Divieto di discriminazione e libertà di espressione: un pronunciamento chiaro della Corte Suprema Americana

Con una decisione destinata a far discutere, 303 Creative LLC v. Elenis, la Corte Suprema prende posizione, questa volta in modo chiaro e ben definito, sul bilanciamento tra il divieto di discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e le libertà garantite dal First Amendment.
Già nel 2018, nel caso Masterpiece (qui il testo, qui un commento), la Corte avrebbe potuto dare indicazioni chiare in merito. La nota vicenda riguardava un pasticciere sanzionato da un organo amministrativo statale, la Colorado Civil Rights Commission, per aver negato una torta nuziale per un matrimonio tra persone dello stesso sesso. Nell’opinione della Corte che accoglieva la domanda del pasticciere, Justice Kennedy non affrontava però le questioni relative alla libertà di espressione, pur poste dal ricorrente, ma riteneva che la citata commissione, in questo e in altri casi, si fosse dimostrata ostile nei confronti delle confessioni religiose.
Nel caso in commento, la ricorrente, la 303 Creative LLC, è un’azienda si occupa, tra l’altro, di progettazione siti e servizi di social media management. La signora Lorie Smith è la sola proprietaria e l’unica lavoratrice della società.
La 303 Creative LLC offre i suoi servizi a qualsiasi cliente, senza alcuna discriminazione. Tuttavia, la signora Smith si rifiuta di accettare lavori che implichino espressioni contrarie alle sue convinzioni: non vuole incoraggiare la violenza e neanche promuovere l’ateismo, visto che lei è molto religiosa.
Nel 2018 Lorie inizia pensare di incominciare un nuovo business: la costruzione di siti web personalizzati a favore di coppie in procinto di sposarsi. Ha però un timore: che lo Stato in cui vive e lavora, il Colorado, la obblighi a fornire il suo servizio anche per i matrimoni omosessuali, costringendola quindi a esprimere idee contrarie alla sua coscienza: la signora Smith ritiene che un matrimonio si possa celebrare solo tra persone di sesso differente.
Il Colorado Anti-Discrimination Act (CADA) obbliga tutti gli esercizi pubblici a garantire il pieno e uguale godimento di tutti i beni e servizi offerti, senza alcuna discriminazione.
La Colorado Commission on Civil Rights aveva già sanzionato il pasticciere che si rifiutava di creare torte per matrimoni tra persone dello stesso sesso e, come descritto, la Corte Suprema, decidendo il suo caso, non aveva dato indicazioni chiare in merito alla possibilità di esercitare una sorta di “obiezione di coscienza” in casi simili.
Prima di far partire il nuovo business, Lorie vuole avere la sicurezza di non essere sanzionata; pertanto, chiede alle corti federali un’ingiunzione che impedisca allo Stato di obbligarla a creare siti per matrimoni omosessuali.
La ricorrente e lo Stato, dinanzi ai giudici, concordano su tutte le circostanze di fatto rilevanti: nel suo lavoro, Lorie non discrimina nessun cliente. Si rifiuta, però, di produrre contenuti che contraddicano le verità espresse nella Bibbia, indipendentemente dalla persona che lo chieda. Le sue convinzioni religiose sono sincere. Il suo lavoro è di tipo creativo, offre servizi originali per ogni cliente; quindi, tutte le sue creazioni sono forme di espressioni del pensiero.
Sia la corte di distretto che la Corte di appello del decimo circuito avevano respinto la domanda. I giudici di secondo grado ritenevano che il timore di Lorie fosse fondato e che i siti che la ricorrente avrebbe creato si qualificherebbero come pure speech protetto dal First Amendment, che garantisce libertà di espressione. Tuttavia, secondo la Corte di appello, il Colorado avrebbe soddisfatto lo strict scrutiny, il più severo standard di controllo utilizzato dai giudici federali per verificare la legittimità costituzionale di disposizioni che violerebbero i diritti di rango più elevato. La limitazione alla libertà di espressione della signora Smith sarebbe quindi lecita. Lo Stato avrebbe infatti dimostrato l’esistenza di un compelling governmental interest che non avrebbe potuto essere garantito con misure meno restrittive.
L’opinione della Corte, scritta da Justice Gorsuch e condivisa dal Chief Justice con gli Associati Thomas, Alito, Kavanaugh e Barrett, ribalta le decisioni delle corti inferiori e si basa principalmente su tre precedenti.  In Barnett, nel 1943, la Corte aveva ritenuto una violazione della libertà di espressione l’obbligo, imposto agli alunni di una scuola elementare, di salutare la bandiera e recitare il Pledge of Allegiance
In Hurley, nel 1995, la Corte aveva ritenuta legittima l’esclusione di un gruppo di persone omosessuali dalla parata di san Patrizio organizzata a Boston da un’organizzazione di veterani, affermando la libertà di ciascun gruppo di decidere quale messaggio veicolare nelle loro manifestazioni.
Nel 2000, in Dale, la stessa Corte Suprema aveva ritenuto l’associazione americana dei Boy Scout una expressive association, titolare di una propria libertà di espressione per cui nessuno Stato avrebbe potuto imporre una scelta contraria alle proprie convinzioni. Così era stata rigettata la richiesta di reintegro di un capo scout escluso perché omosessuale.
La Corte, quindi, citando i padri fondatori e i suoi precedenti, afferma che la Free Speech Clause garantita dal First Amendment consista nella “libertà di pensare come vuoi e parlare come pensi”, indipendentemente dal giudizio del governo sulle idee espresse, che non potrà imporre ad alcun individuo di esprimere idee che non condivide.
La Corte Suprema, come aveva già fatto la Corte di appello, qualifica il lavoro creativo della signora Smith come pure speech, forma di espressione tutelata dall’ordinamento. Riconosce, inoltre, che l’Autorità pubblica sia titolare di un compelling interest che consiste nell’eliminare ogni discriminazione nell’usufruire dei pubblici esercizi.
La Corte, tuttavia, ritiene che tale obiettivo non possa essere perseguito obbligando una persona a esprimere supporto a idee che avversa, nemmeno se il lavoro creativo è effettuato dietro versamento di un corrispettivo. Sottolinea quindi l’unicità delle creazioni di Lorie, indisponibili altrove perché espressione della sua “voce”, del suo genio artistico.
Sembra che lo Stato non dia alcuna rilevanza a questa caratteristica del lavoro della signora Smith. Pur concordando con la ricorrente circa la natura “espressiva” delle sue creazioni, il Colorado ritiene che ciò che ella vuole offrire siano semplici servizi, offerti attraverso una società commerciale e, quindi, il suo lavoro non sarebbe protetto dal First Amendment. L’opinione della Corte rigetta queste argomentazioni, richiamando gli elementi di fatto su cui le parti concordano: tutta l’attività lavorativa della ricorrente appare segnata dalla sua volontà di non esprimere opinioni contrarie a quelle in cui crede.
Dunque, se lo Stato imponesse alla 303 Creative di creare siti web per matrimoni tra persone dello stesso sesso, obbligherebbe l’unica proprietaria a esprimere idee allineate alla visione imposta dall’Autorità e questo, per la Corte, viola il First Amendment.
Tutta la dissenting opinion di Justice Sotomayor, condivisa dalle colleghe progressiste, Kagan e Jackson, si basa invece sulla convinzione che la legge del Colorado contro le discriminazioni, il CADA, mirerebbe solamente a reprimere condotte discriminatorie che mai potrebbero essere qualificate come libere espressioni del pensiero protette dal First Amendment.
La legislazione non imporrebbe quindi alla signora Smith di veicolare una determinata idea, ma solamente di offrire a tutti i clienti i suoi prodotti con il medesimo linguaggio. La 303 Creative potrebbe quindi creare solo siti con citazioni bibliche che definiscono il matrimonio come l’unione tra un uomo e una donna, l’importante è che tratti tutti i suoi clienti nello stesso modo. Per questo, secondo Justice Sotomayor, la libertà di espressione ha carattere meramente “incidentale” rispetto alla norma statale che vuole regolare una condotta e non le espressioni delle idee.
Viene per questo citato il caso O’Brien, del 1968, quando la Corte decise che una legge che vietava di bruciare una draft card (cartoline usate per il sorteggio dei riservisti da chiamare alle armi) non violava la libertà di espressione e quindi puniva legittimamente anche chi dava fuoco al documento per protestare contro la guerra in Vietnam. Anche se tale condotta tenuta da O’Brien era certamente espressiva della sua opinione, la legge era giustificata da un interesse sostanziale dell’autorità pubblica, aveva fine generico e non correlato alla limitazione della libertà di espressione, era proporzionata all’obiettivo che si prefiggeva.
Justice Sotomayor avrebbe voluto che si applicasse questo intermediate scrutiny, e non lo strict scrutiny usato dalla Corte, perché l’obiettivo della legislazione contestata non è quello di limitare la libertà di espressione ma solo quello di evitare discriminazioni, interesse sostanziale dell’autorità pubblica che certamente sarebbe meno tutelato senza il CADA.
Justice Sotomayor ritiene che rifiutandosi di creare siti internet per matrimoni omosessuali la 303 Creative non stia solamente rifiutando di esprimere idee contrarie a quelle della sua titolare ma che in realtà stia discriminando le persone e le loro scelte in ambito sessuale.
La Corte Suprema fissa in modo chiaro un principio nel quadro del difficile bilanciamento tra il divieto di discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e le libertà costituzionali: lo Stato non può imporre prestazioni che implichino l’espressione di un pensiero. È un modo per affermare i nuovi diritti “civili” senza annullare quelli “tradizionali”.
Sarebbero certamente differenti le valutazioni qualora le prestazioni oggetto di obiezione fossero “meramente esecutive” come assicurare una stanza di albergo, servire al tavolo dei clienti o fornire servizi cimiteriali.
Dissentiamo rispettosamente da Justice Sotomayor: il fine della Corte non è quello di legittimare la discriminazione delle persone omosessuali ma garantire a tutti di non essere obbligati a creare messaggi contrari alle proprie convinzioni.
L’obiettivo di una società democratica non può essere quello di imporre alcune idee sopprimendo le opinioni diverse ma quello di promuovere la conoscenza delle diverse varietà di vedute e di stili di vita per favorire il rispetto di tutte le persone e delle loro scelte in un contesto pluralista.
La Resistenza ci ha insegnato che quando l’Autorità politica impone opinioni si trasforma in un regime. Scriveva la partigiana Laura Bianchini: «Lo Stato autoritario, comunque si denomini, pretende farsi come un assoluto e sostituirsi alla legge morale della stessa intimità della coscienza, negando in tutto o in parte quei diritti che sono essenziali alla dignità della persona, e senza dei quali non esiste sostanzialmente persona» ( «Libertà», Il Ribelle, 10 giugno 1944, 2).


Senza celebrazioni non si può vivere: la libertà religiosa in tempo di COVID-19 e la Corte Suprema Americana

Questo tempo di emergenza sanitaria affida agli operatori del Diritto la necessità di contemperare le restrizioni indispensabili a contenere la pandemia da COVID-19 con l’esercizio delle libertà fondamentali. Quali siano i “diritti essenziali” e fino a che punto possano essere limitati sono le problematiche conseguenti. 

La prima decisione della Corte Suprema e due differenti approcci
Il primo caso della Corte Suprema USA concernente le restrizioni dovute al COVID-19 riguarda la libertà religiosa. In South Bay, una comunità cristiana della California presentava un preliminary injuctive relief – richiesta di sospensione in via cautelare – avverso un ordine esecutivo del governatore statale che, per prevenire contagi da COVID-19, fissava il limite massimo di partecipanti ad una funzione religiosa pari al 25% della capienza dell’aula liturgica e comunque fino a un massimo di 100 fedeli.
Lo scorso 29 maggio la domanda attorea veniva respinta da 5 giudici. Non veniva fornita alcuna motivazione condivisa dalla maggioranza, come spesso avviene per questi procedimenti cautelari. Tuttavia il Chief Justice Roberts – che aveva respinto il ricorso insieme ai quattro giudici di area progressista – allegava una sua concurring opinion. Il ragionamento è molto semplice: non ci si trova davanti a una “indisputabilmente chiara” limitazione incostituzionale in quanto attività simili di natura “profana”, come concerti, spettacoli cinematografici o teatrali, sono soggette a restrizioni simili o più severe rispetto a quelle religiose. La necessità di provare in modo così stretto – “indisputabilmente chiaro” – l’incostituzionalità delle limitazioni è richiesta dalla giurisprudenza consolidata per l’accoglimento di preliminary injuction relief.
In aggiunta il Chief Justice precisa che il fine ultimo della Costituzione e degli eletti a cariche pubbliche è quello di garantire la sicurezza e la salute delle persone. Quando questi affrontano sfide nuove, in cui le conoscenze medico-scientifiche sono incerte, deve essere loro garantita una larga libertà di azione. Quando non si agisce al di fuori di questi larghi limiti il potere giudiziario federale – formato da persone non elette e mancante delle necessarie competenze scientifiche – deve astenersi da ogni intervento.
Per sintetizzare: il Chief Justice Roberts adotta un “approccio deferente” rispetto alle scelte dei governi statali in tempo di pandemia, per cui uno Stato può ritenere l’esercizio della libertà di culto come “non essenziale” salvo che il ricorrente non provi in modo “indisputabilmente chiaro” l’irragionevole limitazione.
Tale opinione ha avuto notevole successo: secondo Lexis Nexis in soli 6 mesi - tra il 29 maggio e il 29 novembre – essa è stata citata in altri 114 casi riguardanti non solo le limitazioni alla libertà religiosa ma anche alla vendita di armi o alle pratiche abortive (sul punto si veda l’analisi di J. Blackman).
Un approccio diverso rispetto a quello del Chief Justice viene illustrato da Justice Kavanaugh nella dissenting opinion di un caso simile caso successivo, Calvary Chapel, datato 24 luglio 2020. Ad essere oggetto di un preliminary infunctive relief questa volta è una direttiva del Governatore del Nevada che prevedeva la riduzione del 50% della normale capienza di alcune attività come casinò, ristoranti e palestre mentre stabiliva un tetto massimo fisso di 50 presenti per alcuni tipi di eventi come quelli religiosi.
La maggioranza anche in questo caso non forniva alcuna motivazione né veniva allegata alcuna concurring opinion. Justice Kavanaugh nella sua dissenting opinion individua una categoria di norme – come quelle oggetto del contenzioso – che, senza specificare il motivo, dividono le attività in alcune favorite e in altre sfavorite. Così la legislazione del Nevada, più permissiva per ristoranti, banche e casinò e più restrittiva per cinema, teatri e centri commerciali. Justice Kavanaugh ritiene che in questi casi l’attività di religione e di culto goda di un certo favore costituzionale e pertanto è necessario che essa sia ricompresa tra quelle regolate in modo più permissivo.
Per riassumere: secondo Justice Kavanaugh l’esercizio della libertà di culto è “essenziale” – e quindi non limitabile – a meno che lo Stato non provi l’assoluta necessità e la proporzionalità di questa misura.
Questa dissenting opinion tuttavia non è mai stata citata da decisione successive. 

Il caso della Diocesi di Brooklyn e delle Agudath Israel
L’ultimo caso simile a quelli descritti è stato deciso lo scorso 25 novembre, Roman Catholic Diocese of Brooklyn, New York v. Cuomo. Il 6 ottobre 2020 il Governatore di New York ha emesso l’Ordine Esecutivo n. 202.68. Tale provvedimento divide lo Stato in tre aree, caratterizzate da differenti livelli di rischio e, quindi, da restrizioni diverse tra loro. Tali aree sono state da subito identificate con i colori rosso, arancione e giallo (ricorda qualcosa?). Nelle zone rosse l’Ordine Esecutivo impone il limite massimo di 10 partecipanti a una celebrazione religiosa. Nelle zone arancioni tale limite è innalzato a 25 presenti.
La Diocesi cattolica di Brooklyn decideva quindi di impugnare il provvedimento nelle corti federali. In primo grado, la corte del distretto est di New York, il 9 ottobre aveva respinto la domanda di sospensione del provvedimento in via cautelare e una settimana dopo, basandosi principalmente sull’opinione del Chief Justice in South Bay, che garantiva un ampio margine di manovra ai governatori per contenere il contagio da COVID-19, aveva rigettato nel merito la domanda attorea.
Con le stesse motivazioni veniva respinta la richiesta di sospensione cautelare del provvedimento presentata presso la Corte d’Appello del Secondo Circuito, che fissava l’udienza di merito per il 18 dicembre. Nel procedimento cautelare si erano aggiunte altre ricorrenti: alcune unioni di fedeli di religione ebraica (Agudath) di New York.
Sia la Diocesi cattolica che le associazioni ebraiche presentavano quindi ricorso alla Corte Suprema per ottenere la sospensione cautelare dell’Ordine Esecutivo n. 202.68 nella parte in cui imponeva limiti prefissati al numero di partecipanti per ogni celebrazione religiosa.
Il Governatore Cuomo si costituiva nel procedimento e nell’atto di risposta riteneva che non ci fosse una violazione della libertà religiosa “indisputabilmente chiara”. Inoltre, in via preliminare, faceva notare la cessazione dell’oggetto del contendere, in quanto le chiese della Diocesi e le sinagoghe legate alle varie Agudath ricorrenti erano ormai in zona gialla, e quindi ormai escluse dalle stringenti limitazioni. 

Un cambio di rotta
La decisione della Corte Suprema in questo caso rappresenta una scelta di forte discontinuità rispetto alle due precedenti. La sostituzione della compianta Justice Ginsburg con Justice Barrett è stata determinante su questo tema.
La motivazione della Corte viene riportata in una opinione per curiam, quindi non firmata. Non è usuale che la Corte Suprema si esprima in questo modo: succede solo nel 10% delle sue decisioni. Scorrendo la lista degli autori delle concurring e delle dissenting opinion, appare assai probabile che le motivazioni siano state scritte da Justice Alito e da Justice Barrett.
L’opinione per curiam analizza i requisiti richiesti dalla giurisprudenza della Corte perché sia garantito un preliminary injuctive relief: il fumus boni iuris, il periculum in mora, l’assenza di pregiudizi per l’interesse pubblico nel caso in cui la domanda venga accolta.
La probabilità di successo nel procedimento di merito viene ritenuta alta, in quanto a giudizio della Corte i ricorrenti hanno dimostrato che le disposizioni impugnate violano il “minimo requisito di neutralità” nei confronti dell’attività religiosa. Viene infatti seguito quanto stabilito dalla corte nel precedente Church of Lukumi Babalu Aye, Inc: poiché le disposizioni impugnate non sono “neutrali” e “generalmente applicabili” – stabiliscono un limite fisso alla capienza solo per le attività di culto e non per ogni evento al chiuso – è necessario un esame rigoroso circa la loro proporzionalità, cioè è necessario verificare che esse limitino la libertà di culto tanto quanto basta per arginare il contagio.
I giudici notano che altre attività – come gli studi di agopuntura e i centri commerciali – sono regolate da disposizioni più favorevoli. Lo stesso governatore ammette che la maggiore diffusione del virus è avvenuta in fabbriche e scuole e non contraddice le affermazioni dei due ricorrenti secondo cui nessun focolaio si è sviluppato né nelle chiese cattoliche né nelle sinagoghe ultra ortodosse. Inoltre, entrambi i ricorrenti adottano un rigoroso protocollo di prevenzione anti-COVID che già prevede una riduzione della capienza non fissa ma proporzionata alle dimensioni dell’aula liturgica.
Il danno subito a causa delle restrizioni è palese, visto che permette a pochissimi fedeli di essere presenti alle celebrazioni. Interessante è il riconoscimento dell’importanza, tanto per i cattolici quanto per gli ebrei ortodossi, di prendere parte fisicamente alle celebrazioni.
L’interesse pubblico di contenere il contagio non viene pregiudicato dal venir meno di tali rigidi limiti in quanto le celebrazioni della Diocesi e delle Agudath hanno già efficaci protocolli, tanto che nessun focolaio si è sviluppato a causa di esse nello Stato di New York.
In ultimo l’opinione per curiam precisa che la declassificazione a zona gialla delle aree non fa venir meno l’oggetto del contendere, in quanto il Governatore potrebbe subito individuare tali porzioni di territorio come zone ad alto rischio e reintrodurre i limiti eccessivi. Si risponde così alle obiezioni espresse nelle dissenting opinion del Chief Justice e di Justice Breyer (quest’ultimo riprende anche “l’approccio deferente” rispetto alle scelte dei governi statali espresse da Roberts in South Bay). 

Alcune considerazioni
A nostro modesto parere questa ultima decisione della Corte Suprema sa ben contemperare l’esercizio di una libertà fondamentale come quella religiosa con l’esigenza di contenere la pandemia in corso. L’adozione di uno specifico Protocollo, infatti, ha garantito la salute dei fedeli: né nello Stato di New York né in Italia si ha notizia di una persona infettatasi partecipando ad una celebrazione svoltasi nel rispetto delle misure di sicurezza.
Più in generale, a nostro modesto parere una chiusura generalizzata era giustificata all’inizio della pandemia. Nell’attuale situazione è ancora necessario limitare alcuni diritti, tuttavia le limitazioni saranno tanto più comprese e rispettate quanto più mirate e proporzionali. In ogni ordinamento, il compito dei giudici dovrà essere quello di verificare la congruità di tali compressioni stabilite dall’esecutivo.
Recentemente, anche in Francia il Consiglio di Stato ha censurato l’operato del governo nei confronti dell’attività religiosa.
A chi fa notare, come Justice Sotomayor nella sua dissenting opinion nel caso in commento, che mentre teatri e musei sono chiusi le chiese rimangono aperte, sia l’opinione per curiam che la dissenting opinion di Justice Kavanuagh in Calvary Chapel rispondono che l’attività di religione e di culto gode di una particolare protezione da parte della Costituzione.
Rispettiamo l’idea di chi pensa si possa pregare bene a casa e persino in bagno. Tuttavia la Costituzione – americana e anche italiana – garantisce la libertà religiosa anche a chi crede all’importanza di prendere parte fisicamente alle celebrazioni. Del resto, i Padri Pellegrini salparono sulla Mayflower nella speranza di fondare uno Stato che rispettasse la libertà religiosa. Nel 303 i cristiani di Abitene si fecero giustiziare piuttosto che rispettare il divieto di celebrare. Dissero ai loro aguzzini: “Senza la domenica non possiamo vivere”.


La Corte Suprema al cospetto della libertà religiosa

La libertà religiosa è una dei protagonisti ricorrenti di alcuni casi già discussi o in discussione dalla Corte Suprema statunitense in questi mesi: su questo tema ben sette hanno già ottenuto il certiorari e almeno altri tre sono ancora al vaglio preliminare della Corte.
Il rapporto tra tutela dell’orientamento sessuale e rispetto della libertà religiosa è al centro di sempre più numerose controversie a seguito della sentenza Obergefell che nel 2015 ha stabilito che vietare di sposare una persona dello stesso sesso viola il XIV emendamento (sul tema, J. CORVINO – R.T. ANDERSON – S. GIRGIS, Debating Religious Liberty and Discrimination, Oxford 2017 ma anche G. ROMEO, Esercizi di common law constitutional interpretation: Obergefell v. Hodges e il diritto fondamentale al matrimonio tra persone dello stesso sesso, in questo blog, 1 agosto 2015).
Bostock v. Clayton County, Altitude Express v. Zarda, R.G. & G.R. Harris Funeral Homes v. EEOC, tre casi discussi insieme lo scorso 8 ottobre, riguardano la discriminazione nei rapporti di lavoro. Nei primi due, due dipendenti impugnano il loro licenziamento motivato dal loro orientamento sessuale. Nel terzo, un funeral director viene licenziato per presunte motivazioni religiose dopo aver dichiarato al suo datore di lavoro l’intenzione di cambiare sesso. Le corti di appello di ciascun caso avevano sempre ritenuto discriminatorio il comportamento dei datori di lavoro e pertanto avevano condannato le società a risarcire il danno.
In Fulton v. City of Philadelphia la controversia ha origine dalla decisione di un’agenzia cattolica – la Catholic Social Services (CSS), che si occupa di accogliere bambini orfani e selezionare per loro famiglie adottive – di non riconoscere le coppie omosessuali così come le coppie eterosessuali non sposate come famiglie. Per tale motivo essere erano svantaggiate nel procedimento di adozione e per questo nessuno in queste situazioni si rivolgeva alla CSS preferendo una delle altre 30 agenzie che svolgono la stessa attività. Tale scelta è motivata dalla volontà di un ente direttamente dipendente dall’Arcidiocesi cattolica di rispettare la propria morale religiosa. Informate dall’inchiesta di un quotidiano locale, le autorità di Filadelfia per questo motivo si sono rifiutate di rinnovare la convenzione annuale con l’ente cattolico. Tale convenzione prevedeva un contributo pubblico a parziale copertura delle spese del CSS per i servizi offerti alla comunità e che impegnava la stessa agenzia a non avere un comportamento discriminatorio neanche sulla base dell’orientamento sessuale. La CSS contesta il mancato rinnovo della convenzione lamentando la violazione della libertà religiosa dell’istituzione. La corte di distretto e la corte di Appello non hanno accolto la sua domanda. Lo scorso 24 febbraio la Corte Suprema ha deciso di esaminare il caso.
Arlene’s Flowers Inc. v. Washington, anch’esso in tema discriminazione dell’orientamento sessuale e libertà religiosa, ancora attende il certiorari. Questa è la versione “floreale” di Masterpiece Cakeshop v. Colorado Civil Rights Commission, caso deciso dalla Corte Suprema nel 2018 (un nostro commento qui e quello di C. DE SANTIS, “La mia religione non me lo permette”: la Corte Suprema USA fonda il diritto all’obiezione di coscienza nei confronti del matrimonio same-sex?, in questo blog, 25 giugno 2018). All’epoca era un pasticciere che si rifiutava di vendere torte personalizzate per matrimoni tra persone dello stesso sesso. Questa volta, invece, è una fiorista dello stato di Washington a non voler prestare la sua creatività ai nubendi omosessuali adducendo motivazioni religiose. La decisione della Corte Suprema nel 2018, pur favorevole al pasticciere, aveva lasciato aperta la questione centrale: può essere oggetto di obiezione di coscienza la vendita di un determinato prodotto o la prestazione di un determinato servizio a cui si è obbligati per una legge statale pur all’interno di un libero mercato? Se la Corte accetterà di esaminare il caso questo dubbio potrà essere risolto.
Tornerà dinanzi ai supremi giudici anche il contraceptive mandate, cioè l’obbligo per i datori di lavoro di finanziare anche la copertura assicurativa di contraccettivi femminili introdotto con la riforma sanitaria del 2010, l’Affordable Care Act. Nel 2014, in Burwell v. Hobby Lobby, la Corte Suprema aveva accolto le domande di due società commerciali a forte ispirazione religiosa ritenendo il contraceptive mandate contrario ad alcune norme federali. Nel 2016, in Little Sisters of the Poor Home for the Aged v. Burwell la Corte all’unanimità aveva deciso che il governo avrebbe dovuto garantire una piena copertura assicurativa alle donne dipendenti di enti no-profit di ispirazione religiosa senza chiedere alcuna cooperazione ai loro datori di lavoro. Nel 2017 il Dipartimento del Tesoro e quello della Salute hanno stabilito nuove regole estendendo la portata dell’obiezione di coscienza, garantendola su base volontaria e per motivi sia religiosi che filosofico-morali, fornendo comunque alle donne quelle prestazioni oggetto di obiezione. Questi ultimi provvedimenti venivano impugnati dalle autorità della Pennsylvania lamentando la violazione di alcune leggi federali, tra cui l’Affordable Care Act. La domanda veniva accolta dalla corte di distretto e dalla corte di appello. Little Sisters of the Poor Saints Peter and Paul Home v. Pennsylvania sarà discussa il 6 maggio in teleconferenza a causa dell’attuale emergenza sanitaria, l’audio verrà trasmesso in diretta streaming sul sito della Corte stessa. È la prima volta nella storia.
Espinoza v. Montana Department of Revenue riguarda un programma di aiuto finanziario dello stato del Montana che prevedeva un “bonus” da spendere per pagare le rette di scuole private a favore di famiglie con reddito basso. Il Dipartimento delle Entrate, tuttavia, dopo pochi anni anni chiedeva che fosse applicato il Blaine Amendment, emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti proposto alla fine del XIX secolo, approvato in soli 30 stati e mai entrato in vigore a livello federale. Tale disposizione nasceva in un contesto in cui i cattolici venivano accusati di essere più fedeli al Papa che al Presidente in quanto frequentavano le scuole parrocchiali e non quelle pubbliche, per questo motivo l’emendamento vieta il finanziamento di scuole private di ispirazione religiosa. Alcuni di questi istituti impugnavano il provvedimento del Dipartimento delle Entrate che escludeva dal programma di sostegno le famiglie che iscrivevano i loro figli alle loro scuole. La corte suprema del Montana decideva di fermare totalmente l’iniziativa vista la discriminazione tra le scuole private a ispirazione religiosa e le altre. L’udienza della Corte Suprema si è svolta il 22 gennaio scorso; la stessa corte in un caso molto simile del 2017, Trinity Lutheran Church of Columbia, Inc. v. Comer, aveva ritenuto il Blaine Amendment contrario al Primo Emendamento.
Rimanendo nell’ambito scolastico, Our Lady of Guadalupe School v. Morrissey-Berru, riguarda la libertà delle scuole di ispirazione religiosa di scegliere gli insegnanti di religione. La signora Morrissey-Berru ha impugnato il suo licenziamento asserendo di essere stata discriminata per la sua età. Il giudice di distretto, accogliendo l’opinione della convenuta, una scuola cattolica, riconosceva nel caso di specie la ministry exemption, cioè la possibilità per le organizzazioni religiose di non applicare la norma antidiscriminazione nella scelta dei propri “ministri”. A conclusione contraria giungeva la corte di appello, secondo cui le mansioni affidate alla signora Morrissey-Berry – l’insegnamento di storia della Chiesa e di religione cattolica – non la qualificano come “ministro” e quindi gode delle tutele antidiscriminazione. Il caso sarà discusso nell’udienza in videoconferenza dell’11 maggio, l’audio sarà trasmesso in diretta streaming.
Rimangono in attesa di certiorari altri due casi riguardanti la libertà religiosa: Murphy v. Collier e Ricks v. Idaho Contractors Board. Patrick Henry Murphy è detenuto in Texas in attesa della sua esecuzione. Buddista, ha chiesto che un proprio ministro di culto fosse presente nel momento in cui sarà giustiziato, tuttavia le norme texane prevedevano tale possibilità solo per cristiani e musulmani. Dopo un primo ricorso, la Corte Suprema nel marzo 2019 aveva sospeso l’esecuzione affinchè fosse garantita la presenza di un ministro buddista. Il Texas, tuttavia, decideva di proibire la presenza di ogni ministro di qualsiasi religione alle esecuzioni capitali. Per questo il ricorrente si è rivolto nuovamente alla Corte Suprema lamentando ancora una volta la violazione della propria libertà religiosa.
In ultimo, Ricks v. Idaho Contractors Board, nasce da un particolare contesto fattuale: il ricorrente è un aspirante imprenditore a cui è negato registrare la sua società perché le sue convinzioni religiose gli impediscono di usare il Social Security Number e l’Idaho Contractors Board gli nega la possibilità di usare invece il certificato di nascita, come è permesso fare a chi non è cittadino statunitense. La corte di appello statale, così come i giudici di primo grado, ha respinto la domanda di Rick. La Corte Suprema non si è ancora espressa circa il suo certiorari.
L’alto numero di casi riguardanti la libertà religiosa dimostra come esso non sia un diritto obsoleto ma uno “tradizionale” da contemperare con “i nuovi diritti”. Esso sarà quindi un banco di prova per i giudici supremi.


In difesa della libertà religiosa: la Corte Costituzionale e la legge lombarda sull’edilizia di culto

Per la seconda volta in poco più di tre anni la Corte Costituzionale torna a censurare alcune disposizioni relative all’edilizia religiosa della legge urbanistica della Regione Lombardia, l.r. n. 12/2005, così come novellata dalla l.r. n. 2/2015. Essa aveva introdotto, modificando gli artt. 70-72 della “Legge per il governo del territorio”, alcune norme che rendevano più gravoso la costruzione o la semplice apertura di luoghi di culto per le confessioni religiose prive di Intesa con lo Stato ex art. 8 c. 3 Cost.
Con la sentenza n. 63/2016 la Consulta aveva dichiarato incostituzionali alcune norme, tra cui ricordiamo innanzitutto quella che richiedeva che i destinatari della normativa sull’edilizia di culto che non fossero addivenuti alla stipula di un’Intesa con lo Stato fossero in possesso di una serie di requisiti aggiuntivi concernenti la presenza diffusa, organizzata e consistente a livello territoriale, un significativo insediamento nell’ambito del Comune, l’essere dotati di statuti che esprimessero il carattere religioso dell’organizzazione e l’avvenuta stipula di una convenzione ai fini urbanistici con il Comune interessato; l’istituzione di una “Consulta regionale delle religioni” con lo scopo di esprimere un parere preventivo e obbligatorio proprio sui requisiti aggiuntivi citati; l’obbligo di dotarsi di un impianto di videosorveglianza che monitorasse gli ingressi degli edifici di culto (per un commento si veda, tra i tanti, F. Oliosi, “La Corte Costituzionale e la legge regionale lombarda: cronaca di una morte annunciata o di un’opportunità mancata?”, in www.statoechiese.it, 24 ottobre 2016; M. Croce, “L’edilizia di culto dopo la sentenza n. 63/2016: esigenze di libertà, ragionevoli limitazioni e riparto di competenze fra Stato e Regioni”, in www.forumcostituzionale.it, 3 maggio 2016).
La seconda sentenza della Corte Costituzionale che censura disposizioni relative all’edilizia di culto contenute nella Legge lombarda per il governo territorio così come modificata dalla l.r. n. 2/2015 è la n. 254/2019 dello scorso 5 dicembre.
I fatti che portano alla pronuncia in commento afferiscono a due diversi procedimenti dinanzi al TAR Lombardia. Nel primo l’Associazione Culturale Madni impugna l’atto del Comune di Castano Primo (MI) che annulla il permesso di costruire al fine di adibire un complesso immobiliare ad attività di culto. Il provvedimento è motivato dalla necessità della preventiva approvazione da parte del Comune del Piano di Attrezzature Religiose (PAR), così come stabilito dall’art. 72 c. 1 e 2 della citata legge per il governo del territorio così come modificati dalla l.r. n. 2/2015. Tuttavia il Comune decideva di non dotarsi del PRA, e quindi all’associazione islamica veniva di fatto vietato di procedere con i lavori necessari all’apertura di un luogo di culto.
Il secondo procedimento ha origine nel 2011, nel corso dell’elaborazione del Piano di Governo del Territorio del Comune di Sesto Calende (VA). Nel corso di tale procedura amministrativa, l’Associazione Culturale Islamica Ticinese, formata da circa trecento persone di religione islamica residenti prevalentemente in quel Comune, chiedeva che fosse prevista un’area per il culto islamico. Il successivo diniego veniva impugnato dall’Associazione dinanzi al TAR che nel 2013 accoglieva le doglianze e successivamente nel gennaio 2015, a causa dell’inerzia del Comune, indicava le modalità per l’esecuzione della precedente pronuncia. Ma l’intervento delle novelle previste dalla l.r. 2/2015 subordinava di fatto il diritto dell’Associazione ad avere spazi per il culto all’approvazione del Piano di Attrezzature Religiose che ai sensi del nuovo art. 72 c. 5 doveva essere approvato obbligatoriamente insieme al PGT oppure singolarmente ma solo entro diciotto mesi dall’entrata in vigore della l.r. 2/2015. Tale scadenza spirava senza che il Comune di Sesto Calende intervenisse, e quindi l’Associazione islamica rimaneva senza spazi per il culto.
Il giudizio della Corte Costituzionale ha quindi ad oggetto l’art. 72 c. 2 della l.r. 12/2005 così come novellato dalla l.r. 2/2015, che stabilisce l’obbligatorietà del PAR per l’installazione di nuove attrezzature religiose.
Parimenti, ha ad oggetto l’art. 72 c.5 della stessa l.r., anch’esso novellato nel 2015, che prevedeva l’obbligo di approvare il PAR congiuntamente al PGT oppure singolarmente ma solo entro diciotto mesi dall’entrata in vigore della l.r. 2/2015.
Il ragionamento della Corte parte dall’affermazione che la libertà religiosa garantita dall’art. 19 Cost. è “un diritto inviolabile tutelato al massimo grado dalla Costituzione”. Viene richiamato quindi il principio enucleato da consolidata giurisprudenza della Consulta, secondo cui lo Stato non è indifferente di fronte all’esperienza religiosa dei cittadini, ma ha il dovere di tutelare il pluralismo, “a sostegno della massima espansione della libertà di tutti, secondo criteri di imparzialità” (si vedano le sentenze della Corte Costituzionale nn. 203/1989; 440/1995; 329/1997; 508/2000; 63/2016; 67/2017).
A nostro modesto parere, la definizione “laicità dello Stato”, seppur usata dalla Consulta fin dalla sentenza n. 203/1989, potrebbe essere facilmente fraintesa. Tale termine, infatti, non è mai usato dalla Costituzione e potrebbe alludere alla Laïcité francese, che tende a sterilizzare lo spazio pubblico da ogni presenza religiosa rinchiudendola quanto più possibile nella sfera privata. Sarebbe forse meglio definire questo principio “tutela della libertà religiosa”. È una questione di mera nomenclatura, al solo fine dir non creare confusione e infondere nell’opinione pubblica convinzioni estranee – se non contrarie – al nostro ordinamento costituzionale, come il dovere di indifferenza dello Stato dinanzi all’esperienza religiosa.
La Corte dunque afferma che il libero esercizio del culto è un aspetto essenziale della libertà religiosa, garantito specificamente dall’art. 19 Cost. Da ciò consegue il diritto delle comunità religiose di disporre di spazi adeguati per poter concretamente esercitare il culto pubblico, che altrimenti sarebbe impossibile. Le autorità pubbliche a cui spetta di regolare l’uso del territorio hanno quindi un duplice dovere: in positivo esse devono prevedere e mettere a disposizione spazi pubblici per attività religiose; in negativo non devono frapporre ostacoli ingiustificati all’esercizio del culto nei luoghi privati e che non discrimino le confessioni nell’accesso agli spazi pubblici.
Tale divieto di discriminazione non comporta l’obbligo di garantire a ogni singola confessione presente su un determinato territorio la stessa quota di contributi, spazi o altre risorse limitate disponibili; si dovranno invece valutare tutti i pertinenti interessi pubblici dando adeguato rilievo alla presenza, alla consistenza, all’incidenza sociale della singola confessione religiosa e alle esigenze di culto riscontrate nella popolazione.
Alla luce dei principi citati, appare chiaro che il Piano per le Attrezzature Religiose possa essere in astratto uno strumento legittimo per perseguire le finalità urbanistiche proprie dei Comuni – che devono tendere al corretto insediamento nel loro territorio delle attrezzature religiose – tenendo adeguatamente conto della necessità di favorire l’apertura di luoghi di culto destinati alle diverse comunità religiose.
Tuttavia la previsione del citato art. 72 c.2 subordina l’installazione di qualsiasi attrezzatura religiosa all’esistenza del PAR. Tale disposizione appare assoluta e tale da comprendere indistintamente tutte le nuove attrezzature religiose, indistintamente dal loro impatto urbanistico che può essere potenzialmente irrilevante: persino la destinazione di una piccola sala alla preghiera privata di una comunità religiosa dovrebbe essere prevista dal PAR.
Al contrario, tutte le attività di un’associazione non religiosa potrebbero essere svolte in un immobile liberamente localizzabile sul territorio comunale nel solo rispetto delle generali previsioni urbanistiche. Similmente, le altre opere di urbanizzazione secondaria come le scuole, gli ospedali o le palestre non sono vincolate da una specifica e preventiva pianificazione, pur potendo presentare un impatto urbanistico rilevante.
È chiaro, quindi, che le finalità perseguite dall’obbligo di previsione da parte del PAR di ogni tipo di attrezzatura religiosa sono diverse da quelle meramente urbanistiche, ma mirano a limitare e controllare l’insediamento di nuovi luoghi di culto, in netto contrasto con il dovere costituzionale posto a capo dell’autorità pubblica di favorire il pluralismo religioso.
L’obbligo di approvare il PAR con il PGT, ex art. 72 c.5, renderebbe tale limitazione molto più stringente visto che l’approvazione di questi atti dipende esclusivamente dalla volontà politica, essendo quindi incerta sia riguardo all’an che al quando: un Comune potrebbe non adottarlo mai e quindi impedire l’installazione di nuove attrezzature religiose, come avvenuto a Castano Primo (MI) nei fatti che hanno portato alla pronuncia in commento.
Proprio tale inscindibile legame tra PAR e PGT impedisce la realizzazione di un’attrezzatura religiosa persino con una semplice variante parziale – qualora essa sia necessaria – mentre la stessa l.r. 12/2005 prevede, all’art. 9 c.15, che le realizzazioni di attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale non comportino l’applicazione di variante ma siano autorizzate con deliberazione motivata del consiglio comunale.
Ancora una volta sono trattate con sfavore l’installazione di attrezzature che, per loro natura, dovrebbero essere favorite dalle autorità pubbliche che regolano l’uso del territorio.
Per queste ragioni sia l’art. 72 c. 2 che l’art. 72 c. 5 – nella sola parte in cui prevede che PGT e PAR siano approvati obbligatoriamente in modo congiunto – vengono ritenuti contrari al principio di libertà religiosa stabilito dall’art. 19 Cost., nonché agli art. 2 e 3 Cost. dato che impongono alle confessioni religiose gravami superiori a quelli prescritti alle altre organizzazioni per l’edificazione di strutture destinate alle loro finalità proprie.
Con la sentenza n. 254/2019 la Corte ha ribadito la rilevanza pubblica del fenomeno religioso, riaffermando l’obbligo dello Stato di favorire l’apertura di luoghi di culto destinati alle diverse comunità religiose e precisando che il compito delle autorità locali è esclusivamente quello di perseguire finalità urbanistiche e non selezionare le comunità religiose che possono liberamente esercitare il loro culto.