Hyatt III e la tentazione dell’overruling

In Nord America, prima della costituzione di un ordinamento federale, i singoli Stati (le ex Colonie) erano considerati entità sovrane, reciprocamente autonome e indipendenti.
Con la ratificazione ed entrata in vigore della Costituzione degli Stati Uniti (1788-1789), gli Stati necessariamente cedevano alcune prerogative sovrane. Tra queste, essi abdicavano alla prerogativa di citarsi in giudizio a vicenda nelle rispettive corti territoriali: conseguenza, dunque, di una costituzione federale, e quindi dell’«eguale dignità e sovranità» degli Stati, era l’imposizione agli stessi di un’immunità reciproca (c.d. sovereign immunity).
Tanto si apprende dalla storia del periodo della fondazione, e in particolare dai dibattiti che hanno accompagnato la redazione dell’Art. III, e dalla storia sottesa all’approvazione (nel 1795) dell’XI Emendamento, nonché dal generale impianto della Costituzione americana.

A questa conclusione è giunta, il 13 maggio 2019, la Corte Suprema degli Stati Uniti, con una maggioranza (5-4) guidata dal giudice Clarence Thomas.

Nel dichiarare che la Costituzione federale impone agli Stati di garantirsi vicendevolmente detta immunità (un cittadino non può, per tabulas, citare in una corte territoriale di uno Stato le autorità di un altro Stato), la Corte revoca espressamente la validità di precedente alla sentenza pronunciata in Nevada v. Hall (1979), nella quale si era invece sostenuto che la Costituzione non obbligherebbe ma permetterebbe agli Stati di riconoscere (o meno) una tale immunità.

La pronuncia merita di essere segnalata (e inviterebbe a un’analisi più approfondita) sotto diversi profili. Tra questi:

a) L’interpretazione proposta dalla maggioranza della Corte. Thomas è ritenuto uno dei giudici originalisti della Corte Suprema. Il c.d. originalismo è una judicial doctrine elaborata nella seconda metà del secolo scorso (risalente agli studi di Berger e Bork), e divenuta bandiera del movimento conservatore che, tramite l’influente Federalist Society, consiglia le amministrazioni Repubblicane nella nomina dei giudici federali.
L’originalismo conosce varie sfaccettature. Quella sposata da Thomas appartiene alla specie di originalismo secondo cui, tramite una lettura neutrale della storia legislativa, è possibile discernere l’intenzione del legislatore, quindi il significato del testo. Diversa, ad esempio, era l’idea di originalismo di un altro giudice della Corte Suprema, Antonin Scalia, che, screditando la storia legislativa, proponeva un approccio misto di testualismo e storia: il significato della norma è quello che sarebbe stato ragionevolmente trasmesso a un cittadino al tempo in cui la legge fu adottata (un significato quindi pubblico-storico).
Ebbene, dopo un succinto excursus sul pensiero in materia di diritto internazionale diffuso al tempo della fondazione (si muove dall’autorità di Emer de Vattel), l’originalismo di Thomas si palesa nella lettura delle norme dell’Art. III e dell’XI Emendamento, interpretate alla luce dei dibattiti delle assemblee costituenti del tempo, come registrati nei biblici Elliot’s Debates.
Tuttavia, a questa chiave di lettura – cui Thomas forse sa di non poter dare il rigore che la sua dottrina esigerebbe (le norme citate disciplinano la giurisdizione delle corti federali, non quella delle corti statali) – la maggioranza della Corte aggiunge quella di natura deduttiva: dal momento che nessuna previsione in Costituzione letteralmente prevede una tale immunità, ma della sua necessità è piena la storia del periodo costituente, essa va data per implicita e necessariamente embedded nella Costituzione.
La disinvoltura di richiami come quello al «constitutional design», al «plan of the Convention», o alla «structure» della Costituzione viene duramente censurata dall’opinione dissenziente firmata dal Stephen Breyer. Replicando con argomento testualista, il giudice Breyer nota che è certamente vero che la Costituzione federale ha privato gli stati di certi diritti sovrani, ma quando ha fatto ciò ha «teso» a essere esplicita (si citano la Import-Export Clause, la Full Faith and Credit Clause): e dove non lo è stata, vale il dettato del X Emendamento, secondo cui tutto ciò che non è espressamente attribuito alla Federazione o proibito agli Stati, va ritenuto di competenza degli Stati o del popolo.

b) Un apparente crossover L’ala liberal della Corte, argomentando principalmente dal testo della Costituzione, si trova a difendere l’impianto federale originario: gli Stati della Federazione dovrebbero poter mantenere la prerogativa sovrana di concedere o meno l’immunità giurisdizionale agli altri Stati della federazione; che poi nella prassi tale immunità sia quasi sempre accordata, visto il timore di vedersela poi negare in futuro, non fa altro che dimostrare la natura di soggetti di diritto internazionale indipendenti (v. p. 10 della dissenting opinion). L’ala conservatrice della Corte, invece, con argomenti extra-testuali e invocando lo spirito o il non-detto della Costituzione, sembrerebbero compattare l’assetto federativo: la pubblica autorità di uno Stato non può citare in un proprio tribunale la pubblica autorità di un altro Stato, e ciò per lo stesso motivo per cui non può decidere da sola dispute riguardanti i confini o diritti fluviali (la natura interstatale della controversia rende inappropriata l’applicazione di una normativa locale).

c) Argomenti per il superamento dello stare decisis. Anche in questo caso l’onere argomentativo è assolto in poche righe (p. 17). Quattro aspetti andrebbero considerati, secondo la Corte, ai fini di un overruling: la qualità del ragionamento contenuto nella decisione, la sua coerenza con decisioni simili, lo sviluppo normativo successivo, l’affidamento maturato sulla stabilità della decisione. Trattando il secondo e il terzo come equivalenti, la Corte ritiene che tutti e tre «confortano la nostra decisione di superare [Nevada ] Hall»: Hall non aveva tenuto conto della comprensione storica della state sovereign immunity, né aveva considerato quanto la privazione dei tradizionali strumenti diplomatici avesse riorganizzato le relazioni tra gli stati; la giurisprudenza in materia, inoltre, mostrerebbe come Hall sia rimasta una pronuncia «anomala». Quanto al quarto argomento a sostegno dell’overruling, si dispiace la Corte per il signor Hyatt, che ha fatto affidamento sulla tenuta del precedente (in una controversia durata peraltro circa un ventennio), ma le perdite economiche cui andrà incontro «non rientrano tra gli interessi che ci persuaderebbero ad aderire a una soluzione sbagliata su un’importante questione costituzionale».

d) Which case the Court will overrule next? Questa è la domanda (retorica) che si pone il giudice Breyer e in essa si racchiude forse il principale motivo di interesse in questa pronuncia.
Quello che occupa la Corte è il terzo episodio della saga Hyatt: le autorità della California avevano accusato Gilbert P. Hyatt di aver simulato un trasferimento in Nevada nei primi anni Novanta per eludere il fisco californiano; ma il modo in cui furono condotte le indagini (con ricerche nei rifiuti domestici, interrogatori ai colleghi di Hyatt, avvicinamento ai suoi familiari) indussero Hyatt a citare in giudizio gli inquirenti californiani in una corte del Nevada; Hyatt vinse la causa, aggiudicandosi un risarcimento inizialmente fissato a circa mezzo milione di dollari. Le autorità californiane, ritenendo di non dover essere affatto chiamate a rispondere davanti a una giurisdizione di altro Stato, avevano invocato l’intervento della Corte Suprema: ciò in un primo momento  sulla base della Full Faith and Credit Clause, che però secondo una Corte unanime non rappresentava motivo per censurare la giurisdizione del Nevada (Hyatt I, 2003); in un secondo momento, davanti agli sviluppi processuali del caso (i giudici del Nevada non avevano ritenuto valido anche per le autorità californiane il tetto massimo al risarcimento previsto invece per i danni cagionati dalle autorità del Nevada), l’ala conservatrice della Corte Suprema cambiò idea, ma non poté raggiungere un verdetto di maggioranza, essendo il collegio allora composto da otto membri (Scalia era da poco deceduto, non era stato ancora nominato il sostituto, e la Corte si divise a metà, 4-4) (Hyatt II, 2017). Ora finalmente si può confermare quanto lasciato intendere in quella sede: ogni Stato ha il dovere di garantire l’immunità giurisdizionale agli altri Sister States.
Il tema della state sovereign immunity, invero, appare di scarsa importanza in sé considerato (e il contenimento della sentenza in appena trenta di pagine, dissenting opinion inclusa, dimostra la poca animazione dei membri della Corte). Lo stesso Breyer nota come siano stati soltanto 14 i casi in cui, nei quarant’anni passati dal caso Hall, uno Stato ha celebrato un processo nelle proprie corti contro le autorità di un altro Stato.
Si tratta di un overruling sostanzialmente innocuo per la tematica coinvolta. Eppure importante per il messaggio che pare sottendere.
Il giudice Breyer rileva come Hall sia stato sempre sostenuto dalla giurisprudenza successiva, seppur con vari distinguishing. Ma se anche ci fosse qualche dubbio circa la sua validità, già solo il fatto che si tratti di una mera indecisione non autorizza la Corte ad abiurare quella decisione: e alla solidità dei precedenti l’ala liberal della Corte è ultimamente molto sensibile.
Nel suo dissenso, infatti, Breyer lascia intendere di avere in mente ben altre tematiche: quella sulle affirmative actions e, in particolare, il diritto all’interruzione della gravidanza.
Quanto a quest’ultimo, è noto come l’overruling dello storico precedente che lo ha riconosciuto a livello federale (Roe v. Wade, 1973) sia da tempo, e sempre di più al centro dello dibattito politico statunitense. È anzi esplicita l’intenzione delle frange più estreme del Partito Repubblicano di provocare un casus ad arte per raggiungere quanto prima una Corte Suprema, che ora sarà più incline a prestare ascolto alle ragioni del movimento c.d. pro-life: le vicende delle ultime settimane sulla legislazione adottata dall’Alabama sono solo l’ultima manifestazione di una consapevole strategia di politica costituzionale, di cui su questo blog Laura Pelucchini ha dato ampiamente conto (link 1, link 2).
Non casualmente Breyer conclude il suo dissenso (p. 13) ricordando alcuni passi della sentenza emessa nel caso Planned Parenthood v. Casey (1992), in cui l’overruling di Roe v. Wade fu evitato grazie al voto del giudice Kennedy, celebre swing justice, ritiratosi proprio lo scorso anno e sostituito da Brett Kavanaugh (le cui posizioni in materia di overruling e aborto sembrano abbastanza delineate). «Un conto – ricorda Breyer – è superare un precedente quando “è divenuto a stento praticabile”, quando “i principi di diritto si sono talmente sviluppati da aver fatto di quella regola poco più di un residuo di una dottrina abbondata”, o quando “i fatti sono talmente cambiati, e sono visti in modo così diverso, da aver privato quella pronuncia di ogni giustificazione o applicazione pratica”». Altro conto, e «molto più pericoloso», ammonisce Breyer, è «contraddire una decisione sol perché cinque Membri di una nuova Corte si trovano d’accordo con i giudici dissenzienti di una precedente Corte su una delicata questione di diritto».
La maggioranza della Corte, con Hyatt III, ha ceduto a questa «tentazione». E potrebbe ricadervi nel prossimo futuro.