore partito dell’opposizione hanno convenuto, per l’appunto, di siglare un accordo per l’elezione dei quattro nuovi giudici del Tribunal Constitucional e per il rinnovo di tutte le altre istituzioni di garanzia: il Tribunal de Cuentas, la Agencia de Protección de Datos e il Defensor del Pueblo, tranne che del Consejo General del Poder Judicial (CGPJ). In tal modo si è data una risposta partitica a un problema istituzionale: superare il bloqueo, seppur parziale, degli organi costituzionali in Spagna.
3.Con riguardo alle nomine dei giudici costituzionali si può avanzare qualche osservazione critica a valle di alcune questioni: il ritardo accumulato di quattro mesi, tranne che per un magistrato dimessosi nell’ottobre 2020; la scarsa componente di professori fra i magistrati eletti; la preponderante presenza di giudici non appartenenti al Tribunal Supremo e specializzati nella materia penalistica; un accordo giunto in ritardo e realizzato ‘al ribasso’ (accordo vs consenso).
Oltre a rilevare positivamente il pieno rispetto del principio di pari opportunità (2 donne e 2 uomini), si sottolinea come il ritardo accumulato non era comunque tale da determinare il grave pericolo di blocco dell’attività istituzionale ‒ cosa che può accadere ad esempio per la Corte costituzionale italiana per la cessazione automatica del mandato ‒ in quanto in Spagna vige l’istituto della prorogatio (art. 17, c. 2, LOTC). Tale istituto, però, ‒ pur riuscendo a garantire la continuità della funzione dell’organo ‒ sicuramente non stimola l’elezione dei nuovi giudici, incentivandone finanche l’inerzia degli organi eligenti. L’istituto della prorogatio (rectius la sua evidente torsione politica) finisce così per costituire il fondamento per prolungare sine die la permanenza dei membri scaduti, nella misura in cui i giudici che hanno terminato il loro mandato sono prorogati fino alla loro sostituzione. Questa misura, a ben vedere, è finalizzata a garantire il costante e continuativo funzionamento dell’organo costituzionale e non già la risoluzione del problema dei ritardi, che in Spagna come in Italia, del resto, è lontano dal trovare una soluzione.
Anche per questo dicevamo che la notizia del superamento dello sblocco di una situazione di paralisi politico-parlamentare si è presentata inattesa, se non proprio insperata. Allo stesso tempo, però, la notizia – e più precisamente l’accordo nella sua articolazione – è apparsa subito deludente per le modalità del patto-spartitorio (si vota il candidato ‘altrui’ nella misura in cui viene accettato il ‘proprio’ candidato) e per il profilo dei candidati la cui scelta ha messo in discussione una convenzione che durava (al netto di non trascurabili eccezioni) da ben quarant’anni: da quel 1980 ricordato come l’anno in cui si instaurò il primo Plenum che, a parere di tutti, costituì il più autorevole consesso nel quale il TC abbia operato. Le ultime elezioni non si mostrano ossequiose della convenzione in virtù della quale la designazione da parte del Congreso ricade (quasi esclusivamente) su professori ordinari (in particolare di diritto costituzionale) e quasi mai su membri di estrazione giurisdizionale (di solito eletti dal CGPJ) che in ogni caso (con rarissime eccezioni) sono giudici del Tribunal Supremo. Ora, fra gli eletti vi è un solo professore (costituzionalista) e ben tre magistrati.
Qui, rispetto alla scelta che è ricaduta su giudici e non già su professori può proporsi solo qualche rapida osservazione (pur non verificabile) sui motivi che hanno mosso l’organo cui compete l’elezione, senza volerne attribuire alcuna patente di ragionevolezza. Intanto, soprattutto un TC con al suo interno una importante competenza penalistica sarà presto chiamato ad affrontare le difficili questioni poste tanto dal diritto penale internazionale (caso Puigdemont) quanto dal diritto penale sostanziale (aborto ed eutanasia). Inoltre, la maggiore presenza di giudici pare foriera di una persistente valutazione del TC come Tribunal de amparos, quasi si continuasse a guardare al massimo organo di garanzia costituzionale come giudice (di controllo) di quarta istanza. Stanti le recenti nomine, ulteriore tensione potrebbe derivare proprio con il Tribunal Supremo per il fatto che giudici di grado inferiore ‘controllerebbero’ quelli appartenenti ai gradi superiori della giustizia spagnola. Anche se nel TC è presente una componente maggioritaria di giudici non si dovrebbe comunque arrestare quel processo riformatore ormai avviato dalla legge organica n. 6/2007 teso a trasformare il TC da ultima istanza per il controllo del giudiziario (Tribunal de amparos) a organo capace di svolgere tutte le competenze che costituzionalmente gli appartengono, ovverosia quelle relative al controllo della legittimità costituzionale della legge e alla risoluzione dei conflitti di attribuzione. Inoltre, potrebbe persino dirsi ‒ in termini quasi provocatori ‒ che è come se appartenesse al solo giudice il carattere della terzietà e imparzialità che al professore mancherebbe per statuto.
Guardando sempre alle recenti nomine, forse non si è seguita ‘la strada’ più opportuna eleggendo chi (dalla stampa delle ultime settimane) è ricordato per i suoi legami (anche strettissimi) con la politica anziché membri di riconosciuto prestigio: il rischio ‒ più politico che dommatico ‒ è che si possa minare l’autorevolezza di un organo la cui indipendenza e imparzialità non possono mai essere messe in discussione.
Detto questo, le responsabilità personali e professionali degli eletti evidenziate dalla stampa non sono tali da inficiarne l’elezione (visto che la verifica dei requisiti richiesti ha superato il vaglio, effettuato dal Tribunal medesimo in composizione plenaria – ex art. 10, c. 1, lett. i), LOTC –, con nove voti a favore e uno solo contrario); esse pongono però il TC su un percorso ‘in salita’. Quella appena rinnovata è una composizione che potrà godere di un’autorevolezza non già acquisita ma da acquisire e ciò non sarà semplice anche alla luce dell’abbrivio dei lavori del rinnovato consesso che non è fra i più favorevoli. Già si profila la minaccia di un’alluvione di richieste di ricusazione, nel mentre si attende entro un mese la sentenza ‘delicata e divisiva’ sulla legge relativa all’aborto sulla quale ricade un ricorso presentato ben undici anni fa non ancora risolto e su cui (ora) si vorrebbe (continuare ad) attendere in vista del nuovo rinnovo previsto per il prossimo giugno con l’ingresso di 4 nuovi giudici (designati 2 dal Governo e 2 dal CGPJ) che dovrebbero assicurare una maggioranza ‘progressista’ diversa da quella attuale. Tutto questo non può che palesare l’attuale prevalenza, nel TC, dell’anima politica su quella giurisdizionale.
E allora, dal dato costituzionale rileva almeno una prescrizione, quella della elevata maggioranza richiesta per l’elezione (3/5), che deve essere ben presente quando si ipotizzano delle soluzioni in tema di composizione. La ratio che tale disposto sottintende è quella di non consentire alla sola maggioranza governativa la possibilità di ‘disporre’ dell’elezione di un giudice costituzionale: le elevate maggioranze richieste tendono ad escludere derive partigiane, che, d’altronde, sono esplicitamente precluse dalla Costituzione. La trasposizione in Corte dei concreti rapporti di forza parlamentari, infatti, non è prevista a differenza di quanto avviene per altri organi, ai quali non deve essere assicurata indipendenza di giudizio (si pensi alle commissioni permanenti, …).
La funzione di quorum così elevati è quella di spoliticizzare l’elezione ovvero di politicizzarla in modo equilibrato e, quindi, neutralizzato grazie al necessario accordo-consenso tra i gruppi parlamentari (così come del resto richiesto dal procedimento ex art. 204 del regolamento del Congreso de los Diputatos), non essendo, d’altronde, possibile che il Parlamento sia libero di scegliere per sé il proprio giudice (naturale).
Ma si può imputare solo ed esclusivamente alle alte maggioranze richieste la sottoscrizione di un accordo al ribasso e/o il prodursi di un naturale ritardo? Una risposta affermativa rischia di essere tacciata di miopia. Il verificarsi degli accordi spartitori e dei ritardi pare piuttosto derivare dalla torsione politica a cui l’elevata maggioranza richiesta è sottoposta e dietro la quale si nascondono altre ragioni, su tutte quella che spinge i diversi gruppi parlamentari a utilizzare il tempo a proprio vantaggio sine die, per cui maggiore sarà lo scontro più incisiva sarà la forza parlamentare del singolo gruppo nel portare avanti (favorendola) la candidatura da questo caldeggiata. Accrescendo il ritardo aumenta la capacità persuasiva/dissuasiva del gruppo, tanto che il risultato è poi quello della spartizione delle quote e non già quello della ricerca del consenso. Il tutto esacerbato quando nella decisione delle nomine dei giudici del Tribunale Costituzionale entra la spartizione (anch’essa politica) delle nomine di componenti di altre istituzioni e si rischia il bloqueo.
Non si tralascia di considerare che i componenti del TC sono al riparo – al netto (per alcuni) dell’opinione dissenziente – da dipendenze dal mondo politico (alta retribuzione, incompatibilità, immunità, durata del mandato, non immediata rieleggibilità) dal quale ‘staccano il cordone’ lo stesso giorno del giuramento quando diventano giudici alla pari di (rectius uguali a) tutti gli altri. Ciò nonostante, i gruppi parlamentari si prefiggono comunque l’obiettivo di determinare un cambio ovvero un congelamento giurisprudenziale attraverso la designazione (a buon fine o impedita) di magistrati che, condizionando la composizione del TC (e, nell’intenzione, la sua giurisprudenza), possa incidere anche sugli interessi di cui sono, per l’appunto, portatori. Per raggiungere tale risultato essi sono ben disposti a prendersi tutto il tempo loro necessario, finanche procedendo in ritardo con l’elezione.
Ma così non dovrebbe essere: la politica non può piegare il testo (precettivo) costituzionale ai propri fini e alle proprie risultanze, ma piuttosto dovrebbe essere essa stessa rispettosa delle ragioni costituzionali.
Intanto il Boletín Oficial del Estado del 23 novembre 2021 ha pubblicato la nomina di Pedro José González-Trevijano Sánchez come Presidente del Tribunale e di Juan Antonio Xiol Ríos come Vicepresidente. Dalla lettura della stampa spagnola, il primo rappresenterebbe l’anima conservatrice mentre il secondo quella progressista.
Non resta che chiudere questa breve nota riportando le parole del Presidente emerito Juan José González Rivas pronunciate nel suo discorso di cessazione dalle funzioni e che, pronunciate a futura memoria, hanno ricordato il ruolo dell’imparzialità del giudice costituzionale: «estimo que el fuero interno del juez, en el que radica la esencia de su imparcialidad, debe ser debidamente ilustrado con un profundo estudio de los asuntos a considerar y que dicha actitud ética constituye un fuero inviolable, que debe ser respetado por todos: ciudadanos, poderes públicos y medios de comunicación».


In Spagna è riconosciuto il diritto (con limiti) a richiedere e a ricevere l’aiuto medico a morire (con dignità)

1.Lo scorso 18 marzo in Spagna è stata approvata la Ley Orgánica de regulación de la eutanasia con una maggioranza molto più ampia di quella assoluta: 202 voti a favore, 141 contrari e solo 2 astenuti.
Nel mezzo di una situazione di crisi economica, sociale, territoriale e, soprattutto, pandemica, si è proceduto su un tema da sempre definito divisivo e che è stato affrontato e risolto senza che il richiamo all’eticamente sensibile sia stato finalizzato ad arrestare la discussione sulla materia da disciplinare.

2.Nel titolo di questo contributo non si è fatto esplicito riferimento all’eutanasia, anche se tale lemma appare nella stessa rubrica della legge, e ciò per un motivo evidente: il testo normativo analizzato non riguarda solo ed esclusivamente tale pratica ma, più in generale, la prestación de ayuda a morir (eutanasia e aiuto al suicidio). Tale prestazione, infatti, si può mettere in atto con due modalità: la somministrazione diretta di una sostanza al paziente da parte di un medico competente; la prescrizione o la fornitura al paziente da parte del medico di una sostanza da autosomministrare per provocare la morte.
Il termine eutanasia compare solo tre volte nel testo e una sola nella Disposición final primera nella quale si modifica l’art. 143 del Codice penale, con l’aggiunta di un comma che introduce una scriminante procedurale.
Così come specificato dal testo di legge, questa entrerà in vigore dopo 3 mesi dalla sua pubblicazione sul BOE, a esclusione dell’art. 17 che riguarda l’istituzione e la composizione delle Comisiones de Garantía y Evaluación (organi di natura amministrativa), che dovranno essere formate e costituite entro 3 mesi dalla entrata in vigore dell’articolo (il giorno stesso della pubblicazione sul BOE) e non già della legge (tre mesi dalla pubblicazione). Grazie a questo sfasamento temporale, l’entrata in pieno regime delle Commissioni da istituirsi in ogni comunidad autónoma non sarà ritardata rispetto alla entrata in vigore della legge tutta ma sarà ad essa contestuale, e ciò proprio al fine di non ritardare la concretizzazione di un diritto finalmente riconosciuto.
Quindi, nell’ordinamento giuridico spagnolo si introduce l’aiuto medico a morire come un nuovo diritto individuale. In tale quadro, l’eutanasia è descritta in modo chiaro come quella “azione che produce direttamente e intenzionalmente, attraverso una relazione di causa-effetto unica e immediata, la morte di una persona che ne abbia fatto richiesta informata, espressa e ripetuta nel tempo, in un contesto di sofferenza causato da una malattia incurabile che la persona valuta come inaccettabile e che non può essere mitigata con altri mezzi”.
L’articolato è preceduto da un Preambolo, e quindi dai motivi che hanno spinto alla presentazione e all’approvazione di una legge che intende assicurare “una risposta giuridica, sistematica, equilibrata e garantista a una domanda, qual è l’eutanasia, sollecitata dall’attuale società”. Alla base della decisione legislativa vi è stata la volontà politica di parlamentarizzare un dibattito già da tempo avviato in ambito accademico così come in quello della società civile e che ciclicamente e carsicamente si ripropone all’indomani di casi tragici che continuano a non avere una risposta seppur richiesta.
Come sottolineato ormai da anni dalla dottrina, l’odierno dibattito trova l’abbrivio dalla sempre più incisiva influenza che la tecnica (nei paesi ‘sviluppati’) ha sul corpo e più in generale sulla vita di ognuno, tanto che è sempre più ‘naturale’, ad esempio, trovarsi nella condizione di prolungamento dell’aspettativa di vita, anche in condizioni di grave malattia, pur in assenza di cure efficaci e adeguate o di un significativo miglioramento della qualità della vita stessa: comunemente, infatti, si parla di processo del fine vita, in quanto il morire costituisce non tanto un momento, un atto puntuale nel tempo, un fatto ineluttabile, quanto piuttosto una fase (anche lunga), non limitata da una fine imminente.
Tutto ciò è chiaro al Legislatore spagnolo così come lo è lo stretto collegamento che intercorre tra il tema della disponibilità della vita e i diritti fondamentali della libertà, dell’autonomia e del bene della dignità della persona. Ma la tutela di questi diritti, in primis quello della vita, esige che la richiesta di porvi fine tramite un facere da parte di terzi possa e debba essere avanzata ma solo ed esclusivamente in alcune, tassative e legalizzate circostanze.
La tutela della vita e della dignità si assicura proprio garantendo che ogni persona possa sì esprimersi attraverso la propria autodeterminazione, ma sempre nel rispetto di determinati limiti anche quando non si interferisca in sfere giuridiche altrui; d’altronde, in uno Stato costituzionale nessun diritto può considerarsi esente da limiti, e ciò per scongiurare che un diritto diventi tiranno nei confronti degli altri. Per assicurare poi che l’autonomia del richiedente l’eutanasia si esprima nel modo più pieno e libero ed affinché lo Stato possa adempiere al compito di tutelare il soggetto anche contro se stesso, è necessario che il ricorso all’aiuto medico a morire sia ben limitato e rigidamente circoscritto. La legge spagnola, quindi, si inscrive pienamente in quegli ordinamenti definiti come permissivi.
Nel Capitolo I del testo di legge si definiscono i termini impiegati nell’articolato; fra questi – oltre a quello di “malattia grave ed incurabile” – si descrive lo stato di sofferenza grave, cronica e invalidante come quella “situazione che fa riferimento a limitazioni che incidono direttamente sull’autonomia fisica e sulle attività della vita quotidiana, tali da non consentire di badare a sé stessi, nonché sulla capacità di espressione e relazione, e che sono associate a sofferenze fisiche o mentali, costanti e intollerabili per chi ne soffre, con la sicurezza o l’alta probabilità che tali limitazioni persistano nel tempo senza possibilità di cura o di apprezzabile miglioramento. A volte può significare dipendenza assoluta da un supporto tecnologico”.
Nel Capitolo II, invece, si stabiliscono i presupposti per la richiesta di aiuto medico a morire, inteso (lo si ripete) sia come aiuto al suicidio che come omicidio del consenziente (impiegando il lessico codicistico-penalistico italiano): qualsiasi persona maggiorenne, in possesso di cittadinanza o di residenza spagnola superiore a dodici mesi (per impedire il c.d. turismo dei diritti), che soffra di “una malattia grave e incurabile” o di “una patologia cronica, grave e invalidante”, che provochi una “sofferenza fisica e psichica intollerabile”, in piena capacità di agire e decidere, può richiedere e ricevere tale aiuto, a condizione che lo faccia in modo autonomo, cosciente e informato (anche tramite le instrucciones previas) e purché abbia i requisiti tassativamente richiesti dalla legge per ricevere l’ayuda para morir.
In conclusione, si riforma l’art. 143, nei commi 4 e 5, del Codice penale, in maniera che non sarà punibile la condotta del medico che con atti necessari e diretti causa o collabora alla morte di una persona quando questa soffre di una malattia grave e incurabile, …, e che ne abbia fatto richiesta informata.

3.La legge nel complesso rappresenta un baluardo nella difesa dei diritti delle persone più fragili, che già vivono una condizione di grave sofferenza, nonostante rimangano sullo sfondo due aspetti che forse avrebbero potuto trovare una diversa soluzione, in quanto possono non apparire pienamente in linea con un sistema che riconosce un diritto e predispone e regolamenta un più che dettagliato procedimento per la realización de la prestación de ayuda para morir (art. 8).
In primo luogo, è prevista una limitazione della richiesta delle pratiche eutanasiche ai soli maggiorenni. Stante il rilievo riconosciuto al principio di autonomia, alla previsione di precisi limiti e controlli, nonché alla presenza di stati di malattia grave e irrecuperabile, la decisione parlamentare è stata comunque quella di non estendere la praticabilità del trattamento anche ai minori di età (evidentemente ai soli c.d. minori maturi).
È altresì previsto un intervento rilevante da parte della Comisión de Control y Evaluación che è non solo successivo ma anche preventivo alla richiesta di aiuto a morire. Ciò rischia di burocratizzare eccessivamente la procedura anche e soprattutto per la constatazione che già è richiesto un intervento medico duplice per accertare il rispetto dei requisiti prefissati e per limitare al massimo il rischio di errore medico (art. 8, c. 3).
Con specifico riguardo al controllo preventivo svolto dalla Commissione di garanzia, è da valutare favorevolmente la previsione precisa dei termini perentori entro i quali rispondere, un po’ meno quella per cui non si specifica con la dovuta precisione la composizione della commissione regionale dal “carattere multidisciplinare”: si parla genericamente di un numero minimo di 7 componenti fra cui almeno un medico, un giurista e un infermiere, ma senza specificarne la specializzazione; i criteri sono lasciati alla disponibilità di ogni comunidad autónoma così come delle ciudades de Ceuta y Melilla. Il controllo sarà affidato dal Presidente della Commissione a due componenti (un medico e un giurista), il cui eventuale disaccordo non si comprende bene su che basi possa fondarsi. È comunque prevista una procedura per la risoluzione, anch’essa predisposta in tempi stretti. In caso di diniego, il richiedente potrà rivolgersi alla giurisdizione amministrativa.
Dunque, il procedimento dura circa un mese: la richiesta deve essere ripetuta dopo quindici giorni, dopo di che verrà consultato un secondo medico che dovrà scrivere un rapporto; poi interviene la Commissione che in due giorni deve nominare i due membri che in una settimana dovranno stabilire se tutti i requisiti sono stati rispettati; in caso di disaccordo interverrà il Presidente di Commissione, prima, e l’organo giurisdizionale, poi.
Infine, risulta ragionevole la previsione dell’obiezione di coscienza del personale sanitario – di cui sarà costituito un albo (art. 16) – anche perché essa è seguente all’affermazione del diritto a ricevere l’aiuto necessario a morire nonché alla previsione che l’assistenza sanitaria richiesta rientri nel Sistema Nazionale di Salute con finanziamento pubblico (garantendo, comunque, che le prestazioni possano avvenire anche nei centri privati e, se imposto dalle condizioni del richiedente, presso il domicilio). In ogni caso, la prestazione di aiuto a morire non può essere compromessa dall’esercizio dell’obiezione di coscienza (art. 14).

4.Sono passati ventitré anni dalla morte del cittadino spagnolo R. Sampedro procurata con l’aiuto di chi è rimasto ignoto, e ancor di più da quando egli stesso scriveva che “solo il tempo e lo sviluppo delle coscienze qualificheranno la mia richiesta come ragionevole o meno” e rispondeva che “una vita che nega la libertà non è vita” a chi affermava che “una libertà che nega la vita non è libertà”.
Anche dopo la sent. n. 242/2019 della Corte costituzionale, l’Italia verosimilmente non sarà il prossimo Paese a produrre una legislazione in linea con quella spagnola; lo sarà (molto più probabilmente) il Portogallo, anche se il Tribunal Constitucional (con l’acórdão n. 123/2021), lo scorso 15 marzo ha dichiarato incostituzionale parte della delibera legislativa che introduceva in quell’ordinamento una disciplina molto simile a quella iberica. A seguito di un ricorso in via preventiva, il TC non ha rilevato alcuna incostituzionalità nella depenalizzazione dell’aiuto medico a morire (con limiti) per un eventuale contrasto con i principi e i diritti costituzionali, ma si è ‘limitato’ a sottolineare che il Legislatore non aveva ben puntualizzato i requisiti di accesso alla pratica eutanasica, con violazione del principio di determinatezza della legge e con quello della riserva di legge in materia di diritti e delle libertà.
A questo punto, se il Parlamento deciderà di assumere come propri i rilievi formulati dal Tribunal Constitucional de Portugal non vi saranno ostacoli per la pubblicazione ed entrata in vigore della legge, che riconoscerà – in un’altra ‘giovane’ democrazia – l’introduzione nel proprio ordinamento del diritto ad una morte medicalmente assistita previa attivazione di un apposito procedimento amministrativo.


In tema di aiuto al suicidio la Corte intende favorire l’abbrivio di un dibattito parlamentare

La Corte costituzionale, entrando nel merito della questione sollevata dalla Corte d’Assise di Milano nell’ambito della nota vicenda sul suicidio assistito di Fabiano Antoniani, con l’ordinanza n. 207 del 2018 (si scrive ordinanza, ma si legge sentenza), ha rinviato la trattazione delle questioni di legittimità costituzionale sollevate sull’articolo 580 del codice penale.
L’ordinanza segnalata è rilevante sia per i profili processuali che per quelli di merito. Pur intendendo soffermarci in particolare su questi ultimi, non si può non rilevare che la Corte con l’ordinanza in commento ha inventato una nuova tecnica decisoria (A. Ruggeri, Venuto alla luce alla Consulta l’ircocervo costituzionale (a margine della ordinanza n. 207 del 2018 sul caso Cappato), in ConsultaOnline, III-2018, 573), nel senso che, pur palesando l’incostituzionalità nella normativa sottoposta al suo scrutinio, piuttosto che dichiararne l’incostituzionalità ex art. 136 Cost., ha rinviato la trattazione della causa fissando la data dell’udienza al 24 settembre del 2019, previa concessione al Parlamento (a cui è inviata una motivata ‘sollecitazione’) di un periodo di tempo per l’esercizio della sua discrezionalità.
Nel merito, la Corte rileva nell’ordinamento un vuoto di tutela di valori derivante dal divieto assoluto di aiuto al suicidio (art. 580 c.p.) che finisce per limitare «la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost.» (p.to 9 cons. in dir.).
Per la Corte la disciplina codicistica in questione è irragionevole e lo è anche alla luce della legislazione sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento (l. n. 219 del 2017) che, positivizzando solide acquisizioni giurisprudenziali, riconoscono (ex art. 32 Cost.) ad ogni persona capace di agire il diritto di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento sanitario, anche quello salva vita. Vi sono, però, delle situazioni di malattia grave in cui non si dipende da alcun trattamento o nelle quali l’interruzione del trattamento sanitario (con conseguente somministrazione della sedazione palliativa) non determina comunque la fine a breve termine della vita del paziente. In queste situazioni, non disciplinate dalla legge sul consenso informato e sulle DAT, il divieto per il medico che ne sia richiesto di porre in essere trattamenti diretti a determinare la morte del paziente, costringe quest’ultimo a subire «un processo più lento, in ipotesi meno corrispondente alla propria visione della dignità nel morire» (p.to 9 cons. dir.). Se la legislazione sulle DAT obbliga (tranne che in alcuni limitatissimi casi) al rispetto della decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari – la qual cosa non è affatto esclusa dal rilievo costituzionale del valore della vita – per la Corte non vi è ragione per la quale «il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento – apprezzato come contrario alla propria idea di morte dignitosa – conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale».
Quindi, la normativa italiana dell’aiuto al suicidio ha gravi criticità che la rendono irragionevole. La problematica maggiore risiede nel fatto che la norma penale non prende minimamente in considerazione l’autodeterminazione della persona, tutelando l’art. 580 cod. pen. solo ed esclusivamente il bene vita, senza valutare la richiesta di aiuto al suicidio proveniente da persona affetta da malattia grave ed incurabile. Fermarsi a questa affermazione (incostituzionalità per mancata tutela del principio di autodeterminazione), però, significherebbe creare un’intollerabile torsione a favore dell’autonomia del soggetto, svilendo in modo eccessivo e, quindi, irragionevole (perché assoluto), il principio della protezione della vita la cui tutela è compito dello Stato assicurare (l’art. 580 è «funzionale alla protezione di interessi meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento», p.to 6 cons. dir.); è necessario, pertanto, bilanciare. La tutela della vita – ed in particolare la protezione dei soggetti più deboli e vulnerabili – si assicura proprio garantendo che ogni persona possa sì esprimersi attraverso la propria autodeterminazione, ma sempre nel rispetto di determinati limiti anche quando non si interferisca in sfere giuridiche altrui.
L’art. 580 deve, quindi, continuare a garantire la tutela del bene vita, ma anche riconoscere uno spazio di liceità, riconosciuta a chi è affetto da una patologia irreversibile e fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, così come la libertà di porre fine alla propria esistenza tramite la richiesta di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso lento della malattia.
Appare quindi prima facie come l’intervento del Legislatore sia imprescindibile per un primo bilanciamento, ad esempio per assicurare una efficacia erga omnes della normativa (che non sarebbe stata assicurata dalla Corte se si fosse determinata per una interpretativa di rigetto), e per prevedere i casi, i presupposti e le modalità di accertamento della validità della richiesta di aiuto al suicidio. I presupposti fondanti l’ammissibilità della domanda dovrebbero prevedere una richiesta cosciente e libera da parte di un soggetto malato di porre fine alla propria vita; l’espressione del principio personalista e della libera autodeterminazione del soggetto richiedente; il raggiungimento di uno stato di malattia talmente grave da essere definito come irreversibile e da comportare che il vivere non sia più accettabile dalla persona che richiede che la propria vita termini in modo (per lei) dignitoso. In una normativa che legalizzasse l’aiuto al suicidio, il Legislatore (per continuare con esempi sulle questioni da dibattere, molti dei quali richiamati nella stessa ordinanza) dovrebbe altresì accertare che la capacità di intendere e di volere sia piena; che sia previsto un adeguato lasso di tempo tra la richiesta e il compimento dell’atto; che si valuti la fondatezza scientifica della valutazione medica; che si preveda la possibilità di obiezione da parte del medico (si noti che, a differenza di quanto previsto oggi, l’intera normativa deve rilevare nella relazione medico-paziente).
È quindi di tutta evidenza che una decisione di accoglimento secco, limitandosi ad espungere la norma di cui all’art. 580, lascerebbe «del tutto priva di disciplina legale la prestazione di aiuto materiale ai pazienti in tali condizioni [persone vulnerabili], in un ambito ad altissima sensibilità etico-sociale e rispetto al quale vanno con fermezza preclusi tutti i possibili abusi» (p.to 10 cons. dir.).
Quindi, aprire alle pratiche eutanasiche significa non avallare una richiesta di morte tout court – come inopinatamente molto spesso si afferma –, ma dar seguito ad una richiesta di morte dignitosa, che sia limitata e rigidamente circoscritta da presupposti fissati legislativamente. Così come avviene nel caso di richiesta di ricorso all’aborto, è solo la previsione di presupposti che determina uno spazio di liceità.
A ben vedere, la decisione del giudice delle leggi di addivenire ad un rinvio di nuova trattazione rimanda al rapporto – che vi è e che deve esservi – tra Corte e Legislatore e che, in alcune esperienze di giustizia costituzionale, è stato affrontato con la possibilità di decidere circa la modulazione nel tempo degli effetti delle pronunce (di accoglimento) della Corte. Il diritto comparato, quindi, può costituire un interessante angolo di visuale sulla capacità delle Corti Supreme di incidere sulla disciplina dell’aiuto al suicidio (come materia penale particolarmente delicata). Ci riferiamo alla recente decisione della Corte Suprema del Canada (caso Carter v. Canada, del 6 febbraio 2015), che ha sì dichiarato l’incostituzionalità del divieto penale (art. 241.b c.p.) che proibisce in modo assoluto, e quindi, a parere del Collegio, in modo ingiustificato, l’aiuto al suicidio (come pure l’eutanasia attiva), ma, modulando nel tempo gli effetti della pronuncia, ha sospeso gli effetti della sua declaratoria di incostituzionalità per il periodo di un anno. Tale periodo è quello riconosciuto al Parlamento per produrre una legislazione confacente alla motivazione del giudice costituzionale sulla definizione degli stretti limiti all’accesso alle pratiche eutanasiche (per la tutela della categoria dei soggetti vulnerabili) nonché sul diritto dei medici ad esercitare l’obiezione di coscienza e, quindi, sulla determinazione del contenuto del già riconosciuto diritto fondamentale a morire in modo dignitoso. Il Legislatore, poi, pur richiedendo qualche mese in più rispetto al termine concesso, ha normato in materia.
Un’altra Corte è recentemente giunta a medesima conclusione, seppur senza intervenire sul rinvio dei tempi dell’accoglimento, ma anche in questo caso il ‘tempo’ ha giocato un ruolo importante. Ci si riferisce alla Corte Constitucional de Colombia che in una prima decisione (sentencia C-239 de 1997) – benché abbia escluso l’antigiuridicità della condotta del medico che, sotto certe condizioni, aiuta a morire il paziente consenziente – si è limitata a pronunciare un dispositivo contenente una interpretativa di rigetto, non legalizzando, dunque, l’aiuto a morire. Nel dispositivo della decisione era comunque contenuto un monito al Legislatore affinché provvedesse a statuire la disciplina sul diritto alla morte dignitosa: «exhortar al Congreso para que en el tiempo más breve posible, y conforme a los principios constitucionales y a elementales consideraciones de humanidad, regule el tema de la muerte digna». Il tempo da allora trascorso – che secondo l’auspicio appena riferito avrebbe dovuto essere il più breve possibile – non è stato impiegato dal Parlamento colombiano per produrre la legislazione sul diritto a morire, tanto che, nel frattempo, è intervenuta un’altra decisione (la sentencia T-970 de 2014), che, se da una parte ha rinnovato il monito al Parlamento, dall’altra ha ‘ordinato’ al Ministerio de Salud di emanare nel termine perentorio di 30 giorni una direttiva, disponendo tutto il necessario affinché negli ospedali sia pubblici che privati fosse costituito un Comité interdisciplinario per prendere in considerazione le istanze eutanasiche. Con la Resolución n. 1216 del 20 aprile 2015, vale a dire a distanza di diciotto anni dalla prima decisione della Corte Constitucional in materia, il Ministero della Salute colombiano ha approvato le linee guida che definiscono i termini del ‘riconosciuto’ derecho a morir con dignidad.
Ecco, la Corte costituzionale italiana – pur non pronunciando, formalmente, alcuna decisione di fondatezza modulandone gli effetti pro futuro (cosa che le sarebbe preclusa) – ha perseguito lo stesso risultato a cui è giunta la Corte canadese, senza incorrere nel rischio che un suo eventuale monito cadesse nel vuoto, stante anche la ‘lentezza’ con cui il nostro Legislatore procede quando decide di normare su questioni definite ‘eticamente sensibili’. Se la Corte costituzionale avesse deciso per il monito (cosa che avrebbe potuto fare) e questo fosse rimasto senza riscontro, la tecnica della c.d. ‘doppia pronuncia’ (inammissibilità prima, accoglimento poi) le avrebbe permesso di accogliere una questione simile se nel futuro fosse stata nuovamente sollevata, ma, a giudizio dell’intero Collegio, la conseguenza di lasciare nell’ordinamento una normativa non conforme a Costituzione per un tempo non precisato non poteva «considerarsi consentito nel caso in esame, per le sue peculiari caratteristiche e per la rilevanza dei valori da esso coinvolti» (p.to 11 cons. dir.).
La Corte ha quindi sottolineato (si v. sempre il p.to 11 cons. dir.) l’importanza che su questi temi sia il Parlamento a dibattere, almeno per un primo bilanciamento (viene richiamato il monito, rimasto inascoltato, presente in Corte Suprema del Regno Unito, sentenza 25 giugno 2014, Nicklinson e altri, [2014] UKSC 38). Questo perché solo una discussione parlamentare, che è pubblica, permette che su tali temi si produca un dibattito politico serio, supportato scientificamente e dirimente per le tematiche definite eticamente sensibili; solo una decisione politica dopo essere stata assunta potrà essere, poi, valutata come compatibile o meno al testo costituzionale. Questo è lo «spirito» della presente decisione, che si muove in un contesto espressamente definito «collaborativo» e «dialogico» fra Corte e Parlamento (p.to 11 cons. dir.).