Il parlamentarismo britannico alla prova di Brexit: tre punti per spiegare un difficile equilibrio

Quanto è solido il sistema costituzionale britannico? Dopo tre anni di Brexit e di continue incertezze, è una domanda che è inevitabile porsi, al punto che alcuni autori hanno parlato di crisi costituzionale, mentre altri di “europeizzazione” della politica britannica. Entrambe le posizioni fanno giustamente riflettere sull’evoluzione del modello Westminster, e su quale sarà l’impatto complessivo della Brexit nel medio-lungo periodo su una delle più antiche democrazie europee.

L’utilizzo stesso del referendum in un ordinamento che non è avvezzo a tale istituto di democrazia diretta, un hung Parliament ostaggio delle divisioni interne e di 10 parlamentari del DUP, sono tutti sintomi che fin dall’inizio hanno fatto pensare a una profonda trasformazione del sistema costituzionale del Regno Unito. In particolare, è interessante osservare quanto la Brexit abbia messo in crisi il rapporto tra due organi costituzionali, ossia governo e Parlamento, nelle dinamiche del sistema parlamentare britannico. Per spiegare meglio tale crisi, prendiamo in considerazione tre episodi che esemplificano le difficoltà nel rapporto tra Downing Street e Westminster.

Il governo accusato di oltraggio al Parlamento
Un primo indicatore della crisi del rapporto tra Parlamento e governo è dettato dal caso della motion of contempt, votata dai Comuni il 4 dicembre del 2018. L’Erskine May, il principale riferimento per le procedure parlamentari, definisce il contempt (“oltraggio”) al capitolo 15, paragrafo 2, come qualsiasi atto che ostacoli o impedisca al Parlamento o ai parlamentari di esercitare le proprie funzioni e di adempiere ai propri doveri. Inoltre, il testo delinea un concetto di oltraggio piuttosto ampio e flessibile, vincolato più agli effetti che alla categorizzazione degli atti che costituiscono un oltraggio (com’è tipico nelle forme di governo parlamentare). I precedenti maggiormente riscontrati riguardavano la falsa testimonianza in sede di commissioni parlamentari o il rifiuto di fornire le informazioni richieste dal Parlamento. Le sanzioni previste si possono tradurre in una sospensione o, nei casi più gravi, nell’espulsione del parlamentare accusato di oltraggio.

Nel caso della Brexit, si è verificato un caso unico di contempt mosso contro il governo. I primi di dicembre del 2018, il Labour aveva presentato una mozione che accusava i ministri del governo di oltraggio al Parlamento, per la prima volta nella storia del Regno Unito. La motivazione dietro a tale mozione era la mancata pubblicazione integrale del Legal Advice sulla versione definitiva dell’Accordo di Recesso, curata dall’Attorney General Geoffrey Cox. Infatti, il governo guidato al tempo da Theresa May aveva reso pubblico solo una “versione breve” del parere di Cox, che si esprimeva su temi divisivi quali, per esempio, il Protocollo sull’Irlanda del Nord e il cosiddetto backstop. Nonostante le ripetute richieste da parte dell’opposizione, il governo si era rifiutato di pubblicare la versione integrale e aveva spinto perché il Parlamento discutesse e votasse comunque l’accordo entro l’11 dicembre. Tale rifiuto può essere letto come un tentativo da parte del governo di “scavalcare” il Parlamento e di far approvare l’accordo di recesso faticosamente raggiunto con il Consiglio europeo il 14 novembre. Il tentativo di rompere l’equilibrio tra Parlamento e governo è però fallito, in quanto la mozione di accusa di oltraggio al Parlamento è passata con 311 voti a favore e 293 contro. La vittoria dell’opposizione ha portato alla pubblicazione integrale del documento e a una grave “prima volta” nella storia parlamentare britannica.

Un precedente del 1604 per rinviare la Brexit
Un altro episodio che è interessante ricordare è quanto avvenuto nel marzo del 2019, quando lo Speaker della Camera dei Comuni, John Bercow, ha evocato un precedente risalente al 1604 per giustificare il rifiuto di programmare un terzo voto sull’accordo di recesso, già bocciato due volte dalla Camera, senza che fosse stato modificato. Ciò a cui Bercow fa riferimento è il paragrafo 12 del capitolo 20 dell’Erskine May, che prevede che “una mozione o un emendamento che è lo stesso, nella sostanza, rispetto a quanto è stato già deciso durante una sessione non può essere ripresentata durante la stessa sessione” ed è lo Speaker a decidere se la seconda versione della mozione è sostanzialmente uguale alla prima. In passato, era successo già alcune volte che si verificassero casi in cui lo Speaker impedisse una nuova votazione, nello specifico per la prima volta nel 1604 sotto la Presidenza di Sir Edward Phelips.

La sessione del Parlamento britannico, tradizionalmente, dura un anno, ma nel 2017 il governo May aveva approvato una sessione straordinaria di due anni, in vista della scadenza del 29 marzo 2019. Pertanto, a poche settimane dalla presunta data ufficiale del recesso del Regno Unito dall’Unione e dopo essere stata sconfitta due volte, quando il Primo ministro May ha posto di nuovo in votazione l’accordo senza che fosse stato sostanzialmente modificato, John Bercow ha ritenuto opportuno impedire tale votazione. Anche in questo caso, la procedura parlamentare ha avuto la meglio sulla volontà di forzatura da parte del governo, andando a rinforzare il ruolo del Parlamento. Nel caso specifico, inoltre, tale episodio ha segnato un momento fondamentale della Brexit, ossia la decisione del governo di chiedere a Bruxelles la prima estensione della data di uscita, poiché non c’era abbastanza tempo per chiudere la sessione parlamentare e aprirne un’altra, né la certezza di ottenere il sostegno necessario per sospendere l’ordine permanente che impediva di ripetere il voto.

Miller I e Miller II: una ringkomposition?
Nell’ormai celebre caso Miller I, considerato una vera e propria lezione di diritto costituzionale, la Corte Suprema del Regno Unito non ha dubbi: il Parlamento è sovrano, e tale deve rimanere. Il potere legislativo è oggi esercitabile solo attraverso il Parlamento e la sovranità parlamentare è un principio fondamentale della costituzione del Regno Unito, principio che, due anni più tardi, la Supreme Court è tornata a difendere nella sentenza Cherry/Miller II.

Prima di tutto, la Corte Suprema chiarisce che per prorogation si intende l’atto di porre fine a una sessione parlamentare; durante questo periodo di sospensione, le Camere non si possono riunire né votare leggi. Il potere di sospendere il Parlamento rientra tra i prerogative powers della Corona, esercitati di fatto su consiglio del governo. La prima questione investe proprio l’appellabilità di tale “advice”, su cui la Corte Suprema si dichiara competente. Secondo la Corte, infatti, decidere sulla questione non solo non va contro il principio della separazione dei poteri, ma anzi lo attua, evitando che l’esecutivo utilizzi illegittimamente una prerogativa. Successivamente, la Corte traccia una differenza tra gli statutory powers e i prerogative powers. Questi ultimi non trovano fondamento in documento alcuno, pertanto non è semplice tracciarne i limiti, che la Corte individua comunque nei principi fondamentali della costituzione britannica. Ancora una volta, la Supreme Court si trova a dover rimarcare l’importanza della sovranità parlamentare, che deve essere rispettata dallo stesso governo e che sarebbe minata dalla prorogation, impedendo al Parlamento di esercitare le proprie funzioni. La Corte aggiunge che un potere di prorogation illimitato sarebbe incompatibile con il principio della sovranità Parlamentare e, di conseguenza, con uno dei fondamenti della costituzione.

Inoltre, la Corte ricorda che il Regno Unito è una democrazia rappresentativa, in cui il governo, non eletto direttamente dal popolo, esiste perché è legato da un rapporto fiduciario con la Camera dei Comuni, legittimata invece dal voto popolare. Il Primo Ministro, secondo la Corte, ha compresso il ruolo costituzionale del Parlamento, violando un altro fondamentale principio che è quello della accountability. In sostanza, la Corte considera la decisione del PM illegittima e, pertanto, nulla. Rispetto alla prima pronuncia Miller, la Supreme Court evidenzia maggiormente il ruolo del Parlamento nell’ordinamento costituzionale, salvaguardando il nucleo del modello Westminster. Ancora una volta, un organo giudiziario funge da ago della bilancia, nel delicato equilibrio tra Esecutivo e Legislativo. Che sia questa l’ultima pronuncia a riguardo? Solo il tempo risponderà a questa domanda.

Quali prospettive per il modello Westminster?
A fronte dei recenti avvenimenti, lo stato di salute del parlamentarismo britannico può dirsi peggiorato? L’ultima decisione della Corte Suprema può essere considerata emblematica in tal senso? Che sia arrivato, per il Regno Unito, il momento di dotarsi di una costituzione scritta? Per il momento, l’assenza di una carta costituzione è stata colmata dalla rigidità delle procedure parlamentari e dal ruolo esercitato dalla Corte Suprema, che nei due casi menzionati ha agito come una corte costituzionale, mantenendo il sistema in un precario equilibrio.

La Brexit ha sicuramente portato a galla tanti limiti del modello Westminster. Ha frammentato orizzontalmente un sistema storicamente bipartitico, indebolendo il sistema elettorale maggioritario. Ha soprattutto reso evidente che in un parlamentarismo maggioritario il governo non può ignorare il Parlamento in casi di fratture profonde, perché per quanto cercherà di imporre la propria centralità, sarà la supremazia del Parlamento a prevalere. Se mai l’odissea del recesso del Regno Unito dall’UE giungerà al termine, sarà necessario prestare attenzione a se (e come) il sistema costituzionale britannico reagirà a questi anni di trasformazioni.